Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione settima

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LEZIONE SETTIMA


Raccomandandosi il Poeta nostro, mentre ch’egli per la paura di quella affamata lupa rovinava al basso, a Virgilio il quale se gli era offerto innanzi agli occhi, gli disse, per non avere conosciuto chiaramente quel che egli fusse rispetto a l’oscurità del luogo:

Qual che tu sia, o ombra o uomo certo,

intendendo, per uomo certo, uno uomo reale e vero d’ossa e di carne, e per ombra, qualche impressione fatta nell’aria, a guisa di certi nugoli, i quali hanno alcune volte effigie di uomo, di animale e d’infinite altre cose; o veramente qualche spirito, il quale avesse formato un corpo fantastico o d’aria o d’altro, come si legge nelle sacre lettere aver fatto più volte, per promissione di Dio, il demonio. Per la qual cosa il Salvator nostro, acciocchè i suoi Apostoli non pensassero, la prima volta ch’egli apparse risuscitato, ch’ei fusse una di queste simili apparizioni, come ei fecero mentre ch’egli era vivo, veggendolo andar su per l’acque del mare, disse loro: palpatemi e toccatemi; imperò che gli spiriti non hanno carne nè ossa, come voi vedrete avere me. E perchè ombra significa propiamente quelle imagini oscure, che fanno di loro in terra o altrove i corpi solidi e densi, per non poter penetrargli la luce, come ella fa i diafani e transparenti; onde disse leggiadramente il Petrarca in un esso sonetto:

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e le ombre così fatte non son cose solide o palpabili, noi pigliamo ancor per ombra, metaforicamente e per similitudine, ogni cosa che apparisca al vedere, e non sia similmente palbabile e solida; e particularmente gli spiriti e le anime sciole e libere da’ corpi, non si potendo, quando elle appariscono altrui, toccare, essendo elleno simili a una nebbia e a un nugolo. Laonde fu detto da esso nostro Poeta nel secondo capitol del Purgatorio, quando ei riscontrò Casella, stato già suo grandissimo amico in vita (a imitazione di Virgilio, il qual disse ancora egli nel fine del secondo:

Ter conatus ibi collo dare brachia circum,
Ter frustra comprensa manus effugit imago)

O ombre vane, fuor che nello aspetto!
     Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
     E tante mi tornai con esse al petto;

e da M. Francesco Petrarca, nel Trionfo dell’Amore:

Un’ombra, alquanto men che l’altre trista,
     Mi si fe’ incontro, e mi chiamò per nome,
     Dicendo: questo per amar s’acquista.

Avendo adunque Dante, per non aver conosciuto distintissimamente Virgilio, usato in raccomandandosegli le parole scritte nel testo, e volendo Virgilio nel rispondergli sadisfare la prima cosa a la sua dubitazione, gli dice, per non essere propiamente Virgilio, ma la sua anima: non uomo, cioè sono, per la figura ellissi, ma uomo fui; e questo fu quel tanto che io stetti in vita insieme col corpo, dimostrando, come è il vero, che nè l’anima nè il corpo è per sè stesso l’uomo, ma quel terzo e quel composto il quale resulta dell’una e dell’altro uniti insieme. Laonde fu detto dal Filosofo nel primo Dell’anima, che chi dicesse: l’anima mia odia o ella ama, farebbe quel medesimo errore, che chi dicesse: ella fila o ella tesse; conciosia cosa ch’ei non sia nè l’anima, nè il corpo solo, quello che opera, ma amendue queste parti congiunte e unite insieme; e questo tal composto è quel che si chiama uomo, detto così da l’umanità della sua natura, per rispetto della quale egli è animale sociabile, e vive in compagnia delli altri, e non soli[p. 105 modifica]tariamente a guisa di fiera salvatica; e veramente da la terra, chiamata da i latini humus, per essere egli stato creato primieramente di quella da Dio; per il che fu risposto meritamente da detta ombra nella maniera che dice il testo. E se bene Dante non restò però, saputo ch’egli ebbe tal cosa, di chiamarlo ancora poi Virgilio, come ei fa ancora sempre la maggior parte de l’anime ch’egli trova, chiamandole col nome ch’ebbe il composto, egli lo fa per esser l’anima la principale e più nobil parte d’esso uomo, e per esser cosa conveniente nominare un tutto da la parte sua principale e più nobile; e tanto più essendo peripatetico, e dicendo Aristotile, che ciascuna cosa si chiama e pare che sia quello ch’è principale in lei. Ma perchè qui potrebbe nascere questo dubbio: come Dante, se quella era l’anima sola di Virgilio, potesse vederla, essendo l’anime nostre incorporee, e conseguentemente invisibili, conciosia che la potenza nostra visiva non vegga altro che i colori, e questi sieno gli obbietti propii, e se ella vede quantità e figure, le vede solamente in quanto elle sono colorate, e i colori non si ritruovano altrove che ne’ corpi, o per meglio dire nelle superficie di quegli; mi pare necessario, innanzi che noi andiamo più oltre, considerare alquanto il modo, mediante il quale vuole e tiene il nostro Poeta, che dette anime, ancora ch’elle non sieno corporee, possino essere vedute dagli occhi nostri. Per il che fare è di mestiero ridursi a memoria quello ch’egli dice nel canto venticinquesimo del Purgatorio, ove ei mostra che l’anime, quando elle escono de’ corpi, ne riportan con loro tutte quelle potenze, le quali appartengon propiamente a loro; e queste sono, come dice sopra questo luogo il Nipote, l’intelletto, la volontà e la memoria; e l’altre, cioè le potenze sensitive, vuole che si corrompino e manchino al tutto insieme con il loro corpo, in quel propio modo che si corrompono ancor naturalmente gli accidenti nella corruzione e nella destruzione del loro subbietto. Niente di manco ei vuole che tali potenze rimanghino in loro, almanco in virtù e in potenza,1 se non in atto e realmente, come quelle [p. 106 modifica]prime; nella qual maniera arrivando o alla riva di Caronte per passare a l’Inferno, o a quella donde le leva l’Angelo per passarle al monte del Purgatorio o mandarle alla gloria divina, egli vuole ch’elle sieno subito quivi (per usar le parole sue medesime) circunscritte da ’l luogo, cioè diventino in certo modo corporee; conciosia cosa che non essendo altro il luogo, che una superficie d’un corpo, la quale circonda toccando per tutto di tal sorte la superficie della cosa locata, ch’ei non è in mezzo di loro alcuna altra cosa, e non si concedendo (come è notissimo) nella natura il vacuo, segue di necessità, che tutte le cose che sono abbracciate e circundate dal luogo sieno cose corporee. E se ei si dice tal volta di Dio e d’uno Angelo, ch’egli è in qualche luogo particulare, ei non si ha a intendere, non essendo alcuno di loro corpo, che ei sien circundati e circunscritti in quel luogo, come un corpo; ma perchè egli appariscono e si veggono più quivi che altrove l’operazioni loro, ei si dice per metafora, ch’ei son quivi, come ne dimostrò chiaramente il nostro Poeta, quando ei disse nell’undicesimo capitolo del Purgatorio a questo proposito, che l’anime de’ superbi andavano orando in questa maniera:

O padre nostro, che ne’ cieli stai,
     Non circunscritto, ma per più amore,
     Che a’ primi effetti di lassù tu hai.

Tiene adunque finalmente questa opinione il Poeta nostro, che subito che l’anime escono de’ corpi, elle sieno menato secondo i loro meriti o ala rive de l’Inferno o a quella del Purgatorio; nel qual luogo ciascuna sia subitamente, per promissione della divina giustizia, circundata e circunscritta da ’l luogo, e ciò avvenga loro per formarsi ciascuna di loro un corpo di quella aria la quale è loro vicina, costringendola e condensandola insieme; onde egli apparisce di subito colorito, in quel propio modo che fa ancor parte d’essa aria ingrossata ne’ tempi piovosi, onde riceve da’ raggi del sole quella varità de’ colori, che noi chiamiamo vulgarmente l’arcobaleno. E questo vuole che faccino esse anime con quella medesima virtù informativa, ch’elle si fabbricarono ancora il corpo carnale de’ sangui materni. Nel qual corpo aereo ei vuole di poi che [p. 107 modifica]elle si organizzino (per usar le parole sue) tutti i sensi e tutte l’altre cose, le quali erano prima in loro, in virtù e in potenza, infino al parlare e a il ridere e il piangere, e in questa maniera apparischino di poi e sieno vedute e sentite da noi. La quale opinion è molto simile a quella de’ Platonici, i quali vogliono che le nostre anime, innanzi ch’elle entrino ne’ nostri corpi, e dipoi ancor quando elle ne sono uscite, sieno circundate da uno certo corpicello aereo, chiamato da loro veiculo, nel quale elle possono andare, come scrive il Leonico in quel suo dialogo De tribus vehiculis, attorno per questa nostra aria, a vedere e sentire i fatti degli uomini, e così ancora essere veduto e sentito similmente da noi. Nè è, oltre a di questo, ancor contro a l’opinione de’ teologi della reigion nostra, tenendo eglino comunemente, che ogni volta che gli Angeli si son voluti dimostrare agli uomini, eglino si abbino (concedendolo loro però Dio) fabbricato uno corpo d’aria, nel quale eglino sono dipoi stati veduti, e hanno favellato e fatto tutte quelle operazioni, ch’ei sono stati mandati a fare nel mondo; e così ancor similmente quelle anime che sono apparite molte vole per promissione di Dio agli uomini. E in questo modo vide il Poeta nostro l’ombra e l’anima di Virgilio, e gli fu risposto da lei le parole dichiarare di sopra, e di più descrittegli tanto largamente ch’ei fosse, da ’l padre, da la madre, da la patria, da ’l tempo nel quale egli nacque e visse, da la professione ch’egli fece e da l’opere ch’egli compose, ch’ei conobbe manifestamente ch’egli era Virgilio, nato in una villa presso Mantova, chiamata anticamente Andes (e oggidì Pietola) insino l’anno sessantotto innanzi la natività di Cristo, e condottosi da poi ch’egli ebbe dato molto tempo in Cremona, in Milano e in Napoli, opera a gli studii, finalmente in Roma, ove egli divenne per le molte virtù se accettatissimo e familiarissimo d’Ottaviano Imperatore. Descrivesi2 adunque Virgilio, per tornare al testo, primieramente da ’l padre e da la madre, dicendo:

E gli3 parenti miei furon Lombardi.
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Imperò che se bene questa voce parenti significa principalmente nella nostra lingua tutti i consanguinei e tutti i congiunti, ella significa ancora, come ella fa appresso a’ latini, il padre e la madre; e in questo significato l’usa qui il Poeta, e l’usò ancora M. Francesco Petrarca, quando ei disse:

Non è questa la patria, in ch’io mi fido,
Madre benigna e pia,
Che cuopre l’uno e l’altro mio parente?

Ma qui nasce bene questo dubbio: come Dante faccia chiamare a Virgilio i genitori suoi Lombardi, non si chiamando a tempo d’esso Virgilio quella provincia così; conciosia ch’ella acquistassi tal nome da certi popoli, chiamati Longobardi, i quali usciron della Scandia, o vero Scandavia, peninsula grandissima del mare Germanico; luogo, come scrive Paulo Diacono, se bene egli è freddissimo per essere molto settentrionale, tanto atto alla generazione, che i popoli vi multiplicano di sorte, che ei son forzati molte volte a uscirne parte di loro, e andare ad abitare altri paesi, come feciono questi Longobardi; i quali passarono in Italia l’anno settecentocinquanta dopo la natività di Cristo, al tempo di Giustino Imperadore e di Papa Giovanni terzo, e presero in breve Cremona, Mantova, Pavia e quasi tutta la Marca Trivisana; e tenendo il loro capo, chiamato Re de’ Longobardi, in Pavia, stettono quivi fino a tanto che Carlo Magno riprese tutte quelle città, e menonne Desiderio, loro re, seco prigione in Francia. Laonde, rimanendo quivi quelle genti, cominciò a chiamarsi quella provincia Lombardia. Come potette adunque (dicono alcuni) Dante, volendo osservare quel decoro che ricercano i poemi ben considerati, far chiamare a Virgilio i suoi genitori Lombardi, se quella provincia non acquistò tal nome se non passati più che ottocento anni dopo la morte sua? A la quale dubitazione risponde lo espositore moderno dicendo, che Dante fece tal cosa a imitazione di Virgilio, il quale induce ancora egli nella sua Eneide Palinuro, nocchiere d’Enea, a chiamare porto Velino, il quale non aveva ancora egli a tempo suo tal nome, solamente per contrassegnarlo (come espone Servio tal luogo) [p. 109 modifica]da ’l nome stesso della età di esso Virgilio; e però Dante soggiugne di subito, per levar via tale ambiguità:

Mantovani per patria ambedui,

descrivendosi secondariamente da la patria sua propia, la quale fu, come è notissimo a ciascuno, Mantova, città antichissima e nobilissima di Lombardia. De l’origine e ampliamente della quale trattano tanto a lungo gli espositori, ch’ei mi pare cosa superflua il ragionarne. Ma io vo’ ben dire, per risposta di tal dubitazion, che stando la posizione di Dante, che l’anime si organizzino in quel corpo, ch’elle si forman d’aria, nuovi strumenti e nuovi sensi da vedere e intendere e conoscere le cose sensibili, questo dubbio è al tutto di nessun valore; conciosia ch’elle possino mediante tali sensi vedere e saper quel che fanno di mano in mano gli uomini, e chiamar conseguentemente i luoghi e l’altre cose co’ nomi ch’elle si chiamano tempo per tempo. Descrivesi di poi Virgilio, nel terzo luogo, da ’l tempo nel quale egli visse e stette al mondo, dicendo:

Nacqui sub Julio, ancor ch’ei4 fusse tardi,
     E vissi a Roma sotto il buon Augusto;

mostrando come ei nacque nel tempo che Julio Cesare era ancor Julio, cioè non ancora dittatore di Roma. Imperò che ei nacque, mentre che erano consoli Pompeo e Crasso, circa a dieci anni innanzi che Cesare pigliassi la dittatura perpetura di Roma: ancora che tardi; la qual cosa è detta da lui, rispetto al veder Cesare trionfante, come dice lo espositore moderno, e non a l’esser nato vicino a la morte di Cesare; e vissi e abitai in Roma nel tempo di Cesare Augusto, chiamato da lui buono, più tosto per la utilità sua particulare, essendo egli stato grandemente beneficiato e onorato da lui, che per ch’egli fusse chiamato comunemente così dagli altri; la qual cosa dimostrano chiaramente le acclamazioni fatte dipoi, nelle elezioni degli altri Imperadori, da ’l popolo romano; nelle [p. 110 modifica]quali usava dice ciascuno per buono augurio della città di Roma: sia più felice d’Augusto, e migliore di Traiano;

Al tempo degli Dei falsi e bugiardi,

cioè della falsa e vana credenza de’ gentili, gli Dei de’ quali egli chiama, secodo alcuni, falsi e bugiardi per gli ambigui e confusi risponsi ch’ei davano quando eglino erano pregati e interrogati da gli uomini; ma io, pensando altrimenti, credo che Virgilio dicesse tal cosa, illuminato e mandato da Beatrice a Dante, per cominciare a indurlo nella certezza della fede cristiana, mostrandogli come la religione de’ Romani, i quali erano stati tenuti i maggiori uomini del mondo, e così ancor conseguentemente quella de’ Greci, ch’erano stati tenuti i più savi, avendo ancora eglino avuti i medesimi Dii, era bugiarda e falsissima.

Descrivesi di poi nel quarto luogo da la professione ch’ei fece, la quale fu dare opera a gli studii della poesia, della quale vi è stato da me ragionato di sopra a bastanza; e di poi nel quinto e ultimo, da le opere ch’egli compose, nominando solamente, per essere ella stata la maggiore e la più apprezzata, la Eneide, ancora ch’egli la lasciasse, sopraggiunto da la morte, imperfetta e senza fine; nella quale, seguitando il costume de’ poeti (i quali, essendo mossi quando e’ fanno i loro poemi, come scrive Platone, da furore e forza divina, si dice ch’ei cantano) non dice ancora: io scrissi, ma: io cantai di Enea, dicendo:

Poeta fui, e cantai di quel giusto
     Figliuol d’Anchise, che venne da Troia,
     Quando5 il superbio Ilion fu combusto.

La istoria di Enea, figliuolo d’Anchise, e come egli dopo l’essere stata distrutta e arsa da’ Greci Ilio, città superbissima di Troia, provincia dell’Asia, se ne venisse in Italia, e da i suoi discendenti avesse di poi principio la città di Roma, è stato trattato distesamente e a bastanza nel suo comento da M. Cri[p. 111 modifica]stofano Landino. Per la qual cosa, lasciando noi il più favellarne, noteremo solamente, come Enea è chiamato qui da ’l Poeta giusto, per essersi veduto risplender grandemente in lui due delle prime e principali parti della iustizia; e queste sono la religione e la pietà. Imperò che non essendo altro la iustizia, come sa ciascuno, che una ferma e perpetura volontà, o veramente virtù, la qual rende a ciascuno quello che sì gli conviene ed è suo, e rendendo la religione i debiti onori a Dio, e la pietà a’ progenitori, vengono a essere ancora queste due virtù similmente o iustizia o parti di quella. La prima della quali, cioè la religione, dimostrò Enea, quando, veggendo saccheggiare Troia, egli ebbe più cura di salvare le immagini de gli Dei familiari, acciò che ei non fusser disonorati in quelle, che le altre cose sue propie. E la seconda, che è la pietà, quando egli entrò nel mezzo delle fiamme, ardendo già tutta la città, per cavarne la persona del padre, stimando più il salvare la vita di quel vecchio, che la sua propia. Per le quali cagioni egli fu dipoi chiamato da Virgilio il pio, e qui da ’l nostro Poeta il giusto.

Dopo le quali cose, parendo a Virgilio aver risposto a bastanza a la prima domanda, egli gli dice, per cominciare a far lo officio per il quale egli era stato mandato da Beatrice:

Ma tu perchè ritorni a tanta noia?
     Perchè non sali il dilettoso monte,
     Ch’è principio e cagion di tutta gioia?

Dove egli gli domanda primieramente, così con un certo modo di riprenderlo e mostrargli ch’ei non doveva far così, quale sia la cagione, ch’egli ritorni a tanto travaglio e tanta noia, quanto era quella ch’egli aveva sopportata mentre ch’egli era camminato per quella valle così oscura; e dipoi, perchè egli non sèguiti di salire al monte dilettoso, e ch’è il principio di tutta gioia, cioè di tutti i contenti e della vera e somma felicità; conciosia che da ’l lume de’ raggi del divino sole, da i quali era illuminato quel monte, e quel discorso che si era attraversato al cammino fatto insino allora da Dante nella confusione, nasca dipoi la fede, e da lei la carità e la spe[p. 112 modifica]ranza, le quali virtù tengono in questa vita contento e fermo l’intelletto e l’animo de l’uomo, e fannolo dipoi nell’altra e felicissimo e beatissimo; per il che è chiamato tal discorso e tal conoscimento da Virgilio principio d’ogni contento e d’ogni letizia; chè così significa, nella nostra lingua, questa voce gioia. Le quali parole udendo Dante, e conoscendo come egli era stato tanto studioso, gli rispose con una certa amorevole e lieta maraviglia:

Or se’ tu quel Virgilio, e quella fonte,
     Che spande di parlar sì largo fiume?

essendo Virgilio certamente uno di quegli scrittori, da i quali esce una grande e larga copia di eloquenza e d’arte oratoria, a guisa che escono i fiumi da i vivi fonti. E perchè egli, subito ch’ei lo conobbe, si vergognò alquanto d’esser trovato da lui in un luogo così oscuro e diserto, e di più avere smarrita la diritta strada; e la vergogna, come io vi dissi altra volta, si dimostra e apparisce nel volto; egli soggiugne:

Risposi io lui6 con vergognosa fronte.

Dove è da notare, che questo modo di porre questo caso obliquo senza questa particella a, come è quivi per a lui, era molto in uso in quei tempi; e per tal cagione è usato e qui e in molti altri luoghi da ’l Poeta. Il quale cercando, come è costume de’ buoni rettorici, di rendersi in questo affronto, benevolo Virgilio con il lodarlo, soggiugne subitamente:

O degli altri poeti onore e lume,

chiamandolo così, per potersi sicuramente dire che i suoi poemi sieno tali, che la vera e perfetta poesia latina abbia avuto lume solamente da lui. Imperò che, se bene i latini ebbero, innanzi a lui, Livio Andronico, Ennio, Lucrezio e molti altri poeti, ei non ebbero mai alcuno della perfezione, della quale fu Virgilio. Laonde gli sono dette meritatamente tali parole da Dante, il quale dopo lo averlo chiamato con tanto grandi e [p. 113 modifica]onorati nomi lo prega (per muoverlo a compassione di sè stesso, onde gli sia da lui aiuto) che quello amore, il quale lo ha fatto leggere con tanto studio l’opere e gli scritti suoi, gli vaglia e possa alquanto appresso di lui; e ch’egli solo è il suo maestro, e quello da chi egli ha apparato quello ch’egli sa (non significando altro questo nome maestro, che colui che insegna al discepolo), e il suo autore; la qual voce, secondo che la espone e dichiara Dante medesimo nel sesto capitol della terza parte del suo Convivio, ha due significati sì come ella deriva ancora similmente da due principii. Imperò che in quanto ella nasce da un verbo antichissimo, molto tralasciato da l’uso de’ grammatici, il quale significa legare parole, ella significa poeta, essendo quegli i poeti, che con la loro arte dell’armonia legano e acconciano bene le parole insieme. E in quanto ella discende da Authetin, verbo e parola greca, che significa degno di fede e d’obbedienza, ella significa uomo di tanta fede, ch’ei si debbe stare e credere a la sua autoritade; onde dice:

     Vagliami il lungo studio e il grande amore,
     Che mi ha7 fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e il mio autore,
     Tu se’ solo colui, da cui io tolsi
     Lo bello stile, che mi ha fatto onore;

affermando ancora dipoi, che se egli aveva scritto cosa alcuna degna di lode, ciò era nato per avere imitate l’opere, e gli scritti di esso Virgilio, disponendo ed esprimendo i suoi concetti con l’ordine e con lo stile ch’egli aveva tolto da lui; avendo egli di già composta la Vita nuova, e tanti sonetti e canzoni, che la fama sua era assai bene divulgata e in pregio. E così espongo io questo luogo, senza avere a intendere il tempo preterito per il futuro, come fa il Boccaccio, il quale espone che mi ha fatto onore per mi farà, e senza averlo a scusare, come fa lo interprete moderno, il quale dice ch’ei parla così per quella figura che il Linacro, diligentissimo grammatico moderno, chiama enallage e scambiamento di tempi. Dopo le quali [p. 114 modifica]cose egli mostra a Virgilio, rispondendo a la dimanda fattagli da lui, la cagione che non solamente lo ritiene, ma che lo fa ritornare così a poco a poco al basso, dicendo:

Vedi la bestia, per cui io mi volsi,

cioè quella magra e affamata lupa, la quale gli porgeva tanto di gravezza, con la paura che usciva della sua vista, ch’ella lo ripigneva a poco a poco, dove non risplendevano e non facevano più lume i raggi del sole; da la quale, da poi ch’egli gli ebbe dimostrato la fierezza e la forza di quella, egli lo prega affettuosamente che lo aiuti, dicendo:

Aiutami da lei, famoso saggio,
Ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi;

cioè induce paura e timore in tutte le mie potenze e sensitive e capaci di ragione, intendendo per le vene, le potenze sensitive; conciosia ch’elle sieno i vasi dove sta il sangue, il quale è cagione del sentire, onde si vede che tutte quelle parti sono prive di sangue, come sono l’ossa, i calli, l’unghie e simili, sono ancora similmente prive di senso, per il che non si sente dolore alcuno tagliandole; e per i polsi, che sono i vasi ne’ quali sta lo spirito, le potenze spirituali e capaci di ragionare. E qui pone ultimamente il Poeta fine a le parole sue; nel quale parlare nota e avvertisce con gran diligenza il Landino, Dante avere fatta una orazione perfettissima in genere demonstrativo. Il fine del quale dicono i rettorici essere, persuadere una cosa come onesta e giusta, o dissuaderla come inonesta e ingiusta. Volendo adunque persuader Dante a Virgilio, ch’egli lo difendessi da quella lupa, fa prima il proemio, dove egli s’ingegna renderselo, col lodarlo, e attento e benevolo; di poi gli dimostra come tal cosa gli è facilissima, dicendogli che essendo stata tanto grande la sua dottrina, ch’ella ha fatto lume a tutti gli altri poeti, ella doverrà far ancor facilmente lume a lui in mostrargli la via, ch’egli abbia a tenere, a scampar da tanti pericoli; e ultimamente, come la causa sua è giusta, dicendo che avendo egli portato tanta reverenza e tanto amore a l’opere sue, ch’egli [p. 115 modifica]aveva posto in quelle un lungo e diligentissimo studio, pareva che la giustizia ricercasse, ch’ei dovesse essere ancora aiutato ne’ suoi bisogni da lui, essendo cosa, non che ragionevole, quasi che dovuta, aiutare e favorire chi favorisce e ama ancora egli te. Dopo le quali parole Dante, constretto e commosso da la pietà di sè stesso per lo stato nel quale ei si trovava, e per dare ancor maggior forza e maggiore efficacia a’ preghi suoi, gittò fuori de gli occhi (come si cava da ’l testo) alquante lagrimette, accompagnando con esse le sue parole. Il che veggendo Virgilio gli rispose, che se ei voleva scampare da quel luogo selvaggio e deserto, gli bisognava tenere altra strada. Imperò che quella bestia, della quale ei temeva, era ancora di molto peggior natura e molto più pericolosa e più cruda che egli non pensava; onde sèguita il testo:

A te convien tenere altro viaggio,
     Rispose poi che lacrimar mi vide,
     Se vuoi campar d’esto loco silvaggio.
Chè questa bestia, per la qual tu gride,
     Non lasciò alcun passar per la sua via,
     Ma tanto lo impedisce, che l’uccide;

affermando l’avarizia essere un vizio tanto rio e tanto nocivo, ch’egli non lascia alcuno di quegli che la sèguitano, a chi ei non tolga la libertà e la ragione; onde ei divenga tale, che non operando in quel modo che si conviene alla natura sua, egli su possa dire che l’avarizia l’abbia morto; soggiugnendo quella esser di natura tanto malvagia e cattiva, ch’ella non solamente non sazia e non empie mai la sua avida e bramosa voglia, ma ella ha maggior fame, da poi ch’ella si è cibata, ch’ella non aveva prime, onde dice:

Ed ha natura sì malvagia e ria,
     Che mai non empie la bramosa voglia,
     E dopo il pasto ha più fame che pria;

dimostrando con tal metafora come, oltre a non si empier mai la voglia dello avaro, egli ha più sete, quando egli incomincia a avere qualcosa, ch’ei non aveva prima, quando ei non aveva cosa alcuna; e questo si vede manifestamente, conside[p. 116 modifica]rando come i ricchi sono sempre universalmente molto più avari, che non sono i poveri. E perchè questo vizio, per conoscere e provare ogni giorno gli uomini quanto le ricchezze sono necessarie a la vita umana, e come ei non si può, senza esse, vivere senza disagio o scomodo grandissimo, si appicca più forte e tenacemente che alcuno altro a la maggior parte di loro, egli dice dipoi nel testo:

Molti son gli animali a cui s’ammoglia,

usando questo verbo ammogliare, derivato da ’l prender moglie e legarsi in matrimonio, il quale è il più forte legame, a quello che può manco sciorsi legittimamente, che possin fare gli uomini, e massimamente nella religione cristiana; onde è scritto che quello che ha congiunto Dio, da ’l quale fu ordinato in fra i suoi sacramenti il matrimonio, non sia uomo alcuno che lo separi; soggiugnendo ancor dipoi:

E più saranno ancora, infin che il veltro
Verrà, che la farà morir di doglia.

Ne’ quai versi s’intende chiaramente, come ei predice ch’ei verrà uno, il quale farà morire essa avarizia di doglia, in quel modo che fanno morire quei cani da caccia, che noi chiamiamo veltri, le fiere simili. E questa sentenzia è tanto facile a intenderla, quanto egli è per il contrario difficile a sapere, chi egli intenda per questo veltro. E però io racconterò qui, come io ho fatto in tutti gli altri passi difficili, le opinioni de gli espositori, mostrando oltre a di questo con quale io convenga; e poi lascerò pigliare a ciascun liberamente quella che più gli aggraderà. Il nipote del Poeta tiene ch’ei prevedesse per via d’astrologia, ch’egli nascerebbe e verrebbe, mediante la disposizione de’ cieli, uno uomo grande, il quale disporrebbe in tal maniera gli animi de gli altri a le virtù, e spegnerebbe di tal sorte i vizii e con lo esempio e con le forze, ch’ei si fuggirebbono quasi tutti del mondo; e perchè da l’avarizia nascono infiniti altri vizii, egli nomina solamente lei; soggiugnendo che Dante intese ancor di costui, quando ei disse nell’ultimo capitol del Purgatorio: [p. 117 modifica]

Che io veggo certamente, e però il narro,
     A darne tempo già stelle propinque,
     Sicure8 d’ogni intoppo e d’ogni sbarro;
Nel qual un cinquecento dieci e cinque,
     Messo da9 Dio, anciderà la fuia;

cioè ch’e’ sarà, mediante la benignità de gl’influssi celesti, mandato da Dio un duce (imperò che cinquecento quindici si segna per alfabeto con un D, con V e con un X, le quali lettere rilievano Dux), il quale occiderà e spegnerà del tutto questa fiera dell’avarizia. E questa medesima opinione tiene ancora l’Imolese. Il Leneo da Bologna dice oltre di questo, allegando gli Astrologi e particularmente Albumasar, che il mondo si regge a etadi, e che in ciascuna età regna e domina uno de’ sette pianeti, e che nella prima età regnò Saturno; e questa fu quella età de l’oro, tanto celebrata da’ poeti, nella quale, essendo fra gli uomini quasi ogni cosa a comune, non ebbe luogo alcuno l’avarizia; ma dipoi venendo l’altre età di Giove, di Marte, per infino a la settima (nella quale ei tiene che noi siamo, e se non entrati vicini a l’entrare) dice ch’ei nacque, mediante il tuo e ’l mio, nel mondo essa avarizia; la quale è cresciuta dipoi sempre di tal sorte, ch’ella ha una forza e uno imperio grandissimo; e così dice ch’ella arà, infino che, finite tutte queste etadi, ricomincerà a regnare di nuovo Saturno; nel quale tempo verrà uno che la spegnerà e farà morire; e questo dice che sarà Cristo benedetto, il quale non si ciberà di cose terrene, ma di sapienza, di amore e virtude; le quali tre cose, dice questo espositore, si convengono solamente a la Santissima Trinitade. E quando ei dice dipoi:

E sua nazion sarà tra feltro e feltro,

dice che questo significa, quando noi lo vedremo venire in aria, tra il cielo e la terra, a giudicare il mondo. E questa opinione pare ancor che tenga medesimamente il Landino. Niente di manco a me par ella molto curiosa; e non posso in modo alcuno credere, che se Dante avesse voluto parlar [p. 118 modifica]del giudicio universale, egli ne avesse parlato in tal maniera, essendo quello uno de’ principali articoli della nostra fede. E però io mi accosto e convengo più con lo espositore moderno e col Vellutello, i quali dicono che ritrovandosi Dante, quando ei fece questa opera, grandemente obligato a la cortesia di M. Bartolomeo della Scala, signore in quei tempi di Verona, per essere egli stato, mentre ch’egli andava peregrinando nel suo esilio per l’Italia quasi che mendicando il pane, ricevuto e sostentato da lui, pensò, per mostrarsi grato di tal benefizio, (imitando Virgilio, il quale volendo lodava Solonino figliuolo di Pollione, o secondo alcuni altri Marcello figliuolo adottivo d’Augusto, disse nella quarta egloga della sua Buccolica:

agnus ab integro scelorum nascitur ordo;
Iam redit et virgo, redeunt saturnia regno,
Iam nova progenies caelo demittitur alto

predire ancora egli di Messer Cane suo figliolo, allora giovanetto, quelle virtuose qualitadi delle quali davano aspettazione l’indole, la effigie, e i buoni e onesti costumi suoi, come cosa la quale dovesse piacere ed essere molto grata al padre; onde mantenendosi nella metafora, e accomodando a tal cosa il vero nome d’esso suo figliuolo, il quale era M. Cane (chiamando noi i cani da caccia veltri) narra in questo luogo con brevi parole tutto quello ch’egli fa dipoi dire largamente, e senza alcuno velame, di lui medesimo nel Paradiso M. Cacciaguida; il quale da poi ch’egli ebbe dimostrato a Dante, suo nipote, lo onore ch’ei riceverebbe nel suo esilio da esso M. Bartolomeo, gli dice, parlandogli del sopradetto M. Cane suo figliuolo:

Con lui vedrai colui che impresso fue,
     Nascendo, sì da questa stella forte,
     Che notabili fien l’opere sue,

e quel che segue infino a ove dice:

.    .    .    .    .    .    .    e disse cose
Incredibili a quei che fien10 presenti;

[p. 119 modifica]

ove ei mostra primieramente, questo M. Cane dovere esser, per lo influsso della stella di Marte nella quale si ritrovava M. Cacciaguida, molto dedito e inclinato a l’arme; e dipoi tanto liberale e magnifico, ch’ei si potrebbe veramente dire di lui, ch’egli farebbe morire di doglia l’avarizia e i suoi seguaci. Del quale M. Cane racconta il Vellutello aver letto, in certe Croniche Veronesi, cose maravigliosissime; soggingendo ch’egli era comun opinione degli uomini di quei tempi, per le virtù che risplendevano in lui, che se ei non si interponeva la morte, la quale lo tolse al mondo l’anno trentottesimo della sua vita, ch’ei si avesse a fare Re di Italia. Delle quali virtù volendo egli parlare, dice:

Costui non ciberà terra nè peltro,

cioè non stimerà punto i beni temporali, i quali impediscono comunemente gli uomini da il bene operare,

Ma sapienza ed amore e virtute,

delle quali cose si pascono e nutriscono gli animi generosi, e che hanno per fine il bene e lo onore;

E sua nazion sarà tra Feltro e Feltro,

significando il luogo dove egli nacque, che fu in Verona città della Marca Trivisana; posta, benchè alquanto lontano, tra Feltro di Romagna, altrimenti Monte Feltro, e Feltro città fra l’Alpi e Trevisi, vicina alla Concordia: e fia salute questo veltro con l’esempio e con le virtù sue, soggiugne Dante, di quella umile Italia (imitando Virgilio, quando disse:

.    .    .    .    .    .    humilemque videmus
Italiam

Per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo, Turno e Niso di ferute;

mediante le quali istorie egli dimostra Roma; conciosia che tutti questi, ch’egli ha nominati, morissero nelle guerre che ebbe Enea, quando ei passò in Italia e fermossi circa a dove è oggi Roma, con quei popoli vicini; che di tutte ha trattato [p. 120 modifica]distesamente il Landino. E questa avarizia, dice ultimamente il Poeta, sarà tanto perseguitata da la liberalità di costui per ogni villa, cioè per ogni luogo (o vogliamo intendere, secondo la lingua franzese, per ogni città), ch’ei la rimetterà nell’Inferno, donde la dipartì e cavò primieramente la invidia che porta lo inimico de l’umana natura a l’uomo. E qui, posto ultimamente Virgilio fine al ragionare più di costui, si volse verso Dante; e cominciò a parlare a lui propio quel che voi udirete, concedendolo Dio, in quest’altra lezione.

Note

  1. Ediz. impotenza.
  2. Ediz. Descrivessi.
  3. Cr. li.
  4. Cr. ancorchè.
  5. Cr. Poichè.
  6. Cr. Risposi lui.
  7. Cr. han.
  8. Cr. Sicuro.
  9. Cr. di.
  10. Cr. fia.