Leonardo o dell'arte/La gara con la natura

La gara con la natura

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La necessità e le leggi della pittura Del bello artistico
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LA GARA CON LA NATURA


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Ricapitolando, diciamo che Leonardo non ha visto nell’universo, come gli altri pittori del Rinascimento, quella che si potrebbe chiamare una pittura distesa in profondità, ma un ordine disciplinato da delle leggi; che non ha offerto come modello al pittore una semplice superficie, ma gli ha imposto l’esempio di questo universo ordinato, perchè ispirandosene facesse dell’opera d’arte un mondo costituito secondo un ordine analogo.

Si potrebbe dunque concludere che un’opera d’arte non è semplicemente il ristretto della natura, che la natura è il microcosmo costruito sul suo modello possono chiamarsi diversi, soltanto perchè l’una è grande e l’altra è piccola? Un’opera d’arte suscita apparentemente nell’uomo le stesse idee, lo fa fremere dello stesso piacere e si sottopone alla stessa disciplina di grandi leggi. Che differenza c’è — allora — tra un’opera d’arte e la natura? Qui è la chiave dell’enigma estetico di [p. 124 modifica] Leonardo. Nel suo pensiero l’opera d’arte si modella sul mondo; ma poi gli si contrappone; e in ultima analisi si vede che l’opera d’arte non conta, che perchè è diversa dalla natura. Ma in che modo? Abbiamo visto finora in che maniera le rassomigli. Vedremo, in questo capitolo, come l’opera d’arte trovi la sua giustificazione umana.

Per arrivarci, sorprenderemo il pittore, dando un’occhiata alla natura e un’occhiata all’opera d’arte, nel momento in cui dà la vita al suo microcosmo, con dinnanzi il modello dell’universo. È venuto infatti il momento di studiare la stoffa di quelle leggi, che disciplinano l’ispirazione dell’uomo.

«Con tali arti... ha conseguito tutto quello che può far la natura»1 ha scritto un suo critico, il Lomazzo. Quali sono queste arti? Con che mezzi si costruisce questo piccolo universo simile e diverso dalla natura? Non certo imitandola. Quando si sappia che cosa Leonardo vedesse nella natura, non ci si può contentare di questa formula.

È curioso notare come i critici di Leonardo cerchino di conciliare il principio dell’imitazione colla sua visione della natura. Allucinati dalle pagine in cui continuamente splende questo principio, non osano abbandonarlo e [p. 125 modifica] lo torcono con tutte le astuzie che la provvidenza concede largamente ai critici d’arte.

Julius von Sehlosser, per esempio, crede che il pittore in quanto imita «assimila colla fantasia»2; James Wolff3 scrive che l’arte, in Leonardo, non è soltanto «Imitazione della Natura», ma «in erster Linie Nachamung der Schönen Natur», e conchiude finalmente che l’arte imita sì la natura, ma scegliendo dalla natura certi elementi ne forma poi una figura ideale4.

Capisco in verità che un pittore del Rinascimento, il quale vedeva già nella Natura la sua pittura, si immaginasse di imitare la natura, nel momento in cui riproduceva la sua stessa visione pittorica. Ma per Leonardo che concepisce la Natura come un ordine regolato da leggi, il principio dell’imitazione risulta insensato. È inutile dire che l’arte non deve, quando bisognerebbe dire che non può imitar la natura. Il microcosmo pittorico non può essere infatti costruito imitando; perchè l’imitazione avrebbe un significato solo quando il pittore disponesse dei mezzi che ha avuto Dio. Dato che il pittore ha nel pugno un pennello ed una tavolozza e davanti agli occhi una tela, un muro o una tavola, come gli si può dire di imitar la natura? [p. 126 modifica]

Non ci si deve però meravigliare, se al principio dell’imitazione il Trattato offre tante pagine. È un omaggio al sottinteso del tempo. Chi mai sarebbe riuscito — in un momento in cui trionfando di seconda mano per lo splendore delle opere a cui s’accompagnava, quel principio doveva essere universale e pieno di forza, a evitarlo in un trattato della pittura, dando appunto i precetti che insegnavano a catturare, inseguendola di ora in ora, attraverso i giochi irrequieti e dolci del sole, sin le più fuggitive apparenze della natura? La parola imitazione ha sopratutto un significato pratico: serve a evitare ogni volta una discussione di principio che s’imporrebbe, se Leonardo avesse voluto affermare continuamente il suo pensiero originale. Non per nulla infatti Leonardo si contraddice.

Ora, possiamo assumere come regola, con una certa prudenza, che quando Leonardo si oppone al ritmo del suo tempo, ci offre una più sicura garanzia di essere sincero, che quando si mette al passo con tutti gli altri; perchè è più facile lasciare un posto nel proprio pensiero a delle idee fatte, in nome del quieto vivere e per non rifarsi da capo ogni volta che si entra nell’argomento, quando si hanno degli ideali rivoluzionari, che non fare [p. 127 modifica] il rovescio: e cioè lasciare un piccolo cantuccio, come dinanzi a un diritto di consuetudine, a quelle idee, che per essere state concepite contro le idee del tempo devono esser robuste, per poi credere profondamente ai luoghi comuni.

Dobbiamo ammettere che il pensiero estetico di Leonardo non ha trovato una formula precisa, vigorosa e cosciente, come quella a cui si contrappone. La formula dell’imitazione rappresentava infatti uno dei primi tentativi di attività puramente estetica del Rinascimento; mentre il principio estetico di Leonardo, che in questo studio cerchiamo appunto di formulare, rimane ancora a mezzo tra il sentimento e l’idea. Senonchè possiamo dire che il fatto stesso di apparir nel Trattato tra il lusco e il brusco, non sempre chiaro, ma sempre impetuoso e profondo come un fiume in cerca di sbocco, ci dimostra come questo principio sia nello stesso tempo selvatico e vero.

Qualsiasi formula filosofica vorrebbe abbellirsi di simmetrie ed ha una vaga nostalgia di sonorità. Questo è uno dei più grandi e dolci pericoli della filosofia: pochi filosofi infatti non sono stati trascinati a segreti compromessi con la verità, dal bisogno di darle una forma architettonica. Kant che cerca [p. 128 modifica] disperatamente una sintesi a priori per la Critica del Giudizio, non è forse un esempio di questo bisogno di simmetria, che fa parte più dell’estetica che della logica? Con le parole uno scrittore può dimostrar tutto. Ogni formula è fatta di rinunzie e talvolta non è difficile sacrificare un concetto che spunti al di là del giro di una definizione. Ma non è questo il caso del principio estetico di Leonardo, frutto spontaneo e quasi informe di una lunga meditazione, ultimo risultato filosofico delle esperienze pratiche di un pittore, che sorvegliava i suoi sentimenti.

Leonardo ci parla della sua estetica con una innocenza brutale, senza chiuderla in nessuna definizione; e un sospetto di manierismo non può infirmare davvero delle idee che sono state tanto sofferte. Quello in cui, più che espresse, vengono affermate, tradotte in canto, è il momento solenne in cui Leonardo parla a sè stesso del mistero della erezione. In un’ora di così profonda sincerità, un artista lontano da tutti gli uomini e di fronte a sè stesso non si lascia sopraffare dalla nostalgia di nessuna formula architettonica, decorativa e inesatta.


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Quale è dunque il principio che regola i rapporti tra il mondo della natura e il mondo dell’arte, e stabilisce in che modo si contrappongono? Lo cercheremo al solito nei meandri dell’arte «più universale», nella pittura, e nelle leggi che impone all’uomo. Abbiamo già visto che cos’è la sua necessità: una superficie che deve rimaner piana. Quali potrebbero essere le leggi, poichè se ne vede un così gran numero, spesso tanto contradittorie, che ne fanno un’arte disciplinata? Scegliamone due, che mi sembrano gli archi di volta del sistema. Una è contenuta nel passo: «La pittura è fondata sulla prospettiva5»; l’altra nel passo: «I suoi scientifici e veri principi prima ponendo che cos’è corpo ombroso6»...

La pittura è dunque, da una parte prospettiva, dall’altra ombra.

La prima legge si riferisce ai rapporti dello spettatore con le cose raffigurate sopra la tela, la seconda ai rapporti tra le cose e l’atmosfera del quadro; e poichè la legge della prospettiva regola il modo di assorbire le cose nella profondità degli sfondi, e la legge dell’ombra quello di rilevarle sulla superficie, ci si potrebbe meravigliare di vederle riunite nello stesso tempo come le due leggi fondamentali della pittura, se, come vedremo, [p. 130 modifica] quest’apparente contraddizione non venisse appunto risolta dal glande principio estetico di Leonardo.

«La prospettiva, scrive Leonardo, la quale si estende Oella pittura, si divide in tre parti principali, delle quali la prima è della diminuzione che fanno le quantità de’ corpi in divèrse distanze; la seconda parte è quella che tratta della diminuzione de’ colori di tali corpi; la terza è quella che diminuisce la notizia delle figure e dei termini che hanno essi corpi in varie distanze»7.

L’ombra, «nominata per il proprio suo vocabolo è da esser chiamata alleviazione di lume applicata alla superficie de’ corpi, della quale il principio è nel fine della luce, ed il fine è nelle tenebre»8.

La prospettiva è quella «investigazione ed invenzione sottilissima», la quale «per forza di linee fa parere remoto quel che è vicino, è grande quel che è piccolo».

L’ombra è quell’«alleviazione di lume» senza cui le cose «saranno senza rilievo». Due leggi opposte. In un passo del Trattato le troviamo riunite: «la prima parte della [p. 131 modifica] pittura è che i corpi con quella figurati ai dimostrino rilevati (mediante l’ombra) e che i campi di essi circondatori con le loro distanze si dimostrino entrare dentro alla parete, dove tal pittura è generate, mediante le tre prospettive, cioè diminuzione delle figure de’ corpi, diminuzione delle magnitudini loro e diminuzione de’ loro colori. E di queste tre prospettive, la prima ha origine dall’occhio, le altre due hanno derivazione dall’aria interposta infra l’occhio e gli obbietti da esso occhio veduti» 9.

Quando si pensa che Leonardo scrisse della pittura «è in sè cosa superficiale, e la superficie non ha corpo» 10, si vede tutta la solennità di questi prìncipi, perchè tanto l’ombra che là prospettiva non sono che due maniere di ribellarsi contro una superficie, la quale è il fondamento stesso dell’arte.

Quando dipinge, quando cioè si trova con in pugno un pennello e dinnanzi un piano, Leonardo smania sópratutto di creare dei rilievi e delle profondità. Allorché infatti, rivelando il fondo del suo pensiero attraverso il candore diafano degli argomenti cón cui cerca di sostenerlo, cerca di stabilire una inutile gerarchia fra pittura e scultura, non si chiede già quale sia più «bella» dell’altra, o, come [p. 132 modifica] quando contrapponeva pittura, scultura, poesia e musica, quale sia più «universale», ma «quale sia di maggiore ingegno, difficoltà e perfezione» 11. Attributi prìncipi, prima ancora della perfezione, sono l’ingegno e la difficoltà. L’ingegno è per Leonardo quello che si potrebbe chiamare il genio del rimedio, la scienza di risolvere i problemi insolubili. Un’arte di «maggiore ingegno» è dunque un’arte in cui il genio del rimedio è più necessario, in cui si offrono in maggior numero degli impacci. E il pittore è grande, più grande di uno scultore o di un musico, perchè disponendo semplicemente di quattro colori fondamentali, di un piano e di due grandi leggi, l’ombra e la prospettiva, «figura le cose trasparenti e lo scultore dimostrerà le naturali senza suo artifizio: il pittore ti mostrerà varie distanze con variamento del colore dell’aria interposta fra gli obbietti e l’occhio; egli le nebbie, per le quali con difficoltà penetrano le specie degli obbietti; egli le pioggie, che mostrano dopo sè i nuvoli con monti e valli; egli la polvere che mostrano in sè e dopo di sè i combattenti di essa motori; egli i fumi più o men densi; questo ti mostrerà i pesci scherzanti infra la superficie delle acque e il fondo loro; egli [p. 133 modifica] le pulite ghiaie con varii colori posarsi sopra le lavate arene del fondo dei fiumi, circondati delle verdeggianti erbe, dentro alla superficie dell’acqua; egli le stelle in diverse altezze sopra di noi e così altri innumerabili effetti ai quali la scoltura non aggiunge» 12.

Tra la natura e l’arte, questa è la prima differenza fondamentale: la natura è sempre soggetta alle sue necessità, l’arte ha da superarle. Il Moeller van der Bruck 13 spiega ingenuamente questo furor del rilievo, come il bisogno di fondere la pittura con la scultura in una arte nuova. E questo tentativo gli è parso così difficile da giustificare, quasi per un esaurimento fisico dell’artista, tutte le opere che Leonardo ha lasciate incompiute. Ma quando osserva che la scultura sarà sempre più plastica della pittura e che non vai la pena di affaticarsi su questa nuova botte delle Danaidi, il Moeller van der Bruck non pensa che il rilievo per Leonardo ha un valore soltanto perchè è miracolosamente suggerito sopra una superficie piana e che se Leonardo avesse avuto del marmo, il rilievo gli sarebbe parso di poca «speculazione» e goffo del tutto a provocar «meraviglia». C’è dunque in questo atteggiamento qualcosa di più profondo. Perchè infatti Leonardo crede [p. 134 modifica] la pittura superiore alla scultura? «La prima maraviglia che apparisce nella pittura scrive — è il parere spiccata dal muro od altro piano, ed ingannare i sottili giudizi con quella cosa che non è divisa dalla superficie della parete; qui in questo caso lo scultore fa le opere sue che tanto paiono quanto elle sono, e qui è la causa che il pittore bisogna che faccia l’ufficio della notizia nell’ombre, che siano compagne de’ lumi. Allo scultore non bisogna tale scienza perchè la natura aiuta le sue opere come essa fa ancora a tutte le cose corporee, dalle quali tolta la luce sono di un medesimo colore, e renduto loro la luce sono di varii colori cioè chiaro e scuro. La seconda cosa che al pittore con gran discorso bisogna, è che con sottile investigazione ponga le vere qualità e quantità delle ombre e lumi; qui la natura per sè le mette nelle opere dello scultore. Terza è la prospettiva, investigazione ed invenzione sottilissima degli studi matematici, la quale per forza di linee fa parere remoto quel che è vicino, e grande quello che è picciolo; qui la scultura è aiutata dalla natura in questo caso, e fa senza invenzione dello scultore» 14.

«Lo scultore — ripete in. un altro passo — è aiutato dalle natura del rilievo ch’ella [p. 135 modifica] genera per sè; e il pittore per accidentale arte lo fa ne’ luoghi dove ragionevolmente lo farebbe la natura; lo scultore non si può diversificare nelle varie nature de’ colori delle pose; la pittura non manca in parte alcuna. Le prospettive degli scultori non paiono niente vere, quelle del pittore paiono a centinaia di taglia di là dall’opera. La prospettiva aerea è lontana dall’opera. Non possono figurare i corpi trasparenti, non possono figurare i corpi luminosi, non linee riflesse, non corpi lucidi, come specchi e simili cose lustranti, non nebbie, non tempi oscuri ed infinite cose che non si dicono per non tediare» 15.

Leonardo crede che la pittura sia superiore alla scultura, perchè la pittura è più difficile. Ecco la difficultà! Leonardo ci rammenta tutto quello che non può far la scultura, con l’aria di rimproverarle d’essere un’arte povera, solo per farci ammirare, grazie al confronto, come la pittura sia ricca di difficoltà.

Così, nota in un altro passo come il pittore abbia «died varii discorsi», che sono anche chiamati «ornamenti del mondo» o «uffizi dell’occhio»... «co’ quali esso conduce al fine le sue opere, doè luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione, [p. 136 modifica] propinaquità, moto e quiete. Lo scultore solo ha da considerare corpo, figura, sito, moto e quiete; nelle tenebre o luce non s’impaccia, perchè la natura da sè le genera nelle sue sculture; dei colori nulla, di remozione o propinquità se n’impaccia mezzanamente, cioè non adopera se non la prospettiva lineale, ma non quella dei colori, che si variano in varie distanze dall’occhio di colore e di notizia de’ loro termini e figure. Adunque ha meno discorso la scultura, e per conseguenza è di minore fatica d’ingegno che la pittura»16.

Questi «dieci ornamenti del mondo» sono semplicemente dieci difficoltà da risolvere. Non se ne «impaccia», scrive della scultura e per conseguenza è «di minore fatica d’ingegno».

Quando mancano dunque queste «difficoltà»? Quando l’artista «è aiutato dalla natura». Quando mai l’arte è di più «sottile speculazione»? Quando, senza essere aiutata dalla natura, raggiunge gli stessi effetti. Un’arte è dunque tanto più grande quanto più è umana e quanto meno è naturale.

«La pittura, scrive, è di maggior discorso mentale che la scultura e di maggior artificio o meraviglia che la scultura; conciossiachè la [p. 137 modifica] scultura non è altro che quel che pare, cioè nell’essere corpo rilevato, e circondato di aria, e vestito da superficie oscura e chiara, come sono gli altri corpi naturali; e l’artificio è condotto da due operatori, cioè dalla natura e dall’uomo; ma molto è maggiore quello della natura » 17.

Infatti egli conclude: «la scultura con poca fatica mostra quel che la pittura pare cosa miracolosa, cioè a far parere palpabili le cose impalpabili, rilevate le cose piane, lontane le cose vicine; in effetto la pittura è ornata d’infinite speculazioni, che la scultura non le adopera. Nessuna comparazione è dell’ingegno, artificio e discorso, della pittura a quello della scultura, che non s’impaccia se non della prospettiva causata dalla virtù della materia, non dell’artefice.

«... Ma la pittura, è di maraviglioso artificio, tutta di sottilissime speculazioni, delle quali in tutto la scultura n’è privata per essere di brevissimo discorso» 18.

Quelle suggestioni, infatti, che sono tutto il tessuto della pittura, «bisogna che il pittore se le acquisti per forza d’ingegno e si converta in essa natura, e lo scultore le trova di continuo fatte» 19.

Per questo Leonardo nota che «il basso [p. 138 modifica] rilievo è di più speculazione senza comparazione al tutto rilievo, e si accosta in grandezza di speculazione alquanto alla pittura; perchè è obbligato alla prospettiva; e il tutto rilievo non s’impaccia niente in tal cognizione, perchè egli adopera le semplici misure come le ha trovate al vivo; e di qui, in quanto a questa parte, il pittore impara più presto la scultura che lo scultore la pittura. Ma per tornare al proposito di quel che è detto del basso rilievo, dico che quello è di men fatica corporale che il tutto rilievo, ma assai di maggiore investigazione, conciossiachè in quello si ha da considerare la proporzione che han le distanze interposte infra le prime parti de’ corpi e le seconde, e dalle seconde alle terze successivamente; le quali se da te prospettivo saranno considerate, tu non troverai opera nessuna in basso rilievo, che non sia piena di errori nè casi del più o men rilievo... il che mai sarà nel tutto rilievo perchè la natura aiuta lo scultore; e per questo quel che fa di tutto rilievo manca di tanta difficoltà» 20.

Da tutti questi passi ci appare quello che dev’essere per Leonardo il secondo attributo di un’arte vera. Perchè l’arte, che invece di aiutarlo con l’ampiezza dei mezzi, deve limitare [p. 139 modifica] l’artista con il rigore delle sue leggi, è tanto più grande quanto più chiede all’uomo «ingegno», quanto più gli offre «difficoltà». L’artista ha da superare i limiti che la natura gli ha posto - e cioè la necessità dell’arte: ma deve riuscirci con il minimo dei mezzi e «non uscendo dalle misure» 21.

L’artificio, e cioè il segreto di risolvere un problema insolubile in maniera insospettata, è dunque, per Leonardo, uno dei fondamenti dell’arte, perchè suscita la meraviglia. Non ci si deve stupire se uno degli effetti che l’arte per Leonardo deve provocare nell’uomo è la «meraviglia» 22. La pittura, scrive, è di «maggior meraviglia» 23.

Anche un rimatore famoso del Seicento, cantò di una meraviglia, che sarebbe il «fin» del poeta; ma si trattava di una meraviglia più simile a quella che suscita nel pubblico il funambolo delle fiere, che della meraviglia di cui parla Leonardo nel suo Trattato. Si riaccostò invece a Leonardo qualche secolo dopo Baudelaire, quando scrisse: «la beau est toujours étonnant» 24. Questa formula non ha un vero significato che quando si nega la sua reciproca. Il sorprendente non è sempre bello, mentre il bello è sempre sorprendente. Quando si trova in Leonardo, questa «meraviglia» ha [p. 140 modifica] l’aria d’appartenere, tutto sommato, a una classe abbastanza candida di stupori: quelli che provocano gli artifici più elementari, non dico di un’arte, ma di una tecnica. Se però si inquadra in tutto il sistema di Leonardo, questa meraviglia rivela un più sottile significato, ed è la stessa meraviglia dell’uomo, che diventa consapevole della propria potenza.

Il bello dunque ci maraviglia perchè ci rivela un’analogia imprevista con l’universo: e tutti questi piccoli mondi indipendenti e schiavi della natura, che sono le opere d’arte, ci meravigliano, da una parte perchè ognuno di noi prova dinanzi a loro il gradevole dispetto di scoprire una combinazione d’elementi che non avrebbe pensati; dall’altra perchè rammentano a noi stessi la forza di cui possiamo servirci per rivaleggiare con la natura. Questa scoperta ci sembra di nuovo impossibile, sùbito dopo che l’abbiam fatta; così che possiamo vedere nella meraviglia dell’uomo dinnanzi all’arte, la forza viva di un sentimento che si rinnovella ogni volta.

Anche Leopardi ne aveva notato il valore. Nel suo sistema di Belle Arti egli comincia così: «Fine - il diletto; secondario alle volte, l’utile. — Oggetto e mezzo di ottenere il [p. 141 modifica] fine - l’imitazione della natura, non del bello necessariamente. Cagione prima del fine prodotto da questo oggetto, ossia con questo mezzo - la meraviglia..... La meraviglia così è prodotta dall’imitazione del bello, come da quella di qualunque altra cosa reale o verosimile: quindi il diletto delle tragedie, ecc., prodotto non dalla cosa imitata, ma dall’imitazione che fa meraviglia» 25. E una pagina dopo aggiunge: «Difficoltà d’imitare quindi la maraviglia nata dall’imitazione e il diletto nato dalla maraviglia» 26.

Leopardi ha scoperto una verità, che ha spiegato male. Noi ci maravigliamo, non perchè sia difficile di imitar la natura, ma perchè ci troviamo dinnanzi al continuo paradosso di un tutto raggiunto con una parte. Ogni artista infatti ha come supremo ideale il tutto della natura, l’universo infinito; senonchè, la necessità a cui è sottomessa ogni opera d’arte lo condannano come Tantalo a guardare un frutto che non s’acchiappa. Ma questo è appunto il genio: raggiungere una meta, quando non si potrebbe, superare la necessità di un’arte, senza violare le leggi che la governano. Tal prodigio provoca «meraviglia». La meraviglia è tanto più grande, quanto più le leggi sono limitate e le [p. 142 modifica] necessità rigorose. Nel campo della pittura che è il nostro campo sperimentale, vediamo che la pittura ha come necessità una superficie che deve restar piana; come leggi fondamentali l’ombra e la prospettiva. Ci si pone ora un problema. E il colore?


Leonardo non s’è molto preoccupato di’ questa, che per la pittura è la delizia fondamentale. Nessuno vuol riflettere a questo fatto, perchè tutti lo sanno; ma in verità non basta spiegarlo dicendo che Leonardo era un fiorentino, e che i fiorentini non erano coloristi. E’ falso, prima di tutto, che i fiorentini fossero così poco coloristi come si dice; e non è detto d’altra parte, che per il fatto che i fiorentini non erano dei coloristi, anche Leonardo dovesse diventare un disegnatore. Come sconvolse la pittura del suo tempo con lo sfumato e la prospettiva aerea, che non sono un privilegio dei fiorentini, avrebbe potuto essere un colorista a dispetto delle sue origini. Rinunziò invece al colore, e non per caso o per abitudine. Perchè?

«La prima intenzione del pittore, scrive Leonardo, è fare che una superficie piana si [p. 143 modifica] dimostri corpo rilevato è spiccato da esso piano; e quello che in tale arte eccede più gli altri, quello merita maggior laude; e questa tale investigazione, anzi, corona di tale scienza, nasce dalle ombre e dai lumi, o vuoi dire chiaro e scuro. Adunque chi fugge le ombre fugge la gloria dell’arte appresso i nobili ingegni, e l’acquista appresso l’ignorante volgo, il quale nulla più desidera che bellezza di colori, dimenticando al tutto la bellezza e meraviglia di mostrare di rilievo la cosa piana» 27.

Il fasto di colori è lasciato al volgo come gioia sensuale, e non artificio e speculazione.

«Solo la pittura — scrive ancora — si rende 28 ai contemplatori di quella, per far parere rilevato e spiccato dai muri quel che non lo è, ed i colori sol fanno onore ai maestri che li fanno, perchè in loro non si causa altra meraviglia che bellezza, la quale bellezza non è virtù del pittore, ma di quello che li ha generati, e può una cosa esser vestita di brutti colori e dar di sè meraviglia a’ suoi contemplanti per parer di rilievo» 29.

Gli argomenti di Leonardo ci saranno dunque parsi inammissibili fino alle soglie di quella che invece stimiamo una verità. L’ultimo più di tutti. Ma forse per un gioco di [p. 144 modifica] idee che può sembrare un po’ strano, il più inammissibile è nel tempo stesso il più profondo; e questo passo oscuro è forse lo spiraglio attraverso cui potremo finalmente vedere quel principio estetico, che abbiamo cercato in tutti i ripostigli del Trattato della pittura. Leonardo s’è rifiutato di studiare le risorse magiche del colore, perchè la bellezza del colore «non è virtù dei colori, ma di quello che li ha generati». La meraviglia che suscita un bel colore, non è cioè meraviglia artistica, prodotta dal miracolo dell’ingegno, che fa parere quello che non è, ma meraviglia bruta, che ci invade senza nessuno artifizio dinnanzi a una sostanza gradevole all’occhio di per sè stessa. Il colore non è arte, perchè è natura. Il colore è privilegio, strumento, e non impaccio della pittura; è un mezzo, non simile, ma identico a quello di Dio. Il colore non è un problema insolubile. Perciò gli sembra inutile di risolverlo. E poiché l’arte ha da rivaleggiare con la natura, senza usar dei suoi mezzi, giocare con i colori è per Leonardo facile e inammissibile. Allo stesso modo Bach e Beethoven, rifiutandosi di adoprare i suoni per quello che potevano contenere di gradevole all’orecchio, tendevano a delle frasi musicali, in cui le note, componendosi, [p. 145 modifica] divenissero coordinate e spirituali come un’idea.


Che significa dunque questo paradosso di un pittore che sdegna il colore e cioè la sostanza e la bellezza stessa della sua arte; che innalza la pittura al supremo onore di arte universale, anzi di sola grande Arte, perchè si avvicina al mondo della natura più di tutte le altre, e poi le rifiuta il dolce privilegio di vestirsi, come la natura, dello spettro solare? Filosofia intellettualistica della pittura, hanno risposto dei critici. E' vero: ma in questa filosofia intellettualistica c’è qualcosa di più, c’è una concezione, non della pittura, ma dell’arte stessa, che sotto un’apparenza bizzarra nasconde una verità profonda. Questa verità è condensata in una piccola frase, che è rimasta smarrita tra i diluvi e le battaglie, descritte con tanta maestosa potenza, tra i luminosi precetti tecnici, con cui Leonardo insegnava a catturare la luce e a esprimere le passioni: «il dipintore disputa e gareggia con la natura» 30.

Al concetto dell’imitazione è sostituito quello della rivalità.

Ma non è tanto questo concetto che


10. Ferrero [p. 146 modifica] importa, quanto l’esigenza che lo complica, limitandolo.

Per Leonardo la natura è un mondo compiuto e perfetto; e l’opera d’arte è un mondo compiuto e perfetto come la natura; ma quello che distingue l’opera d’arte dalla natura, quello che spiega come un’opera d’arte e un paesaggio ci piacciano o dispiacciano in due maniere, è che la natura è un tutto ottenuto con tutto, un infinito fatto di elementi infiniti, mentre l’opera d’arte è un tutto ottenuto con una parte, un infinito raggiunto con mezzi finiti: illudere ch’è perfetta quando è fatta con dei mezzi imperfetti, suggerire un tutto con una parte, ecco la contraddizione splendente di cui s’arricchisce come di una luce ogni opera d’arte. Ciò che godiamo nell’arte e non godiamo nella natura, è proprio il mistero e l’incredibile magìa di un aspetto della vita, ricostruito per suggestione.

Noi non apprezziamo infatti un quadro che come un miracolo, paragonando d’istinto e inconsci i pennelli, i quattro colori fondamentali, il carboncino e la tela con la infinita potenza della natura.

Chi proverebbe un piacere artistico dinnanzi a un quadro, se l’aria trasparente non fosse resa con delle mestiche opache, se gli [p. 147 modifica] interminati orizzonti non fossero suggeriti in un rettangolo chiuso da quattro confini d’oro, se il rilievo non s’imponesse per forza d’ombre sopra una superficie, se gli spazi non violassero l’impenetrabile durezza d’un piano? Noi godiamo in un’opera d’arte tutto quello che non si potrebbe fare e si fa lo stesso, e il piacere che ci dà un’opera d’arte è proporzionato alla povertà dei suoi mezzi, poiché non ci preme tanto che un artista raggiunga il tutto, di cui abbiamo un modello nella natura, quanto che lo raggiunga miracolosamente, e noi non chiediamo a un’opera d’arte di essere simile alla natura, ma di vincerla in una lotta disuguale.

Questo è il nucleo di verità eterna che si può cavare da tutti gli errori del Trattato di Leonardo.

Per quanto ci sia arrivato attraverso a ùn laborioso processo di idee, di sentimenti e di studi, che non ha certo affaticato la mente degli altri pittori, e che può essere discutibile, il principio è vero anche per loro ed è vero anche per noi. Nella seconda parte di questo studio, ci sforzeremo di svilupparlo. Notiamo, per ora, che questa scoperta ci dimostra come Leonardo fosse veramente grande, nel senso classico; perchè se da una parte [p. 148 modifica] si capisce che soltanto nel suo mondo spirituale potesse maturare l’idea, che faceva dell’opera d’arte un rivale dell’universo, facilmente in quel furore ciclopico Leonardo avrebbe dovuto sognare una fantastica liberazione dalla tecnica della pittura e volendo ingrandirsi i mezzi, a misura che il fine diveniva più vasto, naufragar nell’immenso. Michelangelo ha avuto il suo momento di gigantesca pazzia, quando ha pensato di scolpire una montagna della Versilia. Ma Leonardo ha scritto: «Dico esser più difficile quella cosa che è costretta a un termine, che quella che è libera». E si è costretto a un termine. Ora, egli non aveva tollerato nessun limite alle sue indagini, nessun mistero nei vasti moti dell’universo. Oltre che pittore, egli era scultore, architetto, chimico, fisico, naturalista; viveva perciò tra i frutti più opulenti della natura e tra le forme più belle e varie dell’arte, in mezzo ai segreti umani e divini dell’universo. Sapeva che la natura rapprende in una unità i colori, le forme e le architetture, e le immerge nella profondità dello spazio. Mi pare che non sia stato abbastanza ammirato come quest’uomo, in cui si riassumevano così vaste esperienze, non abbia pensato, quando volle dar fondamento a un [p. 149 modifica] microcosmo, fatto sul modello della natura, di liberarsi da tutte le vecchie leggi dell’arte, di gonfiare e scavare una impassibile superficie piana, di inquadrarla in un edificio; di assumere dalla natura lo spazio, la materia, i segreti chimici; dall’arte i suggerimenti segreti e le tecniche, per arrivare a un mondo compiuto attraverso a delle miracolose magie.

In questo senso forse Paul Valéry, il nostalgico del cilicio, il poeta che seppe cantare la dolcezza della regola, è l’ultimo discepolo intellettuale di Leonardo. Il maestro non si sente tanto nella sua «Introduction à la méthode de Léonard de Vinci» («quant au vrai Léonard, il fut ce qu’il fut 31, come in una prosa intitolata: «Au sujet d’Adonis». Qui Valéry scrisse:

«Les exigences d’une stricte prosodie sont l’artifice qui confère au langage naturel les qualités d’une matière résistante, étrangère à notre âme et comme sourde à nos désirs. Si elles n’étaient pas à demi insensées et qu’elles n’excitassent pas notre révolte, elles seraient radicalement absurdes. On ne peut plus tout faire, une fois acceptées; on ne peut plus tout dire; et pour dire quoi que ce soit, il ne suffit plus de le concevoir fortement, d’en être plein et énivré, ni de laisser [p. 150 modifica] échapper de l’instant mystique une figure déjà presque tout achevée en nôtre absence. A un dieu seulement est réservé l’ineffable indistinction de son acte et de sa pensée. Mais nous, il faut peiner; il faut connaître amèrement leur différence» 32.

Valéry non sa scindere l’arte da questa voluttuosa sofferenza della Regola: «Nous avons arrêté — scrive — de soumettre la nature — je veux dire le langage — à quelques autres règles que les siennes, et qui ne sont pas necessaires, mais qui sont nôtres; et même que nous poussons cette fermeté jusqu’à ne pas daigner de les inventer: nous les recevons telles quelles» 33.

Ecco Leonardo! L’idea di una limitazione volontaria riempie anche le pagine del ''Tra i due mondi'' di Guglielmo Ferrero e del ''Système des Beaux Arts'' di Alain, ma trova in Valéry, più che il suo filosofo, il suo poeta. Per Valéry, come per Leonardo, questo è stato un problema autobiografico e Valéry deve ammirare il suo vecchio maestro sopratutto per la divina civetteria, con cui Leonardo ha voluto allargare fino agli orli del pensiero umano il suo ideale di artista, senza irrobustire, anzi restringendo i mezzi con cui doveva esprimerlo nella cornice di un quadro, [p. 151 modifica] e ha allontanato il punto di partenza dal punto di arrivo fino che gli era possibile, quasi per dare alla sua opera d’arte lo splendore di una sublime scommessa.


Note

  1. [p. 157 modifica]Lomazzo, Idea del Tempio della Pittura, Milano, 1590. CXIV.
  2. [p. 157 modifica]Julius von Schlosser, Materialien zur Quellenkunde der kunst geschichte, III, Wien, 1916.
  3. [p. 157 modifica]James Wolff, Leonardo da Vinci als Aestetiker, Jena, 1907.
  4. [p. 157 modifica]James Wolff, Leonardo da Vinci als Aestetiker, Jena, 1907.
  5. [p. 157 modifica]Richter, 50.
  6. [p. 157 modifica]B. 29.
  7. [p. 157 modifica]B. 479.
  8. [p. 157 modifica]B. 133.
  9. [p. 157 modifica]B. 133.
  10. [p. 157 modifica]B. 433.
  11. [p. 157 modifica]B. 34.
  12. [p. 157 modifica]B. 36.
  13. [p. 157 modifica]Moeller van der Bruck, Die Italienische Schönheit, München, 1913.
  14. [p. 157 modifica]B. 39.
  15. [p. 157 modifica]B. 34.
  16. [p. 157 modifica]B. 32.
  17. [p. 157 modifica]B. 36.
  18. [p. 157 modifica]B. 34.
  19. [p. 157 modifica]B. 35.
  20. [p. 157 modifica]B. 33.
  21. [p. 157 modifica]Lorenzo Ghiberti, Commentarii, II, 31
  22. [p. 158 modifica]Richter. 655.
  23. [p. 158 modifica]id.
  24. [p. 158 modifica]Baudelaire, Curiosité Esthetiques, edit. Conard, Paris, pag. 268.
  25. [p. 158 modifica]Leopardi, Pensieri, Lemonnier, Firenze, 6.
  26. [p. 158 modifica]Op. cit., 8.
  27. [p. 158 modifica]B. 406.
  28. [p. 158 modifica]L’edizione di Vienna aggiunge: «cosa meravigliosa».
  29. [p. 158 modifica]B. 120.
  30. [p. 158 modifica]Richter, 662.
  31. [p. 158 modifica]Paul Valery, Varieté, Paris, pag. 210.
  32. [p. 158 modifica]Id., Op. cit., pag. 64.
  33. [p. 158 modifica]Id., Op. cit., pag. 65