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della poesia, e i poeti sapevano che ci voleva un ostacolo per acquistar la gloria di averlo vinto. Consideravano l’infinito con calma, come se fosse un oggetto, non si decidevano a dargli la caccia che dopo averlo ben conosciuto, e se ne impossessavano con un certo distacco, senza perdersi d’occhio. Si può quasi dire che «raccontassero l’infinito». Anche quando era in loro, attendevano, per inseguirlo, di vederlo come una cosa lontana. I grandi classici hanno tutti aspettato, per scrivere dei versi tristi, che la loro tristezza, adagio adagio, avesse lasciato il proprio deposito.

Ma dall’ottocento in poi si son visti i poeti, presi, direi quasi, dallo struggimento di esprimersi per capirsi, spremere l'infinito senza guardarlo, con gli occhi chiusi, come si spreme un limone. Il poeta concita in sè medesimo questo infinito che vorrebbe traboccare in cascate ritmiche, e cerca, abbandonandosi ai suggerimenti di un vago istinto, delle parole che acquietino il suo furore con il sentimento di un’inesplicabile concordanza, e scrive in base alla garanzia del proprio benessere. Mallarmé ci ha dato l’esempio estremo di questo metodo. Non è giusto infatti di considerare