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Valéry, così rigorosamente, come l’ultimo frutto del simbolismo. Valéry ha delle radici in questi mondi. I poeti che spremono l’infinito come un limone maturo — Mallarmé più degli altri — sono in rivolta perpetua contro il vocabolario. La povertà delle parole li esasepra, e a torto, poiché non avrebbero più nessuna voglia di scriver dei versi, se le parole possedessero già la qualità divina di essere poesia. Valéry, invece, come i classici, sente il valore di questa resistenza delle parole, e ora mi ricordo di una intervista, in cui Leon Paul Fargue si rallegrava di aver da fare con il francese, perchè «è una lingua dura». Rileviamo, tra l’altro, che si possono scrivere in tutte due le maniere dei capolavori; ma che la Divina Commedia è più bella di qualunque suo verso, mentre un verso di Mallarmé è sempre più bello di tutta la poesia.

Non potrei sognare un esempio più persuasivo del cinema. Ecco un’arte che può avere delle immense ambizioni — e che ha per prima necessità il silenzio. L’infinito delle passioni e dei sentimenti, tutto quello che si esprime in parole, deve apparire sopra uno schermo silenzioso.

Possiamo ammirare questa difficoltà, ora