Le stelle (discorso)/Discorso
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LE STELLE |
Discorso letto il 5 novembre 1930 - IX - nell'Aula Magna della R. Università di Torino per la solenne inaugurazione dell'Anno Accademico dal Prof. LUIGI VOLTA
- Altezze Reali,
- Eccellenze, Signore, Signori.
Le stelle: tema vasto ed arduo, che sarebbe vana temerità tentar di conchiudere nei limiti di un discorso.
Il titolo breve per cosa così grande vuol significare l’intenzione di provarmi — come si conviene in una occasione ed in un’aula quali queste — a tracciare solo una rapida rassegna delle maggiori fra le moderne conquiste in tal campo, delle vie che vi hanno condotto; una sintesi delle presenti cognizioni intorno al mondo siderale.
Chiedo scusa sin d’ora se dovrò fare talora dei numeri; procurerò di non farne abuso; se questi numeri saranno spesso molto grossi, così da riuscire non immediatamente espressivi, la colpa sarà delle stelle.
Copernico aveva chiesto un ben profondo atto di fede a’ suoi seguaci, se, dell’ampio giro descritto dalla terra intorno al sole, non si avvertiva la prova affannosamente cercata in una variazione annua, sia pur piccola, di prospettiva fra le stelle; queste apparivano inesorabilmente fisse le une rispetto alle altre, come pur sempre inchiodate sulla massima sfera di Eudosso e di Tolomeo.
Se l’Halley scoprì le prime tracce di mobilità propria delle stelle, se più tardi I’Herschel su quelle dimostrò il movimento della maggior stella, il sole, nello spazio e da conteggi sul cielo stellato e da induzioni statistiche, incontrandosi col genio del Kant, assurse al primo abbozzo della forma del mondo siderale, si doveva arrivare sin quasi alla metà del secolo scorso, perchè la prima distanza stellare fosse, col Bessel, realmente misurata. Teoricamente la sfera cristallina delle stelle fisse era stata spezzata dal Copernico, ma praticamente il campo dello studio stellare era rimasto ancora, sino al Bessel, quella sfera.
Che sapevano allora gli astronomi delle stelle? Ne sapevano determinare con buona precisione le posizioni su quella sfera; ne sapevano stimare lo splendore, graduandolo secondo una scala empirica, che in fondo era quella stessa dell’Almagesto di Tolomeo; ne conoscevano infine, da un semplice apprezzamento fisiologico, il colore. Pur già fondata dall’Herschel l’astronomia siderale, le stelle costituivano ancora e sopratutto direzioni di riferimento preziose a consacrare i trionfi della meccanica celeste, a scoprire col Bradley le nutazioni dell’asse terrestre e l’aberrazione della luce.
A metà del secolo scorso incomincia la vera storia dell’astronomia stellare, iniziata da tre grandi conquiste.
Colla prima distanza — o parallasse stellare — misurata dal Bessel entrava nel dominio della scienza la terza coordinata, la quale, con le due angolari sferiche, proiettava con discreta approssimazione la prima stella a suo luogo nello spazio.
Applicando lo spettroscopio all’osservazione delle stelle, dopo aver scoperto l’origine delle linee nere dello spettro solare, il Kirchoff fondava l’astrofisica.
Infine la teoria col Doppler prevedeva e l’esperimento confermava lo spostamento delle linee spettrali di una fonte luminosa, per il suo avvicinarsi od allontanarsi.
Il dato distanza, che s’imparò sempre meglio e per varie vie a misurare o a dedurre, fornì all’astronomo il mezzo più atto ad affrontare il problema della conformazione dell’universo.
Dalla distanza e colla distanza ben presto si trapassò al movimento delle stelle: l’astrometria forniva il moto proprio, vale a dire il minuto spostamento delle stelle trasversalmente alla visuale — il quale, nota la distanza stellare, si poteva a suo luogo anch’esso proiettare nello spazio —; la misura spettroscopica dell’effetto Doppler forniva d’altra parte la componente del moto stellare lungo la visuale, detta velocità radiale; il movimento reale della stella nello spazio si poteva, per tal modo, in alcuni casi ricostruire.
Eccoci così arrivati alla distribuzione delle stelle nello spazio, ai loro moti, alle correnti siderali del nostro sistema galattico. Ogni volta poi che si sappia collocare alla sua vera distanza una stella, sapremo anche calcolare, da quello apparente, il suo splendore effettivo.
La spettroscopia, dal canto suo, doveva portare rapidamente un contributo maraviglioso alla conoscenza del popolo splendente dei lontanissimi soli; perfezionata dal nostro Donati e dal nostro Secchi, essa permise, come tutti sanno, di penetrare addentro alla natura fisica e chimica delle stelle, smentendo l’avventata profezia negativa di Augusto Comte e dimostrando l’unità della materia nell’universo.
Alla spettroscopia s’allea la fotometria ed ambedue fiancheggiate dall’astrometria classica, dalla meccanica celeste, dalla potenza dei mezzi strumentali, sospingono lo studio fisico del cielo verso un progresso stupendo, il quale, nonchè durare, va tuttora accelerando il suo ritmo.
E non solo l’unità della materia negli spazi siderali, ma fu anche dimostrata — se mai ve ne fosse stato bisogno — la validità generale della legge dei Newton nel cosmo dai moti dei sistemi di stelle doppie, di cui l’Herschel aveva inaugurato le scoperte. E come il nostro sistema stellare apparve ben più vasto di quanto l’Herschel non avesse calcolato, così anche questi sistemi di stelle doppie o multiple, legati dalla mutua attrazione e ruotanti intorno al comune centro di gravità, si sono andati moltiplicando, non soltanto per la aumentata potenza dei telescopi, ma ancora per merito dello spettroscopio, che ci rivelò i gemini spettri di sistemi strettissimi, quali forse nessun occhio umano, per quanto formidabilmente armato, separerà mai.
A tanto si doveva pervenire con l’unico tenue filo di luce che, dopo migliaia od anche milioni di anni di cammino celeste con la velocità prodigiosa delle onde eteree, percuote la pupilla dell’uomo e la lastra sensibile di uno spettrografo.
In breve: le stelle fisse ed incorruttibili dell’astronomia antica, fisse cioè sulla loro rigida sfera, si muovono invece, a distanze diversissime ed enormi, percorrendo, infaticate e veloci, gli spazi siderei e vivono — per così dire — una loro fervida vita, di cui le varie e possenti manifestazioni fisiche, ogni giorno meglio conosciute, seguono una parabola evolutiva, che costituisce uno dei più appassionanti problemi dell’astrofisica odierna.
Sin qui non ho fatto che un sommario; illustriamolo a grandi linee.
Prima che da vicino come individui fisici, consideriamo le stelle come folla anonima, sotto il punto di vista del numero, della distanza e del moto; ne riconosceremo così le associazioni e le migrazioni vaste e giungeremo infine a contemplare, nella sua forma e nelle sue dimensioni, l’architettura viva e mobile dell’universo stellato.
Proponendoci di calcolare il numero totale delle stelle, ammettiamo che esse non siano in numero infinito e, per concludere questo calcolo, occorre da un lato stabilire una scala degli splendori, o grandezze apparenti stellari e dall’altro contare tutte quelle più luminose di una grandezza data. Tanto più questo conteggio è spinto lungo la scala degli splendori decrescenti e tanto più legittima sarà la estrapolazione o l’induzione alla totalità delle stelle esistenti; solo la penetrazione degli strumenti moderni, l’ausilio della fotografia ed il metodo statistico, applicato ad un numero adeguato di aree scelte, potevano portare a numeri attendibili. La scala delle grandezze è fissata per modo che il rapporto di splendore fra una grandezza e la seguente è di circa 2 volte e mezza; di più, com’è noto, agli splendori decrescenti geometricamente, corrispondono numeri aritmeticamente crescenti di grandezze.
Fra lo splendore di una stella di prima grandezza e quello di una di sesta, appena percettibile ad occhio nudo, il rapporto di luce è già da 100 ad 1; fra le stelle di prima e quelle di ventunesima grandezza — le ultime a cui si sia spinta la rassegna fotometrica — il rapporto è di 100 milioni; fra il sole e le stesse stelline di ventunesima il rapporto di luce è rappresentato dalla cifra 4 seguita da 18 zeri: tale l’ampiezza della scala fotometrica astronomica.
I numeri che rappresentano la totalità delle stelle, sino ad una data grandezza compresa, dovrebbero crescere secondo un rapporto costante poco minore di 4 da una grandezza alla successiva, se le stelle fossero distribuite egualmente alle varie distanze; il numero totale cioè delle stelle sino alla sesta grandezza dovrebbe essere quasi il quadruplo delle stelle tutte sino alla quinta e così via.
Questo rapporto, poco minore di 4 dapprincipio, va regolarmente diminuendo man mano che spingiamo il conteggio verso le più deboli stelle. Le stelle sino alla ventesima, secondo Seares e Van Rhijn, sono 990 milioni, sino alla ventunesima sono 1.690 milioni — bisognerebbe adunque arrivare sin quasi alle ultime stelle visibili coi telescopi perchè gli uomini, e non tutti ancora, potessero scegliersi la loro stella in cielo — ; il nostro rapporto è sceso ad 1,7.
Se ne conclude che le stelle si vanno facendo più rade con la distanza: è questo il primo indizio numerico dell’esistenza di un sistema stellare che ci avvolge; la conclusione è però fondata sulla ipotesi ragionevole che nella gran media le stelle di vario splendore si mescolino in proporzioni uniformi nello spazio e sul fatto provato che nello spazio si abbia solo un debolissimo assorbimento di luce.
La serie decrescente dei rapporti ora detti è rappresentabile analiticamente e passando al limite, come si dice in termine matematico, cioè inducendo per analogia i numeri relativi alle successive grandezze, il Seares ed il Van Rhijn hanno stimato la totalità delle stelle fra 30 e 40 miliardi ed hanno pure stimato la luce totale delle stelle pari a quelle di circa 1100 stelle di prima grandezza ed i 98/100 di tutta questa luce dovuti al miliardo e mezzo ora detto di stelle più lucenti della ventunesima.
Più suggestivo il problema delle distanze stellari, che si identifica con quello della struttura dell’universo; ove si rifletta che in confronto di queste distanze è, nell’enorme maggioranza dei casi, trascurabile il diametro dell’orbita immensa descritta dalla terra, è davvero stupefacente che l’astronomia abbia affrontato con successo questo problema.
Se si può ammirare la delicatezza estrema delle misure dello astronomo, il quale, trasportando in cielo il metodo del modesto topografo, riesce, sulla base di quel diametro, col micrometro visuale o fotografico, a determinare un angolo di pochi centesimi di secondo d’arco e a dedurre con discreta approssimazione la parallasse e quindi la distanza delle stelle più vicine, è immensamente più entusiasmante seguire gli accorgimenti geniali con cui il formidabile problema è stato aggirato, trasformato ed, in molti casi, vinto. Si potrebbero enumerare — ma mi guarderò bene dal farlo — una dozzina di metodi per determinare le parallassi stellari, sia di singole stelle, sia le parallassi medie di classi o di associazioni di stelle.
Computi statistici, meccanica celeste, spettroscopia, fotometria si danno la mano in questo campo; si utilizza ad es.: la velocità nota del moto del sistema solare nello spazio come base di triangolazione, oppure il fatto assodato di un trasporto di conserva di un gruppo di stelle di moto proprio noto e di cui si misura la velocità radiale. Vari metodi sono fondati sul confronto fra grandezza apparente, data dal fotometro, e grandezza effettiva, quando questa si possa per altra via conoscere. E tale dato è noto, per es.: nel caso di stelle di un certo tipo spettrale o può conoscersi dall’intensità di certe linee spettrali di assorbimento, come l’Adams ha insegnato e la teoria spiega e può infine immediatamente dedursi dal periodo di variazione di luce di un famoso gruppo di variabili: le Cefeidi.
La fecondità di questi metodi è stupenda. I sistemi di stelle doppie — siano esse separabili e misurate al cannocchiale o inseparabili e studiate allo spettroscopio — possono pure condurre alla deduzione della loro distanza, attraverso la terza legge di Keplero, che lega i periodi di rivoluzione ai grandi assi delle orbite. Nel caso di doppie separabili al telescopio occorre fare ipotesi sul valore delle masse, ma ciò non vulnera di molto il metodo, che fornisce la distanza cercata confrontando appunto la dimensione angolare apparente dell’orbita con la reale calcolata.
Nel caso delle doppie così vicine tra loro che il telescopio non le separa, ma che la variabilità di luce ci denuncia come mutuamente ecclissantisi, si può, dai dati fotometrici, in taluni casi impostare così favorevolmente il problema, da riuscire a dedurre un gruppo di dati preziosi: oltre gli elementi orbitali, le masse ed ancora lo splendore effettivo delle componenti, il quale come s’è visto, confrontato con lo splendore apparente, dà subito la distanza.
Spigoliamo ora in questa messe di misure, con le quali l’astronomia ha saputo scandagliare finalmente l’immensità degli spazi.
Guardiamoci prima attorno, nelle nostre — per così dire — immediate vicinanze: la famosa α Centauri del cielo australe, i cui raggi impiegano 4 anni ed un terzo per giungere a noi, non è più la prossima fra tutte; questo primato le è stato tolto da una stellina di decima grandezza, lontana da noi 3 anni e due terzi di luce: questa prossima è pur tuttavia già circa 230 mila volte più lontana del Sole.
Fra le stelle più vicine è la splendida Sirio, ad 8 anni e mezzo di luce e la doppia del Cigno, la cui distanza fu la prima misurata dal grande Bessel.
Quale la densità della distribuzione stellare intorno a noi? L’Eddington calcola che entro una sfera col centro nel Sole e di raggio pari a poco più di 16 anni-luce (che corrisponde a 5 volte l’unità di distanza astronomica di distanza, il par-sec) si trovino circa 30 stelle di splendore assoluto superiore ad 1/200 di quello del Sole; il che è quanto dire che nei pressi del Sole in media bisognerebbe viaggiare per il cielo circa 8 anni con la velocità della luce per passare da una stella ad una sua vicina.
Il Dyson calcola che, in una sfera di raggio quadruplo, cioè di circa 65 anni-luce, si trovino 800 stelle osservabili; imposta una limitazione maggiore, risulta maggiore la rarefazione stellare e cioè una stella per ogni cubo di oltre 11 anni-luce.
Le stelle adunque come le prossime citate sono già un’eccezione.
Pur tenendo conto della probabile esistenza di stelle più deboli del limite fissato od addirittura oscure, si deve concludere che il vuoto intersiderale è veramente pauroso, essendovi la materia distribuita con rarità estrema; nei pressi del sole la distribuzione stellare testè descritta si potrebbe rappresentare con sferette di qualche millimetro di diametro poste a 60 km. di distanza in media! A spiegare la meraviglia di una fulgida notte serena in tanta rarità di stelle, vien fatto subito di pensare alla trasparenza purissima degli spazî ed all’ultrapotenza della radiazione stellare.
Le misure dirette delle distanze siderali (metodo topografico, per intenderci) non possono applicarsi che alle stelle relativamente assai vicine; man mano che c’inoltriamo verso i 500 anni-luce il risultato si fa sempre più incerto, sino a diventare illusorio.
Ma abbiamo a fare in cielo con distanze ben maggiori e ci soccorrono allora gli altri metodi indiretti accennati.
Per queste altre vie possiamo giungere a valori medî delle distanze per categorie di stelle numerosissime, in cui è lecito applicare criteri di probabilità: così ad es. sono state dedotte le distanze medie delle stelle a seconda della loro grandezza apparente: la distanza media delle stelle di quinta grandezza (ancora visibili ad occhio nudo) è circa 200 anni-luce; quella delle stelle di tredicesima (ancora ben fotografagli con il piccolo equatoriale di Pino) è di oltre 3200 anni-luce e così via.
Ma sopratutto per queste altre vie abbiamo potuto varcare nella stima (non diciamo misura) le più sbalorditive distanze e conoscere approssimativamente quelle degli aggruppamenti e degli oggetti più caratteristici del cielo e quindi a rappresentarci la forma e la struttura dell’universo stellato.
Chi abbia, appena una volta, osservato la sfera celeste con un cannocchiale, ha ammirato qualche ammasso stellare: ve ne sono di aperti, 200 circa, a distribuzione più o meno rada ed irregolare, tra i quali, ben visibili ad occhio nudo, le Pleiadi e le Jadi, e situati nelle regioni della Via Lattea; e vi sono gli ammassi globulari, meno di un centinaio, tondeggianti e più fitti di stelle.
Ora noi sappiamo che gli ammassi aperti distano da noi da qualche centinaio a qualche migliaio di anni-luce; nota la loro distanza, possiamo tosto farci un’idea delle dimensioni reali e della densità di distribuzione delle stelle entro di essi e dell’effettivo loro splendore: i loro diametri vanno da 10 a 30 anni-luce; le stelle vi sono più fitte che non intorno al sole; nel centro dell’ammasso Messier 11 vi sono 1000 volte più fitte; un osservatore trasportatovi colà vedrebbe centinaia di stelle più vicine di quanto sia α Centauri a noi e molte tra esse più splendenti di Sirio. Alcuni fra gli ammassi aperti splendono come mille soli.
Più ricchi di stelle e più grandi e più lontani gli ammassi globulari; essi contengono da 20 mila a 100 mila stelle, distano da 20 mila a 200 mila anni-luce, hanno diametri sino a 400 anni-luce, talchè dal centro di uno dei maggiori si vedrebbe Sirio, collocato alla periferia, appena appena ad occhio nudo; si vedrebbero in compenso migliaia di stelle splendere più che non splenda Sirio per noi.
Nonostante la fitta distribuzione centrale degli ammassi globulari, le mutue distanze delle stelle vi superano tuttavia di molto quelle del sistema planetario. In media la luce di uno di questi ammassi equivale a quella di 350 mila soli.
Val la pena di rilevare che, per stimare la distanza di questi ammassi, ci occorre e basta determinare quella di qualcuna delle sue stelle; spesso sono le misteriose Cefeidi che, col loro pulsare come fari distribuiti per le contrade più remote dell’universo e parlanti un loro linguaggio ottico chiaro e sicuro, ci danno la posizione di tutto un popolo di stelle, loro compagne. Vedremo fra poco l’importanza degli ammassi globulari nell’architettura del nostro sistema siderale.
Continuiamo intanto una rapida rassegna del cielo: nella fulgida cintura della Via Lattea tutti conoscono plaghe più ricche di luce e plaghe quasi oscure, deserte di stelle e che fra loro si frammischiano: sono le nubi di stelle e le nebule oscure o socchi di carbone della Via Lattea; delle une e delle altre si sono potute spesso stimare distanze e dimensioni. Le prime, che al telescopio si risolvono nello spettacolo magnifico di miriadi di luci, specialmente nel Sagittario, nell’Aquila e nel Cigno, hanno distanze sino a decine di migliaia di anni-luce. Le nebule oscure invece, composte probabilmente di fine polvere proiettata dalla radiazione stellare, come veli immensi, ci mascherano in gran numero notevoli porzioni della Via Lattea, producendo, tra l’altro, la caratteristica biforcazione, dal Cigno al Centauro, di quella grande strada luminosa. Esse, è vero, non sono stelle, ma polvere e forse matrici di stelle; per alcune di esse però è stata dimostrata la connessione fisica con stelle e si è così potuto determinare la distanza, assai minore, naturalmente di quella delle nubi stellari, in alcune centinaia di anni-luce.
Nè sono stelle le nebulose planetarie e quelle diffuse del sistema galattico, ma anche esse alle stelle per diversa guisa collegate.
Le nebulose planetarie, circa un centinaio e mezzo, così chiamate per la loro forma tondeggiante, contengono in generale una stella centrale; le diffuse, come la notissima di Orione, quasi sempre sono associate con una o più stelle vicine, dalle quali per riflessione od eccitazione, traggono la loro luce; vicine relativamente, perchè sembra che la lucente stella Rigel illumini una nebulosa distante da essa 100 anni-luce. È stato così possibile stimare la distanza di questi particolari oggetti e da essa o con essa dimensioni, splendore, densità, massa e rotazione.
Per non fare troppi numeri citerò soltanto la densità tenuissima delle nebule galattiche; quella media delle planetarie si calcola tale che la massa di un cm. cubo d’aria vi sarebbe rarefatta in un cubo di mezzo km. di lato; quella delle diffuse, con altra similitudine, si potrebbe rappresentare con la massa terrestre espansa così da occupare una sfera di diametro doppio di quello dell’orbita di Nettuno!
Oggetti ed aggruppamenti stellari, che son venuto elencando e che sono stati con discreta od appena grossolana approssimazione localizzati nello spazio, appartengono tutti al grande sistema galattico o della Via Lattea, cioè al nostro sistema stellare; il quale, dopo gli studi famosi dell’olandese Kapteyn e dell’americano Shapley, le cui conclusioni non concordano però del tutto, si concepisce come un’immensa lente, press’a poco simmetrica al piano della Via Lattea, del diametro di oltre 300 mila anni-luce; i colossi degli ammassi globulari stanno a guardia dei suoi confini e sono al nostro sistema fisicamente legati; mancano però nelle regioni prossime al piano di simmetria della gran lente, forse occultati dalle nebule oscure.
La massa delle stelle e, sparsi tra queste, nebulose lucenti ed oscure ed ammassi aperti, son tutti contenuti nello spazio così delimitato; la massa stellare va rarificandosi via via che dal centro si procede verso gli orli della lente galattica ed è molto più sottile di spessore; da 10 a 12 mila anni-luce; il centro della lente si trova circa a 65 mila anni-luce dal Sole, verso il Sagittario, dove appunto la densità di distribuzione stellare appare maggiore.
Il grande sistema galattico ora definito contiene, a sua volta, come minor sistema, il cosidetto sistema secondario locale, pure di forma elissoidale schiacciata ed anch’esso disposto simmetricamente alla Via Lattea, e di dimensioni assai inferiori.
Gli astronomi teorici si sono già proposti lo studio del campo gravitazionale del grande sistema galattico: fra gli italiani il Cerulli e l’Armellini; non è quì luogo di parlare di un problema così arduo.
Se osiamo spingere lo sguardo oltre i limiti del sistema maggiore nostro, troviamo altri universi stellati analoghi, che ci si presentano nell’enorme maggioranza come nebule spirali, in numero di centinaia di migliaia, distribuite, a differenza di tutte le altre classi di oggetti celesti prima considerati, preferibilmente alle alte latitudini galattiche.
Esse sono certamente, come il nostro, universi-isole, secondo il battesimo felice dell’Herschel; isole sterminate di stelle in un spazio infinitamente più sterminato; le loro distanze si stimano a milioni di anni-luce la loro massa da 100 milioni ad un miliardo di soli; numeri questi che debbono essere intesi come indice di un ordine di grandezza, ma che sono pur sempre fondati su criteri e dati scientifici. Infatti si sono potute osservare anche a queste distanze inconcepibili, con gli strumenti giganti americani, le così dette stelle novae e risolvere in stelle le parti esterne di alcune di tali nebulose spirali.
L’elemento che alla distanza ed alla localizzazione delle stelle più direttamente si collega è quello del movimento di cui appena si è fatta parola.
Fra i moti stellari possiamo subito distinguere quelli periodici orbitali da quelli di traslazione nello spazio: i primi sono quelli dei sistemi doppi o multipli, ottici o spettroscopici già nominati. Le stelle dei primi sistemi hanno periodi di rotazione che arrivano a centinaia di anni, le altre, di giorni ed anche solo di ore: i primi sistemi si contano a decine di migliaia, a migliaia i secondi ed è convinzione dell’Oepik che le stelle multiple rappresentino anzi la regola generale e quelle isolate come il Sole od anche semplicemente doppie siano a riguardarsi come eccezione.
Tutto il cielo stellato è dotato di movimento: le stelle traversano gli spazî con velocità che vanno da 8 a 160 km. al secondo e diverse anche per i diversi tipi spettrali; il sole, come si sa, viaggia con il suo corteo di pianeti verso Vega con la velocità di 19 km. al secondo; gruppi di stelle compiono il loro viaggio di conserva, come le Jadi; due correnti principali di stelle, oltre alle minori, sono state messe in evidenza dal Kapteyn, di opposto senso all’ingrosso, le quali potrebbero derivare dalla rotazione del nostro grande sistema galattico a simiglianza di quella rilevata nelle nebule spirali. Le velocità degli ammassi globulari si misurano a centinaia di km. al secondo, quelle delle nebulose spirali, cioè degli altri universi, superano anche talora il migliaio. Mirabile si è che velocità e direzione del moto del sole quali risultano dedotte relativamente ai primi che alle seconde praticamente coincidono.
Si può facilmente immaginare la difficoltà di sceverare tutti questi movimenti, in cui si sommano o si compongono o si elidono moti individuali e collettivi e di sistemi giganteschi come il nostro galattico e la sua rotazione, quando si tenga conto che il pulviscolo terra, perduto nell’immensità, dal quale osserviamo, è travolto anche esso nella fantastica ridda. L’Adams paragonò il complesso dei moti stellari ai voli di un gruppo di sciami di api, che a caso hanno scelto una via comune di migrazione: gli sciami singoli volano a velocità diverse e le singole api secondo traiettorie incrociate al corso medio, cosicchè a tutta prima si ricaverebbe l’impressione del disordine e della confusione di gruppi e di individui, pure il principale percorso non risulta turbato.
Ma un’altra difficoltà, che appena adombro, si affaccia: se tutto ciò che in cielo si vede, e noi compresi, si muove, dove trovare i caposaldi di riferimento, che ci permettano, fra tanti moti relativi, di risalire al moto assoluto? Difficoltà formidabile, che ci condurrebbe, volendone trattare, in un campo troppo tecnico, quello della relatività di Einstein; e giacchè ho fatto il nome della teoria famosa, bisogna pur dire di un dubbio che complica ancora il problema; il dubbio cioè che le enormi velocità di allontanamento delle nebulose spirali rispetto al sole si possano, secondo quella teoria, spiegare in parte con l’allentarsi a distanze siffatte delle vibrazioni luminose ed il conseguente spostamento delle linee spettrali verso il rosso.
Un prezioso contributo alla conoscenza dei moti siderali sarà dato dal confronto delle posizioni della grande carta celeste, apprestata da osservatorî di tutto il mondo (tra cui due italiani: quello vaticano e quello catanese) con analoghe posizioni rilevate a distanza di qualche decennio, contributo già parzialmente fornito dal confronto stereoscopico di lastre sufficientemente distanziate in tempo.
Abbiamo considerato sinora le stelle sopratutto nella loro molteplicità, nella loro distribuzione, nei loro moti: appena s’è toccato del loro splendore assoluto od effettivo, che sarebbe quello che le singole stelle avrebbero viste tutte ad una stessa unità di distanza. Le misure degli splendori apparenti non sono che la documentazione fotometrica di quanto si vede; lo splendore assoluto, deducibile dal primo quando la distanza sia nota, o per altra via, è un dato fisico caratteristico della stella, indipendente dalla distanza, che ci dà la misura della sua energia di radiazione.
Una debole stellina di un lontano ammasso può in realtà essere assai più lucente del sole, il quale, a sua volta, retrospinto alla distanza regolamentare di confronto, è umiliato al grado di stella mediocremente visibile ad occhio nudo (quinta grandezza): la sua umiliazione non è grande, perchè esso è di uno splendore assoluto presso la media; vi sono stelle migliaia di volte più luminose del sole; Rigel ad es. lo è 10 mila volte; la più splendente conosciuta sarebbe una variabile irregolare, che ci appare nella maggiore delle Nubi di Magellano come una stella fra l’ottava e la nona grandezza, la S. Doradus, la quale dovrebbe brillare come 400 mila soli. Plaga di meraviglie quella delle nubi di Magellano del cielo meridionale, invisibile a noi; la maggiore di esse, il Bue Bianco di Al Sufi comprende una nebulosa (esterna al nostro sistema galattico) la 30 Doradus, che, se fosse portata alla distanza e nella direzione delle stelle di Orione, invaderebbe tutta la costellazione, splendendo come 230 stelle pari a Sirio e proietterebbe ombre visibili degli oggetti terrestri.
La più debole in senso assoluto delle stelline conosciute è il compagno della vicinissima Centauri, che ci appare di undicesima grandezza, ma che scenderebbe alla quindicesima se respinto alla unità di distanza; darebbe cioè una luce che vale un decimillesimo di quella solare. Si tace delle stelle del tutto oscure.
Già dall’osservazione fotometrica, visuale o fotografica degli splendori, ci è dato spesso di cogliere un primo suggestivo indizio di quella che si può chiamare la vita stellare: quello della variazione di luce di molte stelle.
Variazioni regolari ed irregolari, a lungo ed a breve periodo, di andamento semplice o complesso, a salti bruschi ed a curve dolci, che forniscono materia di osservazione e di indagine teorica a molti astronomi.
L’argomento delle variabili — di cui se ne contano oggidì circa 6 mila — meriterebbe da solo un’ampia trattazione, non foss’altro per discutere le molte ipotesi per spiegarle, tra le quali sicura per ora non v’è che quella delle eclissi di due o più stelle tra loro vicine ruotanti intorno al comune centro di gravità; ma si spiega così un solo gruppo di variabili.
Nella gran famiglia delle variabili si comprendono le novae, queste stelle che improvvisamente splendono di vivissima luce e poi s’indeboliscono, presentando dal punto di vista spettroscopico caratteristiche del più alto interesse e costituiscono esse pure un problema molto discusso dell’astrofisica, la quale si sforza di penetrare il mistero dei cataclismi, remoti spesso di secoli e secoli, che le novae rappresentano.
Nel campo degli splendori assoluti porta d’un tratto in questi ultimi anni un aiuto inestimabile la misura condotta da un fisico celebre, il Michelson, con delicatezza finissima e con mezzi grandiosi; nessun telescopio può darci, nonché la misura, nemmeno la percezione visiva del diametro delle stelle: il Michelson riesce a misurare con il metodo interferometrico i diametri angolari di alcune grosse stelle: Betelgeuze, Antares, Arturo, Aldebaran; di esse conosciamo la distanza approssimata; potremo quindi dedurre approssimativamente i diametri in km.: essi risultano centinaia di volte quelli del sole.
Per comprendere tutta l’importanza di questo risultato, occorre riflettere che la teoria e le esperienze di laboratorio davano modo di calcolare il diametro di una stella in base allo splendore assoluto per i vari tipi spettrali, purchè si ammettesse che le stelle si comportavano all’incirca come perfetti radiatori o corpi neri; i diametri previsti dalla teoria erano confermati dalla prova sperimentale: le misure del Michelson avevano dunque provato la bontà dell’ipotesi e con essa una proprietà fisica delle superficie stellari.
Dopo siffatta consacrazione dei metodi induttivi della fisica, non è più fantasia parlare di dimensioni delle stelle; noi possiamo realmente stimarne i diametri in molti casi; ed è questo una conquista grandiosa, perchè delle masse stellari si ha, come vedremo, talora un valore approssimato e quasi sempre un’idea almeno dell’ordine di grandezza: dal diametro discende allora subito la stima più o meno grossolana della densità.
Gli elementi dimensione, massa, densità si vengono ad aggiungere a quello dello splendore assoluto, mentre quello di temperatura ci è fornito, come si sa e vedremo meglio, dalla spettroscopia.
Ai diametri giganti ora accennati si contrappongono quelli di stelline di debole splendore assoluto, risultanti dell’ordine di quelli planetari, di quello terrestre non escluso: tali diametri naturalmente non si deducono da misure dirette, ma con i metodi spettroscopici indiretti accennati. E si rimane sbalorditi dai valori delle densità stellari che, in corrispondenza ai diametri estremi, nell’uno o nell’altro senso, derivano, anche se si errasse di 10 volte nell’assunzione del valore della massa, il che è improbabile in generale e da escludersi assolutamente in certi casi. Nelle stelle giganti rosse come quelle di cui il Michelson misurò il diametro, le densità medie sono dell’ordine di migliaia di volte inferiore a quella dell’aria, nelle giganti bianche di migliaia di volte inferiore a quella del sole che, come si sa, è quasi una volta e mezza la densità dell’acqua.
Al contrario per certe stelline di diametro planetario la densità risulta enorme, sarebbe anzi assurda, se la fisica atomica non spiegasse l’apparente assurdità del risultato: il compagno di Sirio, di massa sicuramente nota, perchè dedotta dal suo moto orbitale intorno alla maggiore, fulgida stella, deve avere una densità pari a 60 mila volte quella dell’acqua, vale a dire 3 mila volte quella della sostanza più pesante che conosciamo: il platino.
Tra questi valori estremi si verificano valori intermedî: la densità del sole e delle stelle del suo tipo spettrale occupa un gradino medio della scala.
Un altro dato importante della fisica stellare scende dalla conoscenza dello splendore effettivo e del diametro di una stella; quello della luminosità superficiale o dell’unità di superficie.
Facciamo ora l’ultimo approccio — non l’ultimo fatto però in ordine di tempo — verso lo studio fisico delle stelle; il punto elementare di partenza è la considerazione del colore: il metodo scientifico corrispondente è l’analisi spettroscopica. Famigliari a tutti sono i purissimi, vari colori delle stelle: alcune sono bluastre come Rigel, altre bianche come Sirio, giallo-pallide come Procione, rossastre come Arturo, rosse come Betelgeuze; se noi insinuiamo il sole giallo tra Procione ed Arturo, abbiamo la parte principale della scala spettrale, di Harvard, sostituitasi alla prima classificazione del Secchi e comprendente i 99/100 della totalità delle stelle. La classificazione spettrale delle stelle è dunque in fondo una classificazione per colore.
Il colore ha un’importanza fondamentale nella fisica stellare: esso è l’indice della temperatura superficiale delle stelle, proprio come dal colore della massa metallica fusa ed incandescente l’esperto metallurgico degli alti forni stima la temperatura di quella massa.
L’apprezzamento soggettivo del colore non avrebbe mai portato a misure di qualche conto; pure, senza ricorrere ancora allo studio dello spettro, il colore può essere rigorosamente stimato: basta avvalersi della differente sensibilità ai colori dell’occhio umano, il quale meglio percepisce le luci gialle e rosse e della lastra fotografica, la quale meglio s’impressiona a quelle blu e verdi. Appunto la differenza di splendore di una stella, quale è data dalla fotografia e quale è stimata dal nostro occhio costituisce l’indice di colore. Naturalmente all’occhio si sono sostituite lastre speciali della stessa sensibilità sua, così da poter misurare l’indice stesso con precisione.
Che questo indice di colore sia anche un indice di temperatura si spiega con una nota legge del Bohr, in grazia della quale si può dedurre la temperatura assoluta alla superficie delle stelle, confrontando le grandezze stellari ricavate da due luci monocromatiche in due regioni distinte dello spettro, o, più generalmente ancora, dalla distribuzione dell’intensità di radiazione secondo le varie regioni dello spettro. Alla serie di tipi spettrali prima elencata e che mi guarderò bene dal descrivere, corrispondono indici di colore diversi e temperature diverse superficiali. Sappiamo così che le stelle blu, come Rigel (B) hanno una temperatura superficiale di 16 mila gradi, le bianche come Sirio (A) di 11 mila, le giallo-pallide (F) come Procione 8 mila, le gialle come il Sole (G) 6 mila, le rossastre (K) come Arturo 3500°, le rosse (M) come Betelgeuze 2700°. In breve: passando dalle stelle blu e bianche alle gialle ed alle rosse si passa gradatamente dalle più calde alle meno calde.
Se ora si mettono a raffronto i vari tipi spettrali con le grandezze o splendori assoluti, cioè si va a vedere a qual tipo spettrale appartengono le stelle di cui conosciamo l’effettivo splendore, si arriva a questa constatazione: che le stelle rosse costituiscono due gruppi distinti, o molto luminose o debolissime; quelle rossastre pure si scindono in due gruppi anche distinti, in cui però la differenza di splendore è meno forte; minore ancora la differenza di splendore fra gialle lucenti e gialle deboli, minima per le giallastre; tutte splendide senza distinzione in due gruppi le stelle bianche e blu più calde.
Più esattamente possiamo dire che lo splendore assoluto delle stelle va, secondo una curva regolare, diminuendo dalle stelle caldissime alle meno calde, ma che un forte gruppo di stelle a temperatura media o bassa rossastre o rosse sta a sè: esse splendono come le più calde stelle. II primo e maggior gruppo costituisce la serie principale e le più deboli di questa (rossastre o rosse) sono le cosidette nane; quelle rossastre o rosse del gruppo isolato splendidissimo sono le vere e proprie giganti, nome che si dà talora alle più splendide bianche; qualcuna fra le più splendide giganti è stata promossa al grado di supergigante, come Antares.
Se facessimo ora un altro raffronto: quello degli splendori assoluti con le masse, nei casi che queste siano approssimativamente note, vedremmo subito che lo splendore cresce con la massa, il che non era senz’altro prevedibile perchè c’è da fare il conto con il fattore temperatura e con il fattore dimensione: il risultato del raffronto conferma una formula teorica dell’Eddington, la quale dà appunto la grandezza bolometrica in funzione anzitutto della massa e in secondo luogo della temperatura.
Occorrerebbe definire la grandezza bolometrica: basti il dire che essa misusa l’intensità calorifica della stella, come la grandezza visuale misura quella luminosa; l’una del resto non differisce sensibilmente dall’altra che per le classi spettrali estreme.
La formula dell’Eddington segna una data notevole dell’astrofisica teorica e ne vedremo presto l’importanza nel problema della evoluzione stellare. Fanno eccezione alla relazione massa-splendore il compagno di Sirio, già incontrato sulla nostra via, il compagno di Mira Ceti e qualche altra, di massa piccola e densissima e di debole luce bianca: sono esse le così dette nane bianche, che si ha il motivo di credere assai più numerose di quanto ci appaia sinora.
Se l’astrofisica sperimentale, che è essenzialmente spettroscopia, sta per vantare un secolo di storia gloriosa, è recente invece l’intervento decisivo della fisica atomica nell’interpretazione, nella conferma e sin nella previsione dei dati d’osservazione spettroscopica, nella creazione insomma di una teoria scientifica della radiazione.
La fisica ha classificato, secondo la loro composizione atomica gli elementi semplici che si trovano sulla terra, numerandoli dall’1 (Idrogeno) al 92 (Uranio) secondo una serie continua, nella quale, dopo le nuove scoperte, non restano che due lacune, corrispondenti ai numeri 85 ed 87, tra quelli a peso atomico elevato.
Gli atomi dei diversi elementi danno allo spettroscopio delle serie di raggi caratteristici in generale oscuri (solo in certe condizioni brillanti), che hanno permesso di riconoscere la presenza degli stessi elementi nell’atmosfera del sole e delle stelle, perchè, sia che i raggi percorrano pochi decimetri in laboratorio o viaggi di secoli attraverso gli spazi per giungere al prisma, l’analisi spettroscopica non muta nè metodo nè valore.
Degli elementi terrestri più della metà sono stati rinvenuti sul sole e la mancanza delle linee caratteristiche di qualche elemento nello spettro di una stella non esclude la presenza di quell’elemento su di essa: possono esservi condizioni di temperatura o di distribuzione della materia sfavorevoli alla formazione di quelle linee; l’elemento, sopratutto se pesante, può essere sprofondato sotto l’atmosfera stellare.
Viceversa l’elio, che corrisponde al numero 2, fu trovato prima dal Lockyer nel 1868 sul sole e solo nel 1895 dal Ramsay nell’atmosfera terrestre: ora non è più possibile una scoperta simile sul sole o sulle stelle di elementi nuovi: se si trattasse dell’85° o dell’87° mancanti o di qualche altro elemento pesante nuovo di numero d’ordine superiore al 92, appunto per il loro forte peso non potrebbero trovarsi alla superficie delle stelle: tutto il resto della serie è completo e non lascia luogo a scoperta alcuna.
Pure ci sono linee o gruppi di linee negli spettri stellari che non corrispondono ad alcuno degli elementi noti, nè potrebbero appartenere ad altro nuovo incognito, come s’è detto: quelle linee corrispondono ad elementi noti in cui gli atomi vanno sgretolandosi o, come si dice, sono ionizzati.
Si sa che ora si concepisce l’atomo composto di protoni o cariche elettriche unitarie positive ed elettroni o cariche elettriche unitarie negative, organizzato come un infinitesimo sistema planetario, in cui il sole è il nucleo, costituito di protoni e di elettroni, i pianeti sono gli elettroni rimanenti, che ruotano intorno al nucleo in orbite ed anelli di orbite diverse; la carica totale positiva del nucleo è uguale alla totale negativa degli elettroni rotanti; la similitudine con il sistema planetario è tanto più calzante in quanto il nucleo sarebbe piccolissimo in confronto alle dimensioni dell’atomo completo, cioè delle orbite più esterne; quello avrebbe dimensioni dell’ordine di due milionesimi di milionesimo di cm., mentre l’orbita esterna normalmente avrebbe un diametro circa 100 mila volte superiore.
La nuova teoria atomica quantistica, che non posso nemmeno riassumere quì, per opera del Bohr e del Planck, rende conto, non solo della distribuzione dell’energia negli spettri continui, ma ancora dei gruppi di linee negli spettri e dà un modello immaginoso e suggestivo del meccanismo dell’eccitazione dell’atomo per irraggiamento o per riscaldamento e dell’irraggiamento di cui può divenir centro l’atomo stesso.
I cambiamenti di stato dell’atomo deriverebbero da salti discontinui degli elettroni dall’uno all’altro sistema di orbite possibili; a ciascuno di questi sistemi corrisponderebbe, per ogni elemento, una serie di linee spettrali (la quale può anche sconfinare fuori della parte visibile dello spettro). Nel caso dell’idrogeno le cose si presentano nel modo più semplice, perchè l’elettrone rotante è uno solo.
Le vicende estremamente rapide dei bombardamenti atomici da parte della luce, le violente, fulminee collisioni fra gli atomi, i balzi degli elettroni da un’orbita all’altra, le alternanze spasmodiche di assorbimento e di radiazione, le trasformazioni continue dell’energia cinetica in luminosa danno la visione di una diabolica tregenda nel mondo infinitesimo dell’atomo, della quale le colossali manifestazioni fisiche di calore e di luce delle stelle sono le sintesi e la somma.
In siffatta tregenda si sarebbe riusciti a fermare l’atomo fuggente, ad afferrare, per esaminarlo, il minuscolo elettrone rotante, a misurare le velocità orbitali di queste rotazioni: l’elettrone avrebbe la massa di circa un duemillesimo del nucleo d’idrogeno; l’unico elettrone libero del calcio ionizzato della cromosfera solare salta da un’orbita all’altra 20 mila volte in un secondo, trattenendosi sulla più esterna un centomilionesimo di secondo, ma abbastanza per compiervi qualcosa come un milione di rivoluzioni.
Ed abbiamo parlato con ciò del caso semplice e normale della eccitazione dell’atomo; che se l’atomo fa un boccone troppo grosso di energia assorbita, secondo la vivace espressione dell’Eddington, ne scoppia (per eccitazione si gonfia soltanto) ed un elettrone, quello d’orbita esteriore è schizzato via, si potrebbe dire, sull’ultima orbita possibile, di raggio infinito; praticamente se ne va per conto suo.
L’atomo mutilo, che non sarà più neutro, ma caricato positivamente, si chiama ione; il fenomeno descritto, cioè l’ionizzazione, può ripetersi, cioè l’atomo può essere ionizzato una seconda ed una terza volta e così via, a seconda del numero dei suoi elettroni liberi rotanti.
È la disgregazione della materia che ha inizio, o, se vuolsi, una sorta di trasmutazione di elementi che si compie con l’ionizzazione; infatti l’atomo di elio, che ha due elettroni rotanti, quando sia ionizzato è costituito come quello d’idrogeno, che ne ha uno solo (non è qui il caso di dire in che cosa ne diversifichi); il sogno degli alchimisti non era adunque del tutto assurdo.
Un atomo ionizzato ha un gruppo di linee spettrali proprie; ecco spiegati i gruppi di linee non attribuibili ad alcun elemento terrestre, incontrati negli spettri stellari; giacchè, se talora in laboratorio il fisico ha potuto studiare spettri di atomi ionizzati, nei roventi crogioli delle stelle lo stato d’ionizzazione è del tutto comune.
L’indiano Saha nel 1920, in base alla teoria quantistica, determinò il grado d’ionizzazione per le varie temperature e pressioni.
I rapidi progressi della fisica atomica, nella quale è divenuto famoso il più giovane Accademico d’Italia, il Fermi, fanno sperare sempre più vasta e più intima la conoscenza delle linee spettrali ancor misteriose delle stelle; tra esse le linee attribuite al Nebulium, trovate negli spettri delle Nebulose; questo Nebulium non può essere che uno degli elementi noti che ha perduto degli elettroni.
Come conclusione ovvia di questa digressione fisica, si può dire che l’analisi spettrale non è più soltanto analisi chimica, ma va diventando sempre più analisi fisica, dello stato atomico cioè della materia.
Ora che abbiamo visto di sfuggita le varie forme dello studio fisico delle stelle e le caratteristiche stellari che esso è in grado di apprenderci, possiamo senza troppa presunzione, tentare di soddisfare ad una delle più nobili curiosità umane, di rispondere cioè alla domanda: che cosa sono le stelle?
Mettiamo però subito in evidenza un fatto: le caratteristiche fisiche che conosciamo — salvo quelle di massa e di densità — si riferiscono agli strati superficiali delle stelle: noi possiamo conoscere la temperatura, la luminosità totale ed unitaria, lo stato atomico superficiale di molte stelle e dei varî tipi di stelle, secondo lo spettro o secondo lo splendore assoluto: potremo noi penetrarne il mistero dell’interno? Si risponde: entro certi limiti di verisimiglianza, sì, perchè spesso, oltre quei dati di superficie, abbiamo quelli di dimensione e di massa, ed allora il problema delle condizioni fisiche interne di una stella è un problema analogo a tanti altri della fisica matematica, in cui sono date le condizioni, come si suol dire, al contorno, e che la teoria cinetica del gas insegna a risolvere.
Con ciò ho già in parte anticipato la risposta promessa.
È comunemente ammesso infatti che una stella sia un globo di gas intensamente riscaldato ed intensamente irraggiante, per quanto ora il Jeans, teorico ardito ed immaginoso, sostenga la tesi delle stelle a nucleo liquido, la quale meglio spiegherebbe la loro frequente scissione in doppie o multiple.
Nell’interno del globo gassoso stellare, a contrastare la forza di gravità degli strati sovraincombenti, la forza elastica di espansione non è sola; ad essa è alleata, sempre più formidabile con il crescere della temperatura, la pressione di radiazione, diretta anche essa, naturalmente, dall’interno verso l’esterno.
La pressione di radiazione è un dato sperimentale e teorico; essa è dell’ordine di 3 tonn. per cm. quadr. ad 1 milione di gradi e di 30 mila tonn. a 10 milioni di gradi, perchè cresce come la 4° potenza della temperatura. Essa è un fattore decisivo della suddivisione della materia dell’universo in stelle, è un calmiere delle masse stellari, le quali non possono superare certi limiti senza scoppiare per la spinta spaventosa interna di quella pressione.
Nel cuore di una stella vi è la massima pressione elastica, il massimo di temperatura e di ionizzazione della materia: gli atomi vi sono ridotti ormai a nuclei nudi ed elettroni isolati, vi è quindi il massimo di densità, da 20 a 100 volte quella media, sicchè oltre i 9/10 della massa totale sono compresi nella sfera centrale che ha raggio metà del totale.
Man mano che si procede verso l’esterno, diminuiscono pressione, temperatura e dissociazione della materia, sicchè negli strati esterni troviamo le temperature già citate, fra i 16 mila ed i 2700° (le stelle di tipo spettrale O arriverebbero a 25.000°), troviamo le infinitesime pressioni ricordate (così basse che, pur sommate con quelle interne fortissime, danno per certe stelle medie ancor bassissime, dato l’enorme diametro di esse) e troviamo frequenti gli atomi completi, cioè non ionizzati.
Ma per far compiuto il modello che l’astrofisica teorica si è foggiato delle stelle, occorre tener conto della convinzione a cui essa è altresì giunta: che, nonostante le tremende pressioni che possono verificarsi nell’interno, la materia continua nelle stelle a comportarsi, quasi sempre, come un gas perfetto; si supera l’apparente assurdo pensando che gli atomi, ionizzandosi, perdendo cioè man mano gli elettroni ruotanti, che con le loro orbite moltiplicano enormemente le dimensioni dell’atomo stesso, si fanno sempre più piccoli. Ioni ed elettroni dissociati possono costiparsi in volumi milioni di volte minori, senza perdere la libertà di moto che caratterizza il gas perfetto.
Un’altra conseguenza della dissociazione atomica spinta nel cuore della stella all’estremo si è che il peso molecolare della materia, salvo per l’idrogeno e per l’elio, si riduce quasi uniforme, qualunque sia l’elemento originario dei vari atomi frantumati, intorno al valore 2: questa materia disorganizzata si avvicina all’uniformità desolata del caos primevo.
Ammessa l’ipotesi dello stato di gas perfetto della materia nelle stelle dalle minime alle grandi, se non alle massime densità, e tenuto conto che la struttura atomica della materia stessa è ridotta alla massima semplicità, il fisico ci dice che prevedere quanto c’è e che cosa accada nell’interno di una stella è assai più facile che conoscere l’interno della nostra terra, dove la materia è di struttura assai più complicata atomicamente ed il suo stato liquido e solido è ben lontano dalla nuda semplicità del gas perfetto.
Come le possenti manifestazioni di calore e di luce delle stelle ci danno l’impressione di una loro vita, così dalla varietà e dalle gradazioni delle caratteristiche fisiche stellari considerate, è nato e si è radicato il concetto di un’evoluzione stellare, concetto che è inseparabile da quello della vita.
Si può anzi dire che il primo teorico del problema fisico dello interno di una stella, Omero Lane, nel 1870, trattò insieme quello della sua evoluzione.
Indipendentemente dalle ricerche teoriche il primo schema evolutivo che si affacciò, come il più naturale, si può sintetizzare così: le stelle invecchiano raffreddando e contraendosi, e spegnendosi muoiono; ed il colore era l’indizio della loro età: giovani le bianche, adulte le gialle, vecchie le rosse.
Il Lockyer fu il primo a combattere, precorrendo alle moderne vedute, l’ipotesi semplicista. S’era infatti trovato che molte stelle rosse erano assai diffuse, cioè di tenuissima densità, dunque giovani.
Il progredire dell’età, invece che al diminuire della temperatura, fu associato più giustamente all’alimentare della densità, in conseguenza della contrazione. Il Lane aveva appunto dimostrato che una stella, perdendo calore per irraggiamento, si contraeva, e contraendosi si riscaldava, sino a che la perdita di energia per irraggiamento riprendeva il sopravvento. Ecco allora la parabola vitale delle stelle tracciata da Russel ed Hertzsprung nella loro teoria delle stelle giganti e nane: nel ramo ascendente della gioventù la stella si contrae riscaldandosi, nel ramo discendente, pur contraendosi ancora si raffredda, avviandosi verso la morte oscura: al culmine della parabola le massime temperature e le medie densità, intorno ad un quarto dell’acqua; il ramo ascendente è quello delle stelle giganti, quello discendente, delle nane dense; il sole è già una nana, tra le meno dense, cioè tra le meno vecchie. Una gigante dell’un ramo ed una nana dell’altro potranno avere la stessa temperatura e quindi lo stesso colore e spettri analoghi, che l’astrofisico sa però distinguere.
La stretta relazione trovata però, come si disse, dall’Eddington, almeno per la serie principale, fra splendori assoluti e masse delle stelle, ha portato un fiero colpo alla teoria di Russel e di Hertzsprung, la quale ammetteva invece che una stessa massa di materia stellare potesse, nei due stadi corrispondenti sui due rami di maggiore e di minore luminosità, toccare splendori diversi (una massa come il sole dovrebbe ad es. aver toccato uno splendore cinque volte maggiore durante la sua età di gigante). Inoltre lo schema evolutivo descritto, che derivava le sue basi teoriche dal Lane, ammetteva con lui un limite di compressibilità alla materia stellare, oltre il quale essa cessava di comportarsi come gas perfetto; le stelle nane del ramo discendente della parabola erano quindi ritenute liquide o solide.
La nuova teoria che si va delineando non è imperniata come la prima sulla caduta di temperatura superficiale, nè soltanto sull’aumento di densità, come la teoria delle giganti e delle nane, ma dev’essere fondata prevalentemente sulla diminuzione della massa e deve tener conto che, progredendo l’ionizzazione della materia stellare, si allontanano a dismisura i limiti della sua compressibilità, che perciò la materia ionizzata ad alto grado si conporta come gas perfetto anche alla densità del platino.
L’Eddington illustra questo punto suo di vista sulla serie o sequenza principale già nominata, serie continua, che comprende, non solo la grande maggioranza delle stelle, ma tutti i tipi spettrali, dai caldissimi come l’O ai meno caldi, come l’M, cioè dalle bianche alle rosse, tutte le stelle cioè escluse le giganti e le nane bianche; e sceglie tre stelle tipiche: Algol, bianca, il Sole, giallo, la Krüger 60, rossa. Le temperature superficiali sono per esse in gradazione decrescente, come sappiamo, da 12 a 3 mila gradi (in accordo con la prima teoria dell’evoluzione); la fisica calcola per la loro temperatura centrale press’a poco lo stesso valore fra i 40 ed i 35 milioni di gradi; sappiamo ancora che la densità deve pur essere in scala decrescente (criterio base della teoria delle giganti e nane); infatti essa risulta, rispetto all’acqua: di un decimo e mezzo per Algol, di 1,4 per il Sole, di 9 per la Krüger; significativi sopratutto però i valori delle masse e delle luminosità: massa 4 e splendore 150 per la prima, 1 ed 1 per il Sole, massa 1/4 e splendore 1/100 per la terza: non solo balza evidente la relazione fra massa e splendore, ma ciò che più importa fissare, si è la diminuzione di massa.
O si rinuncia all’ipotesi di un’evoluzione stellare, ammettendo che le stelle possano formarsi di massa, di densità e di tipo spettrale diversissimi, o bisogna ammettere con l’Eddington che il fatto più importante e più maraviglioso, anzi misterioso, dell’evoluzione stellare è la diminuzione di massa: le stelle perdono massa invecchiando.
Una teoria dell’evoluzione delle stelle deve preoccuparsi anche dell’ordine di durata della loro vita; fatto questo, deve darci la più difficile forse delle spiegazioni; donde provenga l’energia necessaria a raggiare attraverso gli spazi torrenti di luce per milioni di secoli. Per la durata di questa evoluzione interroghiamo alcune rocce. Le rocce, in cui l’uranio si disintegra in piombo ed elio con ritmo conosciuto, ci fa stimare sino a 1000 milioni di anni l’età delle più vecchie rocce; l’età della terra sarà maggiore e ben maggiore quella del Sole, forse dell’ordine di 10.000 milioni di anni; e, poichè il sole è una stella non molto vecchia, è probabile che la vita stellare si debba misurare a molti miliardi di anni.
Quanto alla fonte dell’energia stellare, la teoria del Lane la ricercava nel calore di contrazione delle stelle.
Vediamo se essa potrebbe bastare: interroghiamo delle stelle: le cefeidi, che già conosciamo, e che ci offrono, con il loro periodo di pulsazione, un dato misurabile con alta precisione (e cioè con 6 cifre significative): il loro capostipite, δ Cephei, si osserva da quasi un secolo e mezzo e non si può ammettere per essa una variazione di periodo superiore ad un decimo di secondo all’anno, seppure una variazione esiste; orbene: occorrerebbe che il suo periodo di variazione diminuisse di ben 17 sec. all’anno perchè la contrazione di volume producesse, secondo la teoria del Lane, il calore necessario a sopperire all’irraggiamento di questa stella, 700 volte più intenso di quello del sole.
Da escludersi adunque la teoria del Lane, tanto più se si pensa che, ne! periodo esuberante e spensierato della loro giovinezza di stelle diffuse a forte splendore, esse fanno uno sperpero così enorme di energia, che i fondi loro forniti dalla contrazione li farebbero vivere tanto quanto 100 mila anni, meno del periodo trascorso dalla comparsa della razza umana; le stelle della nebulosa di Andromeda sarebbero già spente 8 mila secoli prima che la loro luce ci percuotesse.
E possiamo pure escludere, come anch’essa insufficiente, qualunque origine esterna dell’energia stellare, come ad es. il bombardamento di meteore, perchè, come l’Eddington osserva, per mantenere il gradiente di temperatura della stella, non all’uscita dev’essere fornito il calore, ma al cuore stesso della stella.
Se la contrazione e le cause esterne non possono costituire che contributi secondari all’energia stellare, la fonte principale di essa non può essere che l’energia stessa di costituzione dell’atomo, non può essere che energia subatomica. Ed allora si affacciano tre ipotesi: quella della radio-attività del Jeans, quella della transmutazione degli elementi dai più semplici ai più complessi e finalmente quella della pura e semplice annichilazione della materia, attraverso la mutua neutralizzazione delle cariche elettriche positive dei protoni con quelle negative degli elettroni, della trasformazione insomma della materia in energia.
Le prime due, sebbene si tratti sempre di trasmutazione di elementi, sembrerebbero incompatibili, in quanto cercherebbero la ignota fonte di energia in due processi inversi: nella radio-attività infatti si tratta di atomi più complessi che danno nascimento ad atomi più semplici; nella trasmutazione invocata dalla seconda ipotesi, sono gli elementi più semplici invece che si trasformano in elementi ad atomo più complesso. Pure in ambo i casi si avrebbe produzione di energia; in quest’ultima trasmutazione la massa dell’atomo diminuisce lievemente: una parte della massa cioè si trasforma in energia: nella trasformazione di 4 grammi di idrogeno in elio si liberano 3 centesimi di grammo di energia. Ma questa fonte di energia appare ancora troppo impari, secondo l’Eddington, allo enorme dispendio che ne fanno le stelle.
Nell’ipotesi della radio-attività del Jeans si avrebbe pure una annichilazione di massa dell’atomo: ogni elettrone, fra i numerosi delle sostanze radio-attive, cadendo sul nucleo, neutralizzerebbe un suo protone e con questo scomparirebbe; l’atomo diminuirebbe così di massa e di complessità, sprigionando ad ogni caduta un’onda di energia.
L’ipotesi del Jeans richiede però un atto di fede immaginosa: la fede nell’esistenza, entro le stelle, di ignote sostanze più radio-attive e di peso atomico maggiore dell’uranio. Le stelle del Jeans, sopratutto le giovani, sarebbero miniere di favolosa ricchezza, date le loro colossali dimensioni; nella nostra infinitesima e vecchia terra non si troverebbero che con grande difficoltà briciole insignificanti di tanti tesori.
Più estremista, per così dire, ma più semplice e forse più conseguente, la terza ipotesi dell’Eddington; egli, pur facendo la lor piccola parte, nella riserva dell’energia di radiazione stellare, alla contrazione del Lane ed alla trasmutazione dell’atomo, accoglie in pieno la teoria dell’annichilazione della materia: la massa si trasforma in energia con la distruzione degli atomi; anche qui elettroni rotanti e protoni del nucleo si urtano e si annullano a vicenda, creando un’onda eterea, che sarà poi calore e luce. L’Eddington è più semplice, perchè non ricorre a sostanze particolari ed ignote; più conseguente, perchè tien conto delle condizioni meglio favorevoli alle collisioni distruttrici; l’esaltazione della temperatura e della densità. L’Eddington è estremista infine, non solo per il coraggio di discutere una così formidabile ipotesi, ma anche perchè con essa la cercata riserva di energia di vita delle stelle sarebbe la massima possibile: annichilando una goccia d’acqua si otterrebbe una potenza di 200 cavalli per un anno intero. Non c’imbarazzerebbero più adunque i miliardi di anni della terra, vecchia come materia, giovane come individuo, nè le decine di miliardi del sole. L’Eddington non giura nel verbo della sua ipotesi; egli la discute come un’ipotesi di lavoro o provvisoria: basti quì fissare bene in mente che la diminuzione di massa è il fatto fondamentale dell’evoluzione stellare e che tutte e tre le ipotesi citate traggono da questo fatto la conseguenza che la materia si trasforma in energia, secondo un processo diverso ed un ritmo più o meno intenso.
Si dovrebbe ora provarci in un rapido abbozzo di biografia di una stella anonima.
Dalla concentrazione probabilmente di una nebula oscura o delle braccia di una nebula spirale si forma una sfera tenuissima di gas o di polvere cosmica, con una temperatura centrale di qualche centinaio di migliaia di gradi.
II globo si raffredda per radiazione e si contrae quindi rapidamente; cresce allora la temperatura interna e, verso il milione di gradi, comincia la trasformazione della materia in energia, nelle forme meno violente della trasmutazione degli elementi: la stella è ora un gigante rosso e sappiamo che le masse delle stelle nella loro prima età non differiscono molto tra di loro, per il limite imposto dalla pressione di radiazione: il 90/100 delle stelle giovani diffuse è tra 2,5 e 5 volte il sole.
Lo stadio di gigante è quello del maggior dispendio d’energia. Il calore generato della contrazione facilmente raggiunge gli strati superficiali, di cui la temperatura aumenta, facendo passare la stella dal colore rosso al giallo, al bianco, senza che lo splendore complessivo scemi di molto per il diminuire di volume.
Ma quando il calore interno ha raggiunto il livello enorme di 40 milioni di gradi, abbiamo le condizioni che provocano l’annichilazione vera e propria della materia; essa è la restauratrice generosa delle riserve ormai esaurientisi dell’energia stellare.
A questo punto la stella prende a scendere i gradini della serie principale degli spettri, percorrendo più lentamente a ritroso la scala spettrale, dal bianco verso il giallo ed il rosso. Ciò vuol dire che la stella si raffredda alla superficie, per quanto la temperatura interna si conservi all’incirca ferma sui 40 milioni di gradi; è il fattore opacità alla radiazione della materia stellare, che impedisce sempre più alla energia prodotta dall’annichilazione della massa di sfuggire per gli spazî, che obbliga all’economia la stella, non più giovane e prodiga.
Si capisce subito che il periodo di nana dev’essere assai più lungo di quello di gigante e sempre più lunghi gli stadi corrispondenti alle età più venerande: se le stelle vecchie non sono numerose come dovrebbero, si può pensare, oltre che alla loro minore visibilità, che la nostra galassia anch’essa non sia vecchia abbastanza per contenerne molte.
Tornando alle nostre tre stelle tipiche, secondo l’Eddington il sole 5 milioni di milioni di anni fa era come Algol e basterà retrocedere ancora di un venticinquesimo di questo periodo per avere la sua data di nascita, mentre ci vorranno non cinque, ma 500 di queste unità di tempo, per vederlo ridotto come la Krüger 60. Questi periodi si possono calcolare, conoscendosi la velocità con cui la massa stellare deve annichilarsi per fornire l’energia necessaria alla radiazione propria ai periodi stessi. La storia della vita declinante di una stella sta tutta nel gioco alterno e contrapposto della creazione d’energia per annichilazione e la dissipazione per irraggiamento di quella energia; l’un fenomeno provoca l’altro, con il risultato di una continua perdita di massa, di un continuo aumento di densità per la perdurante contrazione, di un progressivo raffreddamento alla superficie, di un affievolirsi della sua luce.
Ho detto gioco alterno: la parola assume tutto il suo significato nella pulsazione di luce delle cefeidi.
Si potrebbe domandarsi se la massa stellare non possa assottigliarsi anche sfuggendo essa stessa, proiettata dalla radiazione, nello spazio; se il fenomeno fosse intenso, i mirabolanti periodi ora citati potrebbero ridursi di molto; ma così non è: la perdita diretta di massa esiste, ma è insignificante.
Più difficile a spiegarsi la fase di nana bianca e più difficile ancora farla morire: giunta all’ultimo stadio della serie principale o di nana rossa, forse l’opacità degli strati esterni all’interno irraggiamento, cresciuta a dismisura e la contrazione che continua, hanno per conseguenza l’esaltazione estrema della temperatura interna, restata sin qui quasi costante: si fa il numero spaventoso di un miliardo di gradi al centro. La materia residua, sin qui refrattaria all’annichilamento, cede anch’essa finalmente al destino comune nel crogiolo fattosi più rovente, creando nuova energia che esalta a sua volta ancora la temperatura superficiale, riportando verso il bianco la luce della stella moribonda; luce tuttavia sempre più debole, per l’assottigliarsi inesorabile della massa, l’aumentare della densità, l’impicciolire della superficie.
Come morrà la stella? Se infine anche il suo cuore si raffredda, la sua compressione fantastica dovrebbe cedere, ma dove troverà l’energia per dilatarsi? O dovrà tutta la massa scomparire annichilata? All’incognita imbarazzante pare che la nuova statistica di Einstein e la meccanica ondulatoria di Schrödinger siano in grado di portar luce e sarebbe troppo arduo spiegarne il modo: la nana bianca, dopo gli ultimi palpiti di splendore morente, si spegnerebbe, perchè ha raggiunto l’ultimo degli stadi possibili, paragonabile al primo sistema delle orbite possibili degli elettroni nell’atomo, quel sistema in cui l’atomo stesso, pur integro e vivo, non può irraggiare. La stella non sarebbe nè distrutta nè morta, nè raggelata come materia; è morta come stella, in quanto non può splendere più.
Se l’evoluzione stellare è un problema ancora allo studio, del quale si deve parlare con molta riserva, a questo solo argomento intendo limitare la parte della mia esposizione che non si riferisce a conquiste ben accertate, sicchè, anche per non oltrepassare i limiti della discrezione, non toccherò altri argomenti dell’astronomia stellare in cui l’induzione e la fantasia possono avere troppa parte; ho nominato il campo infido della cosmogonia.
Non so però trattenermi, chiudendo il mio dire, dal mettere un istante di fronte l’uomo e le stelle, l’uomo e gli atomi.
Per le dimensioni l’uomo si trova press’a poco tra la stella e l’atomo: per la massa egli sarebbe alquanto più vicino all’atomo e nel giusto mezzo, osserva argutamente l’Eddington, sarebbe piuttosto l’ippopotamo.
Per la durata della vita l’uomo si avvicinerebbe più alla stella che non all’atomo ed a mezzo si troverebbe la farfalla.
Ma la scala di variazione di queste unità è sterminata dallo atomo alla stella ed è invincibile il senso di vertigine che ci coglie sprofondando lo sguardo della mente nei due abissi che ci fiancheggiano.
Uno sgomento ben maggiore ci prende se, attrattivi dalla breve ora di colloquio con le immensità, con gli splendori, con le titaniche vicende del mondo stellare, riflettiamo ai misteri che da quel mondo si affacciano.
Le nostre condizioni di vita, i nostri sensi, la forma e la forza della nostra mente quanto ci fanno e ci potranno far penetrare della realtà che ne circonda?
Quali altre isole poi di vita e di pensiero nella infinità degli spazi siderei? E quali altre forme e quali altre altezze la vita potrebbe toccare? E se il pensiero non fosse che energia, sia pure quasi divina, perchè mai esso brilla qui, dove la materia è vecchia e povera d’energia, mentre si calcola che in media la materia nell’universo abbia una temperatura di un milione di gradi, capace quindi di energie prodigiose?
Ed infine: quale la meta cui tendono le crisi gigantesche, le sterminate migrazioni delle stelle, questo bruciare e questo splendere, questo nascere e questo morire di miliardi di soli? Come elettroni e protoni s’incontrano per scomparire e la materia si distrugge così, per diventare energia, per scagliare un raggio che viaggerà milioni di anni, potrà la materia rinascere dall’energia o rinascerà solo per un atto creativo?
Pure allo sgomento, al dubbio, al pessimismo generati da questi misteri tremendi, la speranza e la coscienza dell’uomo contrappongono il conforto di un sogno e di una fede; se la vita fisica nostra, isolata o no nel cosmo, è serva della materia, quella del nostro spirito è all’infuori della materia, è indipendente dai destini e dai fini dei mondi siderali; se l’osservatorio e l’osservatore dei cieli sono materialmente un pulviscolo nell’universo, l’anima umana tutto lo occupa o lo percorre, più veloce della luce. E sopravviverà, per comprendere ciò che oggi non comprende, tutta la realtà, l’ultimo fine del suo divenire e la Realtà stessa Suprema di Dio.