Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione ottava
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Lettura prima - Lezione settima | Lettura prima - Lezione nona | ► |
LEZIONE OTTAVA
Aveva già Virgilio dimostro al nostro Poeta, quanto fosse pericoloso il luogo nel quale ei si ritrovava, e mal sicuro il cammino ch’egli aveva preso, quando concludendo il suo ragionamento, e consigliandolo ch’ei lo seguitasse, gli disse finalmente così:
Onde io per lo tuo me’ penso e discerno, |
e tutto quello che segue insino a dove ei dice:
O felice colui cui ivi elegge! |
Con le quali parole egl’incomincia, secondo che gli aveva commesso Beatrice (non si potendo, come affermono i savi naturali, introdurre forma alcuna in materia, se quella non è atta a riceverla), a disporre e rendere atto Dante a ricever quella fede viva, ch’ella voleva, poi ch’egli aveva conosciuti i vizii e purgatosene, recargli in persona da ’l cielo; mediante la quale ella potesse dipoi guidarselo fra gli spiriti beati a contemplar la divina essenza. E perchè tal disposizione non poteva introducersi in lui, se non facendolo conoscer sè stesso, qual fusse il suo vero fine, e il cammino che gli bisognava tenere e arrivare a quello, egli gli fa questo ragionamento e questo discorso. Per notizia del quale è da sapere, che tutti i mali dell’animo sono, come scrive Plutarco, respettivamente più gravi e peggiori di quegli del corpo; e la cagione principale di tal cosa è perchè quegli, i quali hanno infermo e mal disposto l’animo, il più delle volte non lo conoscono, e non par loro aver male, dove quei che hanno il male nel corpo lo conoscon per il contrario sempre, o almanco il più delle volte; da la qual cosa nasce, che quei non pongono studio alcuno in emendarsi, e questi non lascian cosa alcuna adietro per guarire; quei fuggon sempre chi gli riprende, e questi cercan del continovo chi gli medichi. E che questo sia il vero, avvertisca quanto ei sa diligentemente ciascun che vuole; chè ei non troverà mai alcuno, che abbia la febbre, che si persuada (se ei non ha però perduto il conoscimento) d’esser sano; come ei troverà per il contrario, che tutti quei che sono stolti si crederanno esser molto più savi degli altri. Nè troverà ancor similmente alcuno, il quale sia caduto nella tisichezza, che la chiami buona complessione, o l’esser ritruopico buona temperatura di corpo, o le gotte destra disposizione di membra; come ei troverrà per avverso, che chi ha verbigrazia impedito l’animo da l’ira, la chiamerà, per non si conoscere, animosità; e chi è stimolato da l’avarizia, la chiamerà parsimonia; e chi è roso da l’invidia, la chiamerà emulazione. Per la qual cosa era tanto stimato appresso a’ primi sapienti della Grecia il conoscersi, ch’eglino avevan fatto scrivere con lettere d’oro questo detto, conosci te stesso, nel più eminente e più onorato luogo del tempio di Apollo; affermando che esso Apollo, il quale era reputato da loro lo Dio della sapienza, lo aveva mandato fino dal cielo agli uomini per un de’ più salutiferi ammonimenti, e un de’ più utili ricordi, che si potesse dar loro in questa vita. Nella qual cosa è da avvertire, che tal detto non vuole dire solamente (come si credon molti) che l’uomo conosca quella nobilità della sua natura, per la quale ei fu chiamato da Mercurio Trismegisto il gran miracol della natura, da Aristotile il fine di tutte le cose, e da Plutarco il vero simulacro di Dio. Imperò che se questa così fatta cognizione non è moderata da lui col pensare ch’ei non ha cosa alcuna di bene, ch’ei non l’abbia ricevuto (come dice Paulo) da Dio, lo fa tanto superbo e tanto audace, che persuadendosi egli di esser tale per quello ordine necessario con il quale la natura ha fatte tutte l’altre cose, non pensa che ei possa ritrovarsi cosa alcuna più nobile nè più degna di lui, e conseguentemente non potere errare in modo alcuno nelle operazioni sue. Laonde ingannandosi, come quegli i quali hanno infermo l’animo, e confidando molto più ch’ei non dovrebbe di sè stesso, si procaccia il più delle volte da per sè il suo male e la sua rovina; e si tende con quella sapienza umana, che il savio Salomone chiamò, da poi ch’egli ebbe gustata la divina, una somma stoltizia, a ogni ora infiniti lacci; ne’ quali restando dipoi preso, diventa non solo schiavo degli affetti e delle passioni sue propie, ma ei perde la ragione, ed è spogliato da quelle d’ogni virtù, e rovinato del tutto, in quel propio modo che fu ancor lacerato e morto il misero Atteone,2 da poi ch’ei fu trasmutato da l’ira di Diana in cervio, da i suoi propii cani. Non vuole adunque dire questo oracolo d’Apollo a l’uomo, ch’ei conosca sè stesso secondo questo modo della sapienza umana, il quale lo fa confidar troppo di sè, ma che egli si conosca secondo il lume della sapienza divina, il quale lo fa conoscer per il contrario, ch’egli ha avuta questa sua grandezza e questa sua nobiltà da Dio ottimo e grandissimo, solamente per liberalità e bontà sua, e perchè ella gli sia mezzo e via ad acquistarne una molto maggiore, e ch’egli può oltre a di questo facilissimamente perderla. Perciochè dove quella cognizione prima lo faceva superbo, audace, e confidar troppo di sè, quest’altra lo fa umile e prudente, e star del continovo cauto e vigilante per non perdere così bello e raro dono; e tanto più scorgendo egli con tale cognizione, ch’egli ha molti e molti nimici ed estrinsichi ed intrinsichi che lo impediscono continovamente da ’l camminar per la via della virtù. Gli estrinsichi sono le delizie del mondo, gli allettamenti degli obbietti del senso, e le insidie di quel nostro avversario antico, il quale non resta mai per invidia, come dice il nostro Poeta medesimo nel canto undicesimo del Purgatorio, di stimolare e spronare la virtù nostra. E gl’intrinsichi sono le passioni e gli affetti nostri propii, nimici tanto potenti e ascosti, che conoscendo il Profeta di non potere scampare in modo alcuno da le loro mani, senza lo aiuto di Dio, gliele chiedeva bene spesso dicendo: Ab occultis meis munda me, Domine. E perchè questi nimici, così intrinsichi e occulti, non si posson conoscere, se non col conoscer perfettamente sè stesso nel modo che noi abbiamo detto di sopra che insegna il lume divino, Virgilio ammaestrato da Beatrice s’ingegna in tutto questo suo ragionamento metter nell’animo di Dante questa tal cognizione, acciochè egli esca, mediante quella, della selva oscura per la quale egli era camminato fino allora, e fugga e schifi ancor similmente quei pericoli, che gli soprastavano nel tentar di vederne uscire con le forze sue sole. Per il che fare egli lo consiglia primieramente a uscir di quel luogo, dicendoli: onde io, cioè per le quali cagioni, io penso e discerno, cioè ho con prudente consiglio esaminato e conosciuto e giudicato, che sia il tuo meglio seguitarmi; e io sarò tua guida e tua scorta, traendoti e cavandoti di qui, non per un luogo mortale e caduco, come è questo, ma per uno eterno e immortale; ove tu conoscerai perfettamente quello che tu sia, qual sia il tuo vero fine, e che cammino tu abbia a tenere a conseguirlo.
E dipoi per renderlo ancor maggiormente atto e disposto a ricevere il lume della fede viva da Beatrice, egli gli dice cinque cose, molto necessarie per introdurre in lui tal disposizione, di nessuna delle quali egli non avrebbe mai potuto avere cognizione alcuna certa in essa selva, da la sapienza umana. La prima è, che l’anima sua è immortale. Imperò che credendosi egli ch’ella fosse mortale, e avesse a mancare insieme col corpo, non occorrerebbe ch’ei si affaticasse o ponesse studio alcuno, se non in quelle cose le quali sono o utili o necessarie a questa vita presente. La seconda, ch’egli ha a rendere conto a la divina iustizia di tutte le sue azioni, e che ci sono stati ordinati per tale cagione da lei alcuni luoghi dove l’anime, da poi ch’elle sono uscite de’ corpi, hanno a essere secondo i loro meriti o punite o premiate. La terza, ch’egli sta a lui propio il procacciarsi quale egli vuole di questi luoghi, e conseguentemente ch’egli è libero. Imperò che se ei pensasse di operare necessariamente, e non poter fare in altro modo che come egli fa, non bisognerebbe ch’egli si affaticasse in prendere più una strada che un’altra, perchè sarebbe destinato e ordinato il cammin ch’egli avesse a tenere. La quarta, che se egli eleggerà il salire su nel cielo fra le genti beate, e le forze sue non saranno per loro stesse bastevoli a tal cosa, sarà ordinato chi sopperirà a quelle, e lo guiderà felicissimamente a quel regno. E la quinta e ultima è la cagione, per la qual l’intelletto umano non può ascender naturalmente nella vera cognizione di Dio e della eterna beatitudine. Laonde incominciandosi de la prima, dice:
E trarrotti di qui per luogo eterno; |
cioè io ti merrò, cavandoti di questa selva, per un luogo il quale non ha mai a mancare, diviso in tre regni, ne’ quali vanno, come tu vedrai, tutto l’animo dei mortali uscite che elle sono de’ loro corpi. Ove dicendo egli che questi tali luoghi, preparati da la divina previdenza per recettacolo delle anime umane, sono eterni, egli viene ancora per conseguenza a dire che son similmente immortali ed eterne esse anime. Imperò che se esse anime non fussero ancora elleno eterne, sarebbono stati fatti eterni vanamente e senza bisogno alcuno essi luoghi; il che è tanto contro a l’ordine della divina sapienza, che i filosofi tengono che Dio e la natura non abbia mai fatto cosa alcuna invano, per una degnità e per una massima manifesta e certa appresso a ogni sano intelletto. Della quale immortalità dell’anima non poteva mai aver certezza Dante, stando in essa selva. Imperò che affatichinsi quanto ei vogliono i savi del mondo, ei non possono mai acquistare per via naturale la cognizion demonstrativa di tal verità. Egli è ben vero, che quando altrui considera quanto sieno maravigliose l’operazioni del nostro intelletto, e come egli può in uno punto quasi indivisibile di tempo ascendere, con il discorso e con la cognizione, da ’l più basso e più imperfetto ente che si ritrovi in questo universo, il quale è secondo i filosofi la prima materia a ’l più alto e più perfetto, il quale è la prima forma, e far molti altri discorsi simili i quali tengono più tosto del divino che dell’umano, ei non par possibile in modo alcuno, che una sustanza tanto nobile e tanto spirituale abbia a mancare, in quel medesimo modo che fanno le cose corporee e materiali. E questa e altre simili persuasioni indussero Mercurio Trismegisto, Pittagora, Socrate, Platone e molti altri sapienti, nella credenza che l’anime fussero immortali; e fecero ancor forse parlare ad Aristotile e nella Etica e ne’ libri Della anima, e in quegli Della generazione degli animali, in tal maniera, che alcuni tengono ancor di sua mente ch’elle sieno immortali. Niente di manco queste son tutte conietture e ragioni persuasive, e non constringon di tal sorte il nostro intelletto, ch’ei non gli rimanga luogo donde fuggire; per il che non si può saper finalmente tal cosa certamente, se non per via di revelazione, come la manifesta qui Virgilio a Dante, o per via della fede e delle sacre scritture, come farà dipoi Beatrice.
Dopo la qual cosa, gittata da Virgilio nella mente del nostro Poeta per fondamento della preparazione ch’egli intendeva d’introducere in lui, egli soggiugne e dicegli la seconda; la quale è, come ei sono stati preparati da Dio nell’altra vita alcuni luoghi, dove l’anime hanno a essere e punite e premiate delle colpe e de’ meriti loro. Le quali cose sono ancora elleno tanto contro a la sapienza umana, che color che camminan per le sue vie le hanno reputate favole e chimere. E se bene ei si truovano alcuni scrittori (e particularmente Omero, il quale fu reputato uno oceano di scienze) che hanno posto lo Inferno e i campi Elisi, dicendo che in quello son puniti i mortali dei lor falli, e in questi premiati dei loro meriti, ei l’hanno fatto più tosto per muovere gli uomini con il timore della pena, e con la speranza del premio, a fuggire i vizii e seguitare la virtù, dimostrando loro con tali mezzi metaforicamente il contento che si ha nel bene operare, e il tormento che dà altrui il rimorso della conscienza quando l’uomo pecca, che perchè ei credino che tali luoghi sieno veri e reali. E di questo rende manifestissima fede Lucrezio, dicendo nel terzo libro Delle cose naturali:
Atqui animarum etiam quaecumque profundo3 |
Per la qual cosa molti amatori d’essa sapienza umana si sono ingegnati; quando eglino hanno trattato tale opinione, di reprovarla e di destruggerla, come erronea e falsa del tutto; dicendo che l’anime, quando elle sieno pure immortali e possino star, per loro stesse, separate da’ corpi, sono sustanze spiriturali, e a le sustanze spirituali non si conviene, come si è detto più volte, assegnare luogo alcun particulare; e oltre a di questo, che il luogo debbe avere sempre qualche convenienza con la cosa locata, il che non può avvenire a l’anime, essendo elleno incorporee e spirituali, e il luogo corporeo e materiale. Nientedimanco i nostri teologi non hanno per inconveniente lo assegnare a quelle luoghi particulari; dicendo, che se bene la perfezione e la conservazione delle cose spirituali non depende in modo alcuno da i luoghi, elle hanno pure (per essere stato ordinato da la divina sapienza che le cose inferiori sieno governate da le superiori) una certa relazione e convenienza con quegli. Laonde quanto è più perfetta e più nobile una cosa materiale, tanto è ancor più nobile e più perfetta quella sustanza spirituale, la quale è deputata al governo suo; e da questa ragione mossi i filosofi dicono che quella intelligenza, la quale è posta al governo del cielo di Giove, è molto più perfetta che quella del cielo di Marte, e quella di Marte più perfetta che quella di Mercurio e della Luna. Con la qual risposta viene non solo a manifestarsi la verità di tal cosa, ma a solversi ancora le ragioni addotte di sopra da gli avversarii; intendendosi, che se bene le sustanze spiriturali non sono in luogo nel modo che son le corporee, elle vi sono per operazione e secondo quel modo, il quale si è detto altra volta che si conviene a la natura loro; e che la convenienza, la quale è infra loro e i luoghi, non è perchè e elle e quegli partecipino d’una natura medesima (come voi vedete per esempio che avviene al piombo ed al ferro, o a lo abeto e al pino; che quegli posti nell’acqua vanno amendue al fondo per participare e l’uno e l’altro di gravità, e questi stanno a galla per participare amendue di levità); ma è per una certa convenienza di proporzione, in quel modo che si conviene ancor similmente a quelle anime, che sono luminose e chiare mediante la fede e le buone operazioni, il cielo, il quale è luminoso e chiaro ancora egli; e a quelle, che son tenebrose e oscure mediante l’infedelità e le male operazioni, lo Inferno, il quale è tenebroso e oscuro ancora egli. Sono adunque ordinati per le anime nell’altra vita alcuni luoghi, i quali dicono i nostri teologi, che furono innanzi a la morte di Cristo cinque; e di poi quattro, essendo mancato quello ove andavano l’anime di coloro, che si salvavano nella legge antica, e nella fede del Messia il qual doveva venire a salvare il mondo, il quale luogo era chiamato il seno di Abraam; e la cagione era per essere stata promessa tal salute particularmente a lui, per la fede ch’egli dimostrò quando ei si separò da la idolatria e venne al vero culto di Dio; il qual luogo essendo, come narra poco di sotto il nostro Poeta, stato spogliato da Cristo di esse anime, quando egli, risuscitato ch’ei fu, vi discese per menarle seco al cielo, rimase del tutto serrato; onde restorono solamente quattro. E la ragione, per la quale i teologi dicono ch’ei sono in tal numero, è che così come si ritrovano ne’ corpi naturali la gravezza e la levità, da le quali qualitadi, se ei non sono ritenuti da qualche impedimento, i gravi son tirati al basso e i leggieri portati in alto, il che è il fine de’ moti loro; così si trovano ancor nelle anime il merito e il demerito, chè l’uno conduce quelle che non sono impedite a la salute, e l’altro a la dannazione, il che è il fine delle loro operazioni; onde è necessario porre per quelle il regno del cielo, e per queste quello dell’Inferno, che son due. E perchè ei se ne ritruovano ancora alcune, le quali non meritano la dannazione eterna; e nientedimanco sono impedite da qualche colpa, di maniera ch’elle non possono salire al cielo, ove non va cosa alcuna coinquinata nè macchiata; la divina iustizia ha ordinato per loro il Purgatorio e il Limbo, che son due altri a’ quattro; il Purgatorio per quelle che sono impedite da colpe veniali, e che hanno trasmutata la pena eterna, ch’elle meritavano, mediante i sacramenti della Chiesa in pena temporale; e il Limbo per quelle che sono impedite dal peccato originale, e che non hanno avuto battesimo. Ma perchè il Limbo e lo Inferno sono in fatto e realmente un luogo medesimo, e distinti solamente di considerazione (conciosia cosa che l’anime che sono nel Limbo non sentino altra pena, che di non poter mai conseguire il fine loro, e quelle che son dipoi negli altri luoghi dell’Inferno sentono tutte qualche pena sensibile), il Poeta nostro, il quale tenendo ancora egli questa opinione ha posto, come si vedrà al suo luogo, il Limbo nel primo cerchio dell’Inferno, non fa menzione nel testo se non di questi tre: Inferno, Purgatorio e Paradiso; chè per i due primi promette Virgilio di accompagnarlo in persona; e al terzo, se egli vorrà dipo salirvi, dice ch’ei troverà un’anima, a ciò più degna di lui, che ve lo accompagnerà.
Dice adunque Virgilio, volendo dar primieramente notizia al nostro Poeta dello Inferno, con il descriverlo da lo infelice stato delle anime che sono in quello:
Nella qual cosa egli non poteva certamente, volendo esprimere la miseria e l’angoscia di quegl’infelici e dolenti spiriti, dannati da’ tempi antichi fino allora, usare nè le più efficaci nè le più propie parole, che chiamare i loro rammarichii strida dolorose; conciosia che questa voce strido (la quale è nel numero del meno voce masculina, e così la usò il Petrarca, quando disse nella canzone della lite:
. . . . . A questo un strido |
e nel numero del più femminina, coma la usa qui il nostro Poeta) significhi un certo rammaricarsi, gridando con voce e accenti acutissimi, come fanno i bambini quando eglino hanno qualche gran male, o la maggior parte degli uomini quando ei son tormentati e patiscono qualche gran pena; ed è tratta da quel gridare che fanno i porci, quando ei son feriti, chiamato comunemente nella lingua nostra stridere; e quest’altra voce doloroso significhi pieno di dolore, in quel modo che fanno ancor tutte le altre voci, terminate così nella nostra lingua; chè ciascuna significa pienezza di quella cosa donde ella depende, come noioso, pieno di noia, e virtuoso, pieno di virtù. Ciascuno de’ quali spiriti dolenti dice che chiama e chiede continovamente la seconda morte, la quale spenga e distrugga affatto loro, come spense e destrusse i loro corpi la prima. Ove volendo egli mostrare, quanto fusse grande la miseria e la pena d’esse anime, non poteva ancora usare nè il più potente nè il più efficace luogo, che dire ch’elle desiderino per tal cagione di perdere affatto l’essere; cosa tanto contro a natura, quanto è per il contrario cosa naturale, e desiderata da ciascuna cosa, il conservarselo.
Dopo la qual cosa, volendo ancor descriver similmente il Purgatorio da lo stato delle anime che sono in quello, egli dice:
E vederai color, che son contenti |
Per intendimento del qual luogo è da sapere, ch’ei sono stati alcuni i quali hanno detto non esser possibile che l’anime nostre, essendo sustanze spirituali, sieno offese e tormentate da ’l fuoco, il quale è sustanza corporea. Conciosia che tutte le cose, le quali hanno avere azione e passione l’una nella altra, conviene, come dice il Filosofo ne’ libri Della generazione, che comunichino e convenghino almanco in materia, non potendo fare operazione alcuna l’una nell’altra le cose naturali, se elle prima non si toccano. E nientedimanco ei si legge pur nelle sacre lettere, ch’ei non son tormentate da ’l fuoco solamente l’anime nostre, ma ancora i Demonii, i quali sono ancora eglino similmente sustanze spirituali. A la qual difficultà hanno risposto i nostri teologi in diversi modi. Imperò che alcuni hanno detto; ch’elle patiscono da ’l fuoco solamente in comprenderlo e in vederlo; ma non già in quanto egli è visibile, chè in questo modo darebbe egli loro perfezione; ma in questo egli è ministro della divina iustizia, e punitivo delle loro colpe, nel qual modo ei genera dentro di loro continovamente timore e pena grandissima. La qual cosa, perchè essendo così verrebbe questo lor tormento e questa lor passione a essere solamente immaginaria e per accidente, e non in fatto e reale, non è tenuta comunemente per vera. Per il che hanno dipoi detto alcuni altri, che così come gli strumenti adoperati da uno agente non operano solamente in virtù propia, ma ancora in virtù di esso agente (come si vede verbigrazia de lo scarpello, il quale non opera solo in virtù della natura sua propia, levando i pezzi del marmo, ma egli opera ancora in virtù dello scultore che lo adopera, facendone una figura o un’altra cosa simile, secondo l’intenzion dello scultore), così ancora questo fuoco, non operando solamente in virtù della natura sua stessa, ma ancora in quella di Dio che lo usa per sitrumento a punire i peccati, il quale Dio è sustanza spiritualissima, può ancora egli operare spiritualmente in esse anime, tormentandole e cruciandole. Ma perchè questa ragione non conclude ancora ella realmente, ei si tiene per i più quest’altra, che a voler che questo fuoco (essendo egli, come egli è, vero, e non metaforico e immaginato) operi in esse anime, bisogna dargli qualche azione, la quale gli sia comune con quelle. E perchè i corpi non hanno azione alcuna negli spiriti, se non in quanto essi spiriti sono uniti con loro, o come forme in materia, come son l’anime ne’ nostri corpi, o come motori a le cose mobili, come le intelligenze a’ corpi celesti, o come le cose locate a’ luoghi; nè potendo l’anime essere unite a esso fuoco come forme in materia, ch’è il primo modo onde elle possin patire, come fanno le nostre da’ corpi; resta ch’elle patischino solamente in quegli altri due, cioè come da movente la cosa mobile, e coma locata da il luogo, essendo applicate a esso fuoco, e ritenute da lui, ch’elle non possino conseguire il fine loro, nè operare altrove che quivi. Onde non potendo mai volgere l’intenzione e il pensiero ad altro, che al vedersi esser così miseramente relegate e incarcerate dentro a esso fuoco, elle vengono a esser del continovo tormentare e cruciate realmente da lui. Ma perchè quelle che sono in Purgatorio sanno che tal fuoco, non solo non le ha a ritenere ch’elle non vadino a la eterna beatitudine, se non per certo tempo, ma ch’egli è loro mezzo e scala a salire più prestamente a quella, elle si stanno liete e contente in mezzo a le fiamme di quello; come quelle le quali non solamente sperano, ma sanno certo ch’elle hanno quando che sia a salire, come dice il testo, al regno del cielo; il quale è il terzo luogo ordinato, come si è detto, da la providenza divina per esse anime.
Del qual cielo volendo Virgilio ragionare, descrive ancor quello, come egli ha fatto gli altri due, da la condizione delle anime che lo abitano, chiamandole, come facciamo ancor noi, con questo nome beate. Il quale nome è stato lor posto e dagli scrittori e da l’uso molto propiamentee con grandissima considerazione. Imperò che così come i latini, ne la lingua de’ quali ha la sua origine questa voce, chiamano beati quegli ai quali non manca cosa alcuna a bene e felicemente vivere, così chiama ancor per similitudine la religione nostra beate le anime che sono in cielo, per non mancar loro contentezza nè cosa alcuna ch’elle desiderino; non essendo altro la beatitudine, secondo la diffinizione che ne dànno i teologi, che uno stato felice e perfetto per contenere in sè ogni bene, come ne dimostra chiaramente il Poeta nostro medesimo nell’ultimo6 canto del Paradiso, dicendo:
Ed io che al fine di tutti i desii |
E questo basti per dichiarazione della seconda delle cinque conclusioni dette da Virgilio in questo ragionamento, riserbandomi, per non esser più lungo, a esporre l’altre con vostra licenzia nella seguente lezione.