Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione sesta

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LEZIONE SESTA



Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta,
Una lonza leggiera e presta molto.
Che di per maculato era coperta.


Leggesi nelle antiche memorie de’ Greci, che riferisce il divino Basilio in una operetta ch’egli fa del modo di ammaestrare i fanciulletti, che arrivando Ercole, mentre ch’egli andava per acquistar fama nella sua adolescenza errando per il mondo, in un luogo dove erano due vie; l’una delle quali era molto facile, piana e piacevole nel cominciare; niente di manco ella diventava di poi sempre più difficile e più aspra verso il fine, il quale era una selva non manco oscura e salvatica, che questa nella quale scrive essersi ritrovato il Poeta nostro; e l’altra, che si mostrava per il contrario nel principio era e difficilissima, pareva che diventasse poi sempre più facile e più piacevole, e che arrivasse finalmente sopra a un monte molto vago e molto bello; e stando in dubbio e sospeso, quale ei dovesse pigliare di queste due vie, che lo guidasse ove ei potesse conseguire quello ch’egli desiderava, gli apparsero due donne, molto diverse e dissimili e nell’abito e nell’aspetto. Conciosia che l’una fusse vestita molto riccamente, e ornata con grandissima arte d’oro, di perle e altre cose preziosissime il capo, le trecce e il volto, nel quale appariva una maravigliosa bellezza, ma con una certa lascivia da essere più tosto appetita, che onorata; e l’altra, la quale era mal vestita, stracciata, scinta e scalza, e non aveva ornamento alcuno altro che una semplice ghirlanda di fiori sopra a la [p. 90 modifica]testa, dimostrava niente di manco nella effigie e nel volto una bellezza tanto onesta, ch’ella generava più tosto nello animo di chi la ragguardava reverenza, che pensiero alcuno lascivo. E di queste quella prima, così riccamente vestita, lo invitava con dolci parole e con piacevolissime lusinghe a pigliar quella via piacevole e facile, dicendogli ch’ei troverebbe in quella tutti i piaceri e tutti i contenti, i quali ei potesse mai desiderare. E l’altra, povera e mal vestita, lo esortava con parole severissime e gravi a pigliar quell’altra, promettendogli che se bene ella gli parrebbe nel principio molto faticoa e difficile, ella lo condurrebbe finalmente in luogo dove egli, godendo il frutto di tali fatiche, non solo troverebbe il vero contento e dell’animo e del corpo, ma ei diventerebbe simile a gli Dii. Da le quali promesse infiammato Ercole lasciò quella via facile e piana, la quale era quella della malignità e del vizio, e prese quella ardua e difficile, la quale era quella della virtù. Laonde usava dire (soggiugne nel medesimo luogo questo Dottore) Esiodo, dottissimo poeta greco, che la via della virtù era molto ardua e difficile, quando altrui cominciava a camminar per quella, ma che da poi che l’uomo aveva superate e passate quelle prime difficoltà, si trovava per quella tutti i diletti e tutti i contenti dell’animo. Non è adunque maraviglia, se volendo uscire il nostro Poeta della selva di quella confusione, da la quale nascono tutti i mali (conciosia che chi opera senza fine sèguiti il più delle volte gli appetiti sensitivi, onde cade in infiniti errori), e volendo pigliare, cominciando a salir per la piaggia deserta, la via della virtù, egli trovò tante difficoltà e tanti impedimenti. De’ quali ei fa menzione nel testo solamente di tre, per essere quegli i principali e i più potenti di tutti, e quegli dai quali nascono e hanno origine di poi tutti i mali e tutti gli altri vizii. E questi sono, lo appetito delle cose veneree, quello degli onori e quello delle ricchezze; passioni, le quali posson tanto ciascuna di loro negli uomini, ch’elle gli fanno molte volte perdere la ragione e diventare simili a le fiere; per il che furon figurate da quegli antichi poeti, i quali scrivevano le cose e fisiche e morali sotto favole e sotto poesie, per quelle tre Furie, figliuole della Notte e [p. 91 modifica]d’Acheronte, cioè della ignoranza e dello appetito disordinato, che fanno diventare gli uomini amanti e furiosi; chiamate da loro Aletto, Tesifone e Megera. Conciosia che Aletto non significhi altro, che una cosa sempre ria e nocevole a’ mortali; e questo è lo stimolo della carne, il quale molesta del continovo l’uomo; Tesifone significhi punizione e crudeltà; e questa è la avarizia, la quale rode e molesta di tal sorte i petti umani, che ella gli fa crudelissimi e rapacissimi: e Megera significhi invidiare e aver dolore degli altrui beni e degli altrui onori, come hanno sempre gli ambiziosi e i superbi, quando ei veggono onorare più altri che loro. I quali affetti davano ancor tanto più noia e molestia al Poeta nostro, quanto egli era cristiano, e segnato in fronte del carattere di figliuolo adottivo di Dio. Imperò che se bene ei posson molto universalmente in ciascuno uomo, per essere seminati e fondati nella natura e nella parte sensitiva nostra, e’ son molto più molesti e assaltano molto più i cristiani, che gli altri. E questo ne avviene, perchè cercando continovamente il demonio nostro avversario, per la invidia ch’egli ci porta dell’avere noi a succedere in quel luogo onde fu cacciato egli, di divorarci a guisa di leone rugiente (come scrive Pietro Apostolo), usa sempre ne’ suoi primi assalti, come armi sue più potenti e che offendon più, questi tre mezzi. La qual cosa è stata scritta per opera dello Spirito Santo, in conforto e ammaestramento nostro, da Davit profeta ne’ suoi salmi; figurata nel terzo libro de’ Re; e messa in atto da esso nostro inimico, come si legge nel sacro Evangelio, nella persona propria di Cristo salvator nostro. Perciò che domandando il Profeta, nel salmo suo ventitreesimo, chi sarebbe quello che ascenderebbe al monte santo del Signore, o starebbe nel luogo santo suo, risponde: Innocens manibus, cioè chi arà le mani sue in tal modo innocenti e giuste, che ei non le imbratterà nelle ricchezze e nella roba del prossimo suo; et mundo corde, cioè chi arà netto e mondo il cuore e l’animo suo dai desiderii carnali; et qui non iuravit in dolo proximo suo, togliendogli quegli onori che si gli convengono, attribuendogli per superbia e ambizione a sè stesso. E ne’ libri de’ Re si legge, che volendo salire Elia al monte di Dio, Oreb, [p. 92 modifica]apparsero fuochi spaventevoli e grandissimi, tremò fortemente la terra, e levaronsi venti paurosi e terribilissimi. Chè i fuochi significavano gl’incendi della carne; il tremuoto della terra (nascendo eglino, come è cosa notissima, da esalazioni e spiriti generati da ’l calor del sole nel ventre della terra, i quali cercano esito) significa l’avarizia e la fame de l’oro, il quale è generato ancor egli da ’l calor del sole nelle viscere della terra; e i venti significano l’ambizione e la superbia. Così ancora si legge nel sacro Evangelio, che volendo il diavolo tentare il Salvator nostro, lo assaltò nel diserto con la tentazione della gola, la quale è ancora ella uno appetito carnale, non avendo ardire di tentarlo con l’incendio della concupiscenza, per la purità grandissima ch’egli scorgeva in lui; onde gli disse, che facesse diventar pane quelle pietre che gli erano appresso; dipoi con la tentazione della vanagloria e della superbia, dicendogli che facesse segni di essere figliuolo di Dio; e ultimamente con quella dell’avarizia, mostrandogli i regni del mondo, e dicendogli che gliele1 darebbe tutti, se egli voleva rendergli onore e adorarlo. Essendo adunque il Poeta nostro tentato similmente e molestato ancora egli da questi tre affetti e da queste tre passioni, quando egli uscendo della valle della sapienza umana voleva cominciare a salire il colle illuminato da ’l sole, cioè a conoscere quella verità da la quale era nata in lui la cognizione che non l’aveva lasciato seguitare più oltre il suo viaggio; e volendo narrare e descrivere tal cosa, secondo il modo e lo stile poetico, per via di esempli e di metafore; pone per i sopradetti affetti tre fiere salvatiche, molto appropiate a quegli. E parlando primieramente dello appetito venereo, assomigliato da lui alla lonza, incomincia questa voce Ecco; la quale è uno avverbio demonstrativo, usato parimente e da i latini e da noi, qualunche volta noi vogliamo significare qualche cosa inusitata e nuova, o che apparisce quasi che inaspettata altrui; onde dice:

Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta,
Una lonza leggiera e presta molto,
Che di pel maculato era coperta.

[p. 93 modifica]Questo animale, chiamato qui da ’l Poeta lonza, descritto da lui con la pelle indanaiata e piena di macchie, come il leopardo (lasciando stare quanto ne dice il Landino, per non l’avere veduta quei tempi, come hanno fatto i nostri, essendone stato uno, che donò la Maestà Cesarea a l’Eccellenza del nostro Illustrissimo Principe, tanto tempo nel serraglio pubblico de’ lioni) è, secondo l’opinione che tiene oggi ognuno, la pantera. Ed è una specie d’animale per sè stessa; e non la femina del leopardo, come vuole il Landino, confermando questa sua opinione con l’autorità del Boccaccio, il quale scrive ch’e’ fanciugli fiorentini gridavano, quando e’ vedevano a’ tempi suoi il pardo: ecco la lonza. Ed è posta qui da ’l Poeta, per avere ella la pelle tanto bella e tanto vaga, che molti animali, ancora ch’ei non sieno della sua specie, desiderano di congiungersi con lei (e per molte altre cagioni, che assegna il Landino), per la lussuria e per lo appetito venereo. E perchè ei non è cosa alcuna, in quella età nella quale i sangui son nel colmo della caldezza e del vigore loro, che tenga più offuscato l’uomo, e che se gli parta manco da la fantasia e da l’immaginativa, ei dice:

E non si partia dinanzi a 'l volto;
Anzi impediva tanto il mio cammino,
Ch'io fui per ritornar più volte volto;

cioè mi molestava continovamente e mi teneva di maniera alterato l’anima, che io fui più volte per tornarmene adietro, e non seguitar più il cammmino del colle che io aveva preso. E quì, innanzi ch’egli proceda più avanti con la sua narrazione, egli torna alquanto indietro a mostrare e descrivere (la qual cosa è fatta da lui con dottrina e arte maravigliosissima) il tempo e l’ora, nella quale gli occorse tal cosa, dicendo:

Tempo era del principio del2 mattino;
E il sol mandava su3 con quelle stelle.

[p. 94 modifica]dicono molti testi; niente di manco gli antichi buoni o più fedeli dicono:

E il sol movea con tutte quelle stelle,

(e così legge ed espone, per le ragioni che si diranno di sotto, lo espositore moderno)

Ch'eran con lui, quando lo amor divino
Mosse da prima queste4 cose belle.

Per dichiarazione delle quali cose voi avete a considerare, che ei si ritruovano alcuni Dottori Ebrei, i quali vogliono che il mondo fusse creato da Dio e avesse il suo principio del mese di settembre, adducendone in fra l’altre, queste due ragioni. L’una, ch’ei fu conveniente cosa, che così come l’uomo fu creato da esso Dio, atto a generar de gli altri simili a sè, acciò ch’ei si mantenessi la specie umana, ch’ei fussero creati ancora i frutti e le biade, quando elle avevano condotto di loro degli altri per mantenere ciascuno la specie sua. E la altra, perchè dovendo l’uomo, nuovamente creato, vivere e cibarsi d’essi frutti, bisognava di necessità ch’egli gli trovassi maturi e stagionati di sorte ch’eglino gli fussino nutrimento conveniente; e tanto più non essendo egli di natura da poter cibarsi solamente d’erba o di fiori o di foglie d’alberi, come fanno molti altri animali. Niente di manco l’opinione comune, e seguitata dai più, è che fusse creato nello equinozio della primavera, cioè a mezzo marzo, quando il sole entra nel primo punto dello Ariete. E la ragione, detta di sopra, de’ frutti e de’ segmi e del nutrirsi l’uomo, si risponde in questa maniera: Che così come esso uomo fu creato da Dio nella età sua perfetta senza essere stato prima adolescente e fanciullo, così potettero essere ancora creati i semi e i frutti perfetti e maturi, e senza essere stati prima in erba e in fiori; conciosia che il maturarsi ch’ei fanno una volta l’anno nasca poi per virtù del sole e degli altri corpi celesti; e lo [p. 95 modifica]fanno in un luogo d’un tempo, e in uno altro d’un altro, secondo che son situate le provincie e i paesi dove ci sono o più o manco presso a l’equinoziale; onde si vede che quello, che accade verbigrazia a noi di maggio, accadrà in uno altro luogo di marzo. E di questo noi ne veggiamo l’esperienza manifestissima nel regno di Napoli, dove, ancor ch’ei non sia però discosto da noi più che un due centinaia di miglia, si maturan molto prima l’anno i frutti, ch’ei non fanno qui nel paese nostro. E perchè Dante teneva ancora egli, come opinione più comune, che la creazione del mondo fusse stata di marzo; e oltre a di questo egli ebbe questa sua visione, come io vi dimostrai già, la settimana santa; e la pasqua fu quello anno del mille trecento a’ nove dì d’aprile, nel qual tempo il sole non era ancora uscito d’Ariete, ma era ne’ venticinque o ne’ venzei gradi di quello; donde nasceva ch’ei saliva al nostro orizzonte, come considera diligentissimamente lo interpretre moderno, non col principio o col mezzo dell’Ariete, ma con tutte quelle stelle che fanno quel segno; egli dice che il sol movea con tutte quelle stelle, le quali eran medesimamente seco quando lo amor divino

Mosse da prima queste cose belle;

cioè creò e diede l’essere a tutte le cose delle quali è adorno e pieno questo universo. Come il cielo sia stato diviso da gli Astrologi in dodici parti, chiamate da loro dodici segni (uno de’ quali è lo Ariete), è stato trattato tanto largamente da ’l Landino, ch’ei mi pare superfluo il più parlarne; e però tornando al testo, dico che Dante dimostra in queste parole, con dottrina e arte maravigliosissima, la cagione la quale mosse Dio a creare il mondo, e oltre a di questo la natura e l’esser delle cose naturali; dicendo primieramente, come è il vero, ch’ei fu lo amore e la bontà divina, quella che diede lo essere a tutte le cose; conciosia cosa che Dio, essendo perfettissimo e felicissimo in sè stesso e nella essenzia sua propria, non aveva bisogno alcuno di creare altre creature. Niente di manco, perchè la natura del bene è di essere comunicativo di sè stesso, essendo egli la somma e perfetta bontà, e non si [p. 96 modifica]contentando, come scrive il dottissimo e santissimo Damasceno, della sola contemplazione di sè stesso, gli piacque per la superabbondanza della sua bontade fare alcune cose, a le quali ei potesse far parte di quella; e queste sono tutte le creature di questo universo, chiamate da ’l Poeta belle, e per la perfezione la quale si ritrova in ciascuna, conveniente a la natura sua, e per l’ordine maraviglioso, il quale è infra di loro. La qual cosa volendo egli esprimere, come è suo costume, con dottrina e con arte, dice: mosse, e non fece o creò, dimostrando con tali parole perfettissimamente la natura di tutte le cose naturali. Conciosia che in tutte si ritrovi, secondo che scrive il Filosofo nella Fisica, un principio di moto, chiamato da lui natura, mediante il quale elle hanno l’essere, acquistono la perfezione di quello, e mantengonsi ciascuna quel tanto del tempo che si conviene a la natura sua. Imperò che mancando in loro esso moto ed essa natura, manca loro ancor similmente, insieme con quello, lo essere. Per la qual cagione, essendo il medesimo avere il moto naturale e aver l’essere, fu cosa molto conveniente che il Poeta, in cambio di dire creò o fece quelle, dicesse mosse; cioè diede loro il moto, e conseguentemente lo essere. O veramente intenderemo, ch’ei le movesse, come fine e cosa desiderata e appetita da tutte; il che avvenne loro subitamente ch’elle ebbero l’essere e furono create da lui. Conciosia che ciascuna cosa, subito che ella è, sia mossa da un certo istinto e propietà naturale a desiderare e amare esso essere, e conseguentemente ad amare e desiderare Dio, il quale è il primo ente, e la cagione che ciascuna cosa è. E questo è quel che volse inferire Aristotile, quando ei disse nel fine del primo libro della Fisica: egli è un certo che ottimo e divino nella natura, il quale è desiderato e appetito da tutti gli enti. Da queste due ragioni adunque, cioè da l’essere la stagione nella quale lo amor divino creò il mondo, e da l’ora del mattino nella quale egli era, cominciando appunto allora, come dice il testo, i raggi del sole a illuminare la cima di quel colle (sapendo il Poeta, che quella era l’ora nella quale e la vecchia e la nuova Legge ha ordinato che ciascuno renda grazie a Dio; per il che egli è consueto [p. 97 modifica]in tal ora esaudire i preghi che gli sono offerti, onde dice il Profeta: Mane exaudies vocem meam), prese il Poeta speranza di dovere non solamente vincere e scacciar da sè questa tentazione delle cose veneree, ma di aversi a servire di quelle bellezze temporali, con le quali essa tentazione cercava di ritirarlo da ’l cammino ch’egli aveva preso, per mezzo e per scala a salire a la contemplazione della bellezza divina. E volendo esprimere tal cosa stando nella metafora, usa il costume de’ cacciatori, i quali prendono solamente di quelle fiere ch’ei pigliono, che non sieno buone a mangiare, la pelle, e gettano via il restante. Così ancora egli, pensando di pigliare da tal tentazione solamente la bellezza, ch’ella usava per esca, per servirsene, come io ho detto, a salire per mezzo di quella in qualche cognizione delle cose divine, dice che queste due cose gli erano cagione di bene sperare

Di quella fiera la5 gaietta pelle;

cioè di avere a servirsi della vaga e leggiadra pelle (chè così significa questa voce gaietta, la quale dicono alcuni esser voce provenzale) a l’ufficio che io ho detto. Nientedimeno questa speranza non fu però tale, ch’ella lo facesse tanto forte che ei non temesse e non avesse paura d’un leone, che si gli fece ancora egli similmente incontro, dopo questa lonza; onde dice:

Ma non sì, che paura non mi desse
In vista che m'apparve d'un leone;

ponendo secondariamente, per lo appetito degli onori (il quale è tanto degno di lode ne gli uomini, quando egli è moderato, quanto egli è degno di biasimo, quando egli trapassa il termine della ragione; perchè egli diventa vizio, ed è allora chiamato da noi ambizione, o veramente superbia), con grandissima considerazione, il leone. Imperò che così come questo animale fa pochissima stima e disprezza quasi tutti gli altri animali, il superbo disprezza ancora egli tanto gl’inferiori a sè, e porta tanta invidia a chi gli è superiore, ch’egli usa dire ch’egli [p. 98 modifica]è lecito, per superare gli altri, commettere ogni ingiustizia e ogni violenza. E qui ei dice che quella speranza che gli avevan dato e la dolcezza della stagione e l’ora del mattino, onde egli si prometteva ottener la vaga pelle di questa lonza, non era però tale, che la vista gli apparve di questo leone, il quale veniva verso di lui

Con la testa alta e con rabbiosa fame,
Sì ch'ei parea che l'aere ne temesse,

non lo spaventasse, e non gli desse gran paura. Da le quali parole si cava, ch’egli non è cosa molto difficile a coloro che hanno lo spirito elevato e contemplativo, come era quello di Dante, conoscendo quanto i piaceri venerei sieno notevoli e biasimevoli a l’anima, al corpo e a la fama, superargli e con l’esercizio de’ buoni costumi dicacciargli da sè; ma lo appetito de gli onori apparisce, per il contrario, tanto lodevole e onesto (la qual cosa è quasi il propio fine di chi attende a le speculazioni e a l’opere virtuose), ch’egli è cosa difficilissima il liberarsene, o il saperlo moderare e temperare. E però dove ei disse della lonza solamente ch’ella si gli fece incontro allettandolo con la bellezza e vaghezza della sua pelle, ei dice del lione, ch’ei pareva ch’egli gli venissi incontro con la testa alta; dimostrando oltra di questo più chiaramente la natura della superbia, la quale vorrebbe essere sempre superiore a ciascuno;e con rabbiosa fame; imperò che come i cani, i quali sono (come noi usiamo dire vulgarmente) arrabbiati, mordono indifferentemente ognuno, così ancor quegli che si lasciano infiammare senza moderazione alcuna l’animo da questa cupidità insaziabile de gli onori e del regnare, non perdonano e non hanno rispetto a cosa alcuna, pur che eglino saziino e adempino le voglie loro. La qual cosa volendo egli ancora meglio esprimere, soggiugne:

Sì ch'ei parea che l'aere ne temesse;

dimostrando per mezzo di questa figura, chiamata iperbole (la quale concede ch’ei si possa usare per accrescimento e amplificazione d’una cosa questi simili modi di favellare, come [p. 99 modifica]sono: l’aria ne teme, il grido ne va sino al cielo), il desiderio, come dice qui il Landino, che hanno i superbi e gli ambiziosi, quando ei pervengono in qualche grado alto, di essere onorati da i superiori e da i grandi uomini.

E dopo queste egli pone finalmente il terzo impedimento, riscontro da lui, come gli altri, al principio dell’erta; e questo è lo appetito immoderato delle ricchezze, chiamato da noi vulgarmente avarizia; figurata da lui come una lupa, per le similitudini che ha questo animale col vizio della avarizia. Imperò che così come la fame è tanto grande nel lupo, ch’egli usa ogni tradimento e ogni rapina per saziarla; nè gli basta, quando egli assalta un gregge, ammazzare una pecora o due, che gli sarebbono assai per cibarsi, ma le ammazza se egli ha tempo tutte, pensando non si potere mai empiere; così ancora lo avaro cerca con ogni modo, ben che ingiusto e non lecito, di saziare la fame ch’egli ha de l’oro. Nè gli bastando mai quello ch’egli ha, gli cresce sempre insieme con i tesori ancora lo appetito e la fame di quegli, in quel propio modo che cresce ancor sempre, quanto più bee, la sete al ritruopico, come scrive Orazio nelle sue ode, parlando ancora egli de gli avari. La qual cosa volendo egli esprimere, dice:

Ed una lupa che di tutte brame
Sembrava carca nella sua magrezza,
E molte genti fe' già viver grame;

dimostrando che oltre all’essere ella molto secca e macilenta, ella pareva ancor molestata e carica di tutti gli appetiti e di tutte le voglie. E questo tale appetito è quello, dice il Poeta, il quale ha fatto e fa viver molte genti grame, cioè dolenti e infelici; chè così dice il Landino, che significa questa voce in lingua lombarda. Questo vizio dell’avarizia è tanto propio e peculiare della vecchiezza, ch’ei si dice quasi come per proverbio che i vecchi sono tutti avari. E i poeti comici non pare che rappresentino cosa alcuna altra pià spesso, che vecchi i quali sieno per rispetto della loro avarizia odiati da’ figliuoli, ingannati da’ servi, o condotti da la speranza di qualche tesoro a far cose semplicissime e ridicole. E la cagione [p. 100 modifica]per la quale ci sien così inclinati a l’avarizia è, come scrive Aristotile nella Rettorica, per aver conosciuto, mediante il tempo e l’esperienza, quanto sieno difficili a guadagnare le facultà e le ricchezze, e di poi quanto elle sieno facili a spenderle e a venir meno. Il che temendo eglino che non avvenga loro, le stimano molto più ch’ei non hanno fatto per il passato, conoscendo che se ciò avvenissi loro, ei non sarebbon più a tempo, o difficilissimamente, a racquistarne; e di più che se elle sono nelle altre etati non solo utili, ma necessarie a l’uomo, chìelle son nella vecchiezza e utilissime e necessarissime. E oltre a di questo può ancor molto nè vecchi l’avarizia, come scrive il medesimo filosofo nella Etica, per rispetto della imbecillità, debolezza e poco animo che ha comunemente quella età, onde temon facilmente d’ogni minima cosa. Volendo adunque dimostrare il nostro Dante, come questo tale appetito delle ricchezze dia maggior molestia e maggior noia a gli uomini nella vecchiezza, che nelle altre etati, con lo esempio di sè medesimo, il quale avendo di già passato il mezzo e il colmo della vita, declinava e correva a la vecchiezza, dice:

Questa mi porse tanto di gravezza
Con la paura ch'uscia di sua vista,
Ch'io perde' la speranza dell'altezza;

dimostrando che la paura, che aveva ancora egli di non incorrere, invecchiando, in questo vizio, non solo lo spaventava molto più che quella delle altre due fiere, ma lo aggravava e premeva di tal sorte, ch’ei perdè la speranza di salire al monte; non essendo vizio alcuno il quale ritiri e stolga più l’uomo da la contemplazione de le cose divine, che l’avarizia; e questo nasce per fargli ella tener sempre l’animo e il pensiero rivolto e immerso nelle cose terrene. Imperò che dove ha lo avaro il tesoro suo, quivi è ancora similmente il cuore suo, come è scritto nelle sacre lettere. E perchè tal cosa era pur contro a l’animo suo, essendosi egli di già proposto di salire al monte dilettoso, egli ne aveva dispiacere e dolore non piccolo; il che volendo egli dimostrare, usa, non si partendo da cose appartenenti a essa avarizia, una comparazione molto [p. 101 modifica]bella e molto a proposito a esprimer tal concetto, dicendo che esso appetito de’ beni temporali, il quale tormente sempre e non lascia quietar giammai una ora sola chi si lascia signoreggiar da lui, lo aveva fatto diventar simile a uno, il quale guadagna e va con suo grandissimo contento acquistando e avanzando sempre, e giunto di poi a un tempo, che lo fa perdere, e ch’egli gli è di mestieri, per il contrario, diminuire le facultà sue, si riempie tanto il cuore e la mentre di pensieri dolorosi e molestissimi, ch’egli piange e attristasi amarissimamente; onde dice:

E qual è quel6 che volentier acquista,
E giugne il tempo che perder lo face,
Che in tutti i suoi pensier piange e s'attrista;
Tal mi fece la bestia senza pace,
Che venendomi incontro, a poco a poco
Mi ripigneva là dove il sol tace.

Nella qual comparazione chiamando egli l’avarizia la bestia senza pace, ci viene a dimostrare chiaramente, come l’animo degli avari non si posa e no nsi quieta mai. E questo avviene loro, perchè le ricchezze, le quali ei cercano, e a le quali eglino hanno solamente indiritto l’animo e il pensiero,

Non posson quietar, ma dan più cura,

come disse il Poeta medesimo nella canzone della nobilità. E questo appetito dello avere, per assaltare gli uomini molto più gagliardamente quando ei cominciono avvicinarsi alla vecchiezza, come faceva allora Dante, cominciava ancora a molestare di tal sorte lui, ch’ei dice ch’e’ lo ripigneva là dove il sol tace, cioè dove non risplendevano i raggi suoi; usando quella figura che il nostro Giambullari chiama nelle sue regole transportazione, per la licenzia della quale si torce alcuna volta il significato d’una cosa da un luogo vicino a un altro; come sarebbe verbigrazia dire: io veggo, in luogo di: io intendo; onde dice: là dove il sole tace, in cambio di: non risplende. Per la qual cosa, cominciando il Poeta a tornare a poco a poco, per indirizzare i pensieri a i beni temporali, non solamente a lo [p. 102 modifica]ingiù, ma a rovinare nel basso stato di coloro che hanno solamente intento lo animo a le cose del mondo, la divina bontà (che le bastava ch’egli avesse conosciuto la confusione e la miseria dello stato suo, e come egli non poteva uscir con le forze sue sole di quello) gli offerse innanzi agli occhi l’ombra di Virgilio, cioè il principio dello aiuto e del soccorso; acciò che raccomandandosi a quello, e chiamando sotto tale modo lo aiuto divino, colui il quale ha detto per bocca del Profeta nel salmo novantesimo, che ogni volta che ’l peccatore lo chiamerà egli lo esaudirà, sarà seco nelle tribulazioni e scamperallo e libererallo da quelle, potesse senza offesa di quella iustizia, la qual non si ritrova in lui punto minore della misericordia, mandargli tutti quei mezzi i quali eran necessarii a voler cavarlo di quello stato e condurlo a la sua salute; onde dice nel testo:

Mentre che io rovinava in basso loco,
Dinanzi a gli occhi mi si fu offerto
Chi per lungo silenzio parea fioco;

significando con questo modo di dire il tempo grande, che l’opere di esso Virgilio non eran state lette da nessuno, o veramente da pochissimi; conciosia cosa che da ch’e’ mancò la lingua latina, che fu nel tempo che passarono in Italia i Goti, i Vandali e Longobardi, in sino a’ tempi di Dante si avesse pochissima cognizione delle lettere latine. Al quale Virgilio, subito che Dante lo vide, chiese senza ch’egli lo avesse ancora conosciuto, misericordia; pregadolo ch’egli lo aiutasse, dicendo:

Quando vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me, gridai a lui.

Dove egli usa questa voce latina miserere, per più bella, che abbia misericordia di me; o veramente perchè ella doveva essere in uso in quei tempi, e di ciò rende chiara testimonianza lo averla ancora usata il Petrarca, quando disse:

Miserere del mio non degno affanno.

E qui, perchè il verso che segue ha bisogno di non piccola considerazione, noi indulgeremo a esporlo nell’altra lezione, e faremo con vostra licenzia fine a questa.

Note

  1. Quì per glieli.
  2. Cr. dal.
  3. Cr. in su.
  4. Cr. quelle.
  5. Cr. alla.
  6. Cr. quei.