Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera nel casino della conversazione, con varie porte.

Rosaura, Beatrice, Eleonora, Corallina e Brighella.

Brighella. La vegna con mi, e no le se indubita gnente. Le metterò in t’un logo, dove senza esser viste le vederà.

Beatrice. Che luogo è quello dove ci volete mettere?

Brighella. Una camera scura dove no ghe va nissun.

Corallina. Che sia la camera del tesoro?

Brighella. Siora sì, gh’è el tesoro da ingrassar i campi.

Eleonora. Vi sono i fornelli?

Brighella. No, la veda: i fornelli xe in cusina.

Beatrice. Qual è la camera del giuoco? [p. 356 modifica]

Brighella. Qualche volta i zoga qua colla dama.

Rosaura. Colla dama, eh? Sì, sì, vi ho capito. Si divertono colle donne.

Brighella. Le vederà con che donne che i se diverte. Le so donne le son le bottiglie.

Corallina. Le bottiglie, o le pentoline?

Brighella. Pentoline? Pignatelle? Da cossa far?

Corallina. Per far le stregherie, per cavar il tesoro.

Brighella. Sì, sì, brava, la dise ben. Presto, presto, le se retira, che sento zente, e le varda ben, le staga zitte, e no le fazza sussurro.

Rosaura. (Se vedo donne, non mi tengono le catene). (da sè, entra)

Beatrice. (Se mio marito giuoca, vado a strappargli le carte di mano). (entra)

Eleonora. (Voglio rompere tutti i loro lambicchi). (entra)

Corallina. (Se cavano il tesoro, ne voglio anch’io la mia parte). (entra)

Brighella. Per sincerar ste donne curiose, no gh’è altro remedio che farle veder coi propri occhi... Vien i patroni, vado a finir de parecchiar la cena. Se la invenzion va ben, son el primo omo del mondo. Se la va mal, pazienza. Co l’intenzion l’è bona, se compatisse chi falla. (parte)

SCENA II.

Pantalone, Ottavio, Lelio e Florindo.

Lelio. Ella è così senz’altro. Mia moglie mi ha levate di tasca furtivamente le chiavi.

Pantalone. Chi sa che no la fusse quella che in abito da omo zirava qua intorno?

Lelio. Mia moglie da uomo? Non crederei. Abiti che le vadan bene, in casa non ve ne sono.

Pantalone. La sarà stada donca quella in zendà, che ha trova Brighella colle chiave, in atto de avrir.

Lelio. Se ciò è vero, se colei me l’ha fatta, giuro al cielo, la fo morire sotto un bastone. [p. 357 modifica]

Ottavio. No, amico, non tanta furia.

Lelio. Siete qui voi colla vostra flemma.

Ottavio. Lasciatemi dir due parole. Voi siete stato burlato da vostra moglie, io dalla mia, ed il signor Florindo da quella che sarà sua. Consideriamo un poco il motivo di questo loro trasporto. O provien dall’amore che hanno per noi, e non ce ne possiamo dolere; o proviene da un difetto di natura, chiamato curiosità, e dobbiamo compatire il loro temperamento. Chi nasce con dei difetti, merita compassione. L’uomo saggio deve procurar di correggerli senza scandalizzarsi. Ma sappiate, amico, che non è l’ira quella che produca le correzioni, ma la ragione. Battete la moglie dieci anni, vent’anni, diverrà sempre peggio. Onde una delle due, o correggerla con amore, o non curarla con indifferenza.

Pantalone. Sior Ottavio dise benissimo, el parla da omo de garbo e da filosofo vero; ma mi gh’ho un’altra regola, che me par più segura, e che ho imparà a mie spese. Dalle donne ghe stago lontan, e in fatti ho procurà de far sta union de omeni senza donne, e donne qua no ghe n’ha da vegnir. E ve prego, cari amici, custodì le chiave; che se le donne ve tol le chiave, avè persa affatto la libertà.

Florindo. Io sono stato il più debole, il più pazzo di tutti. Confesso la mia insensatezza. Ho date io medesimo le chiavi in deposito alla signora Rosaura, ne mi sarei mai creduto ch’ella mi potesse tradire...

Ottavio. Via, non andate in collera. Amore accieca. Ha acciecato voi nel dargliele, ha acciecato lei nel servirsene. Col tempo ci vedrete meglio. Verrà pur troppo quel tempo, che voi non le renderete conto dei vostri passi, ed ella non curerà saper dove andiate.

SCENA III.

Leandro e detti.

Leandro. Amicizia. (tutti fanno con lui il solito complimento) Signor Pantalone, avete detto nulla a questi signori di quel compagno che vi ho proposto? [p. 358 modifica]

Pantalone. Cossa diseli, patroni, xeli contenti che ricevemo sto nostro camerada?

Ottavio. Chi è? Come si chiama?

Leandro. Egli è il signor Flamminio Malduri. Lo conoscete?

Ottavio. Io no.

Lelio. Lo conosco io. È galantuomo. Merita esser ammesso nella vostra conversazione.

Pantalone. Bon. Co do lo cognosse, el se pol recever. Cossa diseli?

Ottavio. Io son contentissimo.

Florindo. Ed io pure.

Leandro. Posso dunque farlo passare.

Pantalone. Mo l’aspetta un pochetto. L’avemio da far vegnir cussì colle man a scorlando?1 Sto liogo ne costa dei bezzi assae; nu avemo speso, e avemo fatto quel che avemo fatto, xe ben giusto che chi entra novello, abbia da pagar qualcossa. Cossa ghe par?2

Leandro. Questi è un uomo generoso, soccomberà volentieri ad ogni convenienza.

Pantalone. Femo cussì, che el paga la cena de sta sera. Ah? dighio mal?

Lelio. Dite benissimo. Può pagar meno per entrare in una simile compagnia?

Florindo. Per me darò la mia parte.

Pantalone. Gnente, signor Florindo, no femo miga per sparagnar la parte. Semo tutti omeni che un felippo non ne descomoda. Se fa per un poco de chiasso, per un poco de allegria. Cossa diseu, sior Leandro?

Leandro. Va benissimo, ed ora con questo patto lo introduco senz’altro. (parte)

Pantalone. Più che semo, più stemo allegri. Oh, m’ho desmentegà de domandarghe una cossa.

Lelio. Che cosa? [p. 359 modifica]

Pantalone. Se sto sior el xe maridà. Da qua avanti no solo no voggio donne, ma gnanca omeni maridai.

Florindo. Perchè, signore?

Pantalone. E gnanca sposi.

Florindo. Ma perchè?

Pantalone. Perchè no i sa custodir le chiave.

SCENA IV.

Leandro, Flamminio e detti.

Leandro. Amicizia.

Pantalone. Amicizia. Gh’aveu insegna el complimento? (a Leandro)

Flamminio. Servo di lor signori.

Pantalone. Che servo? Amicizia. (abbracciandolo)

Flamminio. Amicizia. (tutti fanno lo stesso) Mi ha detto l’amico Leandro, che lor signori si degnano favorirmi...

Pantalone. Che degnar? Che favorir? Sti termini da nu i xe bandii. Bona amicizia, e gnente altro.

Flamminio. Son qui disposto a soccombere a quanto sarà necessario.

Pantalone. Gnente. Co l’ha pagà una cena, l’ha fenio tutto, e quel che stassera la fa ela, un’altra volta farà un altro novizzo, e cussì se se diverte, e se gode.

Flamminio. Se mi credete abile a supplire a qualche incombenza, mi troverete disposto a tutto.3

Pantalone. Qua no ghe xe maneggi, no ghe xe affari,4 tutto el daffar consiste in provéder ben da magnar, ben da bever5, e devertirse.

Flamminio. Eppure si dice che qui fra di voi altri abbiate diverse inspezioni, diverse incombenze, alle quali si arriva col tempo.

Pantalone. Oibò, freddure. Chiaccole della zente, alzadure d’inzegno de quelli che no volemo in te la nostra conversazion, [p. 360 modifica]i quali mettendone in vista per qualcossa de grando, i ne vorave precipitar.

Leandro. Queste cose gliele ho dette ancor io, e non me le ha egli volute credere.

Ottavio. Sì, tutto il mondo è persuaso che la nostra unione abbia qualche mistero. Questo è un effetto della superbia degli uomini, li quali vergognandosi di non sapere, danno altrui ad intendere tutto quello che lor suggerisce la fantasia stravolta, sconsigliata e maligna.

Lelio. A tavola questa sera vedrete tutte le nostre maggiori incombenze. Chi trincia 6, chi canta, chi dice delle barzellette, e chi applica seriosamente a mangiar di tutto, la qual carica, indegnamente, è la mia.

Florindo. Saprete che qui non è permesso alle donne l’intervenirvi.

Flamminio. È vero; ed esse appunto sono quelle che fanno assai mormorare di voi, e dicono che vi è dell’arcano.

Pantalone. Coss’è sto arcano? Qua no se fa scondagne, no se dise mal de nissun, ne se offende nissun. Ecco qua i capitoli della nostra conversazion. Sentì se i poi esser più onesti, sentì se ghe xe bisogno de segretezza.

1. "Che non si riceva in compagnia persona che non sia onesta, civile e di buoni costumi".

2. "Che ciascheduno possa divertirsi a suo piacere in cose lecite e oneste, virtuose e di buon esempio".7

3. "Che si facciano pranzi e cene in compagnia, però con sobrietà e moderatezza; e quello che eccedesse nel bevere, e si ubbriacasse, per la prima volta sia condannato a pagar il pranzo o la cena che si sarà fatta, e la seconda volta sia scacciato dalla compagnia".

4. "Che ognuno debba pagare uno scudo8 per il [p. 361 modifica] mantenimento delle cose necessarie, cioè mobili, lumi, servitù, libri e carta ecc.".

5. "Che sia proibita per sempre la introduzion delle donne, acciò non nascano scandali, dissensioni, gelosie e cose simili".

6. "Che l’avanzo del denaro che non si spendesse, vada in una cassa in deposito, per socconere qualche povero vergognoso".

7. "Che se qualcheduno della compagnia caderà in qualche disgrazia, senza intacco della sua riputazione, sia assististo dagli altri, e difeso con amore fraterno".

8. "Chi commetterà qualche delitto o qualche azione indegna, sarà scacciato dalla compagnia".

9. (E questo el xe el più grazioso, el più comodo de tutti). "Che sieno bandite le cerimonie,9 i complimenti, le affettazioni:10 chi vuol andar vada, chi vuol restar resti; e non vi sia altro saluto, altro complimento che questo: amicizia, amicizia". Cossa ghe par? Ela una compagnia adorabile?

Flamminio. Sempre più mi consolo di esservi stato ammesso.

SCENA V.

Brighella e detti.

Brighella. Signori, co le comanda, è in tavola. (parte)

Pantalone. Andemo.

Flamminio. Favorite. (fa cenno che vada prima)

Pantalone. Vedeu? Queste le xe freddure contra el capitolo ultimo. Chi xe più vicini alla porta, va fora prima dei altri. Senza complimenti. Amicizia. (parte)

Flamminio. Oh bella cosa! Oh bellissima cosa! (parte)

Lelio. Andiamo, amici. La rabbia che ho avuto con mia moglie, mi ha fatto venire un appetito terribile. (parte)

Ottavio. Io mangio sempre bene ugualmente, perchè rido di tutto, e non m’inquieto mai. (parte) [p. 362 modifica]

Florindo. Io non posso dire così. Amo Rosaura, e peno rammentandomi d’averla disgutata. Ella lo ha meritato, ma il mio cuor mi rimprovera di averla troppo villanamente trattata, (parte)

SCENA VI.

Beatrice, Rosaura, Eleonora e Corallina.

Eleonora. Avete veduto?

Beatrice. Avete sentito?

Corallina. In fatti, chi mi ha detto del tesoro, non ha fallato.

Rosaura. Come non ha fallato? Il tesoro dov’è?

Corallina. Ecco lì. (accenna la porta dove sono entrati gli uomini) Una buona tavola, allegra e di buon cuore, è il più bel tesoro del mondo.

Eleonora. Povero mio marito! Si diverte, non fa alcun male.

Beatrice. Mi pareva impossibile che Ottavio giocasse.

Rosaura. Florindo è un giovine savio e dabbene, ma mi ha rimproverata con troppa crudeltà.

Corallina. Vostro danno, signora, dovevate fidarvi di lui, e non mostrare tanta curiosità.

Rosaura. Me ne ha fatto venir volontà la signora madre.

Beatrice. Io non ho fatto per curiosità, l’ho fatto per impegno.

Eleonora. Anch’io per un puntiglio.

Beatrice. E che sia la verità, andiamo a casa, che non vuò veder altro.

Eleonora. Sì, andiamo, signora Beatrice, che non paia che vogliamo vedere i fatti degli altri.

Rosaura. Oh Dio! Chi sa se Florindo mi vorrà più bene! Vorrei vedere se mangia, o se sta malinconico.

Beatrice. Via, via, basta così. (s’avvia per partire)

Corallina. Aspettate un momento, vedrò io se il signor Florindo mangia, o non mangia. (va a spiare alla porta)

Eleonora. Eh via, che non istà bene spiare alle porte.

Beatrice. Andiamo, andiamo. [p. 363 modifica]

Corallina. Oh che bella tavola! Oh che bella cosa!

Beatrice. In quanti sono? (torna indietro)

Corallina. (Guarda) In sei.

Eleonora. Mangiano? (s’accosta)

Corallina. Diluviano.

Rosaura. Florindo mangia?11

Corallina. Discorre.

Beatrice. Egli fa così. Mangia adagio, e parla sempre.

Eleonora. E mio marito?

Corallina. Oh se vedesse!

Eleonora. Che cosa?

Corallina. Che bel pasticcio!

Eleonora. Come? (corre al buco della chiave)

Beatrice. Pasticcio di che? (corre anch’essa per vedere)

Eleonora. Via, signora, ci sono prima io. (guarda dal bucolino)

Beatrice. Spiacciatevi, voglio veder ancor io. (ad Eleonora)

Rosaura. (E poi diranno ch’io son curiosa!) (da sè)

Eleonora. Oh bello!

Beatrice. Lasciatemi vedere. (fa andar via Eleonora e guarda)

Corallina. Questa fessura non la do a nessuno.

Beatrice. Oh bella cosa! (guardando)

Rosaura. Ed io niente.

Beatrice. Bevono.

Eleonora. Chi? Voglio vedere.

Rosaura. Voglio veder ancor io.

Beatrice. Venite qui. (a Rosaura, dandole luogo)

Rosaura. Florindo beve.

Eleonora. E Lelio?

Rosaura. Taglia un pollo.

Eleonora. Voglio vederlo. (tira via Rosaura con forza)

Corallina. Presto, presto, ritiriamoci. (si scosta)

Eleonora. Perchè?

Corallina. Arlecchino viene verso la porta. [p. 364 modifica]

Beatrice. Che cosa fa Arlecchino?

Corallina. Serve in tavola.

Beatrice. Voglio vederlo. (s’accosta all’uscio)

SCENA VII.

Arlecchino dalla porta, con un tondo in mano con delle paste sfogliate; e detti.

Arlecchino. (Entrando s’incontra in Beatrice, e resta sospeso.)

Beatrice. Zitto. (ad Arlecchino)

Arlecchino. Cossa feu qua?

Eleonora. Zitto.

Arlecchino. Se i ve vede, poverette12 vu.

Corallina. Bada bene, non dir nulla.

Arlecchino. Per mi no parlo. Vag a metter via ste bagattelle, e po torno.

Corallina. Che cosa sono?

Arlecchino. Quattro sfoiade: i mi incerti.

Corallina. Lascia un po’ vedere. (ne prende una)

Arlecchino. Bon! comodève.

Corallina. Oh com’è buona!

Beatrice. Lascia sentire. (ne prende un’altra)

Arlecchino. Padrona.

Eleonora. Con licenza. (ne prende anch’essa una)

Arlecchino. Senza cerimonie.

Rosaura. Ed io niente?

Arlecchino. Se la comanda, la toga questa.

Rosaura. Per sentirla. (prende la pasta sfogliata)

Arlecchino. Cussì ho destrigà el piatto presto. Torno a oselar13.

Corallina. Portami qualche cosa di buono.

Arlecchino. Ande via, siora, che se i ve vede14...

Beatrice. Non dir niente.

Arlecchino. Non parlo. (entra e chiude la porta) [p. 365 modifica]

Beatrice. Andiamo via, prima d’essere scoperte.

Eleonora. Sì, sarà meglio.

Rosaura. Andiamo, che il signor Florindo non abbia motivo un’altra volta di rimproverarmi.

Corallina. Un’occhiatina, e vengo. (corre alla porta)

Beatrice. Via, curiosa!

Corallina. Oh bello! (guardando)

Beatrice. Che cosa c’è di bello? (torna verso la porta)

Corallina. Il deser.

Eleonora. Il deser? (verso la porta)

Rosaura. Con i lumi?

Corallina. Bello, di cristallo, coi fiori. Pare un giardino.

Beatrice. Voglio vedere.

Eleonora. Voglio vedere.

Rosaura. Ancor io.
(Tutte s’accostano e sforzano per vedere, onde si spalanca la porta15 ed escono)

SCENA VIII.

Pantalone, Ottavio, Lelio, Florindo, Leandro, Flamminio, alcuni con salviette alcuni con lumi; e dette.

Pantalone. Coss’è sto negozio?

Lelio. Eh, giuro a Bacco... (contro Eleonora)

Ottavio. Fermatevi: prudenza, moderazione. (a Lelio)

Pantalone. Come xele qua ste patrone? Chi le ha menade? Chi le ha introdotte?

SCENA ULTIMA.

Brighella e detti.

Brighella. Sior padron, son qua mi. Siori, son causa mi; le abbia la bontà de ascoltarme; se merito castigo, le me castiga, se merito premio, le fazza quel che le vol. [p. 366 modifica]

Ottavio. V’ho capito. Brighella le ha introdotte per disingannarle, perchè non sospettino male di noi: egli è vero?

Brighella. Signor sì, le ho introdotte per questo. Una diseva che qua se zoga, e se rovina le case; l’altra che vien donne cattive, e se maltratta la reputazion; una voleva che se fasse el lapis philosophorum; l’altra che se cavasse un tesoro. Ste cosse in bocca delle donne le impeniva in poco tempo el paese, e per levarghele dalla testa, el dir no bastava, el criar giera gnente16 e no remediava. Bisognava sincerarle, bisognava che co i so occhi, colle so orecchie le vedesse, le sentisse, e le se cavasse dal cuor sta maledetta curiosità. Le ha visto, le ha sentìo, no le sospetterà più, no le sarà più curiose. Mi l’ho introdotte, mi l’ho fatto per ben, e spero che da sta mia invenzion ghe ne deriva del ben.

Pantalone. No so cossa dir. Ti t’ha tolto una libertà granda; ti ha disobbedio el mio comando; ti meriteressi che te cazzasse subito via de qua. Ma se xe vero che sincerade ste donne le abbia da lassar in pase i so omeni, e lassar in quiete sto nostro liogo, te perdono, te lodo, e te prometto un regalo.

Brighella. Cosa disele, patrone, èle sincerade?

Beatrice. Io non aveva bisogno di vedere, per assicurarmi della prudenza di mio marito.

Ottavio. Perchè dunque siete venuta?

Beatrice. Per contentare mia figlia.

Florindo. La signora Rosaura non mi crede?

Rosaura. Le male lingue mi facevano dubitare, ma io era certissima della vostra fede.

Lelio. E voi, signora consorte carissima, l’avete voluto sostenere quel vostro indegnissimo lo saprò.

Eleonora. Via, marito, non vi è più pericolo ch’io dica lo saprò.

Lelio. Perchè avete saputo.

Corallina. Cari signori, compatiteci: alfin siamo donne.17 Quel sentir dire: là dentro non possono andar le donne, è lo stesso che [p. 367 modifica] metterci in desiderio d’andarvi. E per me, se dicessero: in fondo d’un pozzo vi è una cosa che non si ha da sapere che cosa sia, mi farei calar giù sin alla gola, per cavarmi una tale curiosità.

Pantalone. La curiosità ve l’ave cavada. Seu contente?

Eleonora. Per me son contentissima. Caro marito, non vi tormenterò più.

Lelio. Se avrete giudizio, sarà meglio per voi.

Beatrice. Siete in collera, signor Ottavio?

Ottavio. Niente, consorte mia, niente. Conosco il sesso, lo compatisco. Niente.

Rosaura. E voi, signor Florindo?

Florindo. Scordatevi de’ miei trasporti, ch’io mi scorderò di ogni vostro vano sospetto.

Ottavio. Le mie chiavi, come diavolo le avete avute?

Corallina. Niente, signore, con una chicchera di caffè.

Ottavio. Ah galeotta! Ora me ne ricordo. E voi che volevate ch’io mi levassi il vestito? (a Beatrice)

Beatrice. Compatitemi.

Pantalone. Via, a monte tutto. Sarale più curiose?

Beatrice. Non v’è pericolo.

Eleonora. Io no, sicuro.

Rosaura. Ne men io certamente.

Corallina. Oh, mai più curiosità, mai più.

Pantalone. Donca le se quieta, le se consola, e le vaga tutte a bon viazzo. Qua no volemo donne. Le ha sentio el perchè. Le ne fazza sta grazia, le vaga via.

Beatrice. Andiamo?

Eleonora. Che dite18, signora Rosaura?

Rosaura. Bisognerà andare.

Pantalone. Mo via, cossa fale che no le va?

Corallina. Io dirò, signore, muoiono di volontà di veder quel bel deser.

Eleonora. Sì, e tutte quelle belle camere. [p. 368 modifica]

Beatrice. Via, giacchè ci siamo.

Rosaura. Questa volta, e non più.

Pantalone. Da resto po no le sarà più curiose. Andemo, sodisfemole, femoghe veder tutto. E po?19 no le sarà più curiose. Questo xe un mal, che dalla testa no gh’el podemo levar. Basta ben che de nu le sia sincerade, che el nostro modo de viver el sia giustifica, e che le ne lassa goder in pase tra de nu, senza pettegolezzi, la nostra onoratissima conversazion. Amicizia.

Tutti. Amicizia, amicizia.

Fine della Commedia.


Note

  1. Cioè colle mani vuote?
  2. Segue nell’ed. Pap.: «Per me, se mi dà una presa di tabacco, son soddisfatto. Lean. Questi ecc.».
  3. Segue nell’ed. Pap.: «Non dico di aver la temerità di aspirar così subito alle prime cariche, ma almeno a qualcheduna delle inferiori. Pant. Che cariche! Cossa me parlela de cariche? Qua no ghe xe ecc.».
  4. Pap. aggiunge: no ghe xe cariche.
  5. Pap. aggiunge: lumi, libri, carta da scriver, e qualche zogo innocente, e da ecc.
  6. Pap.: Chi apre una bottiglia, chi scopre un piatto, chi trincia ecc.
  7. Segue nell’ed. Pap.: «3. Che non si possa giocare a verun gioco d’invito, ma solo a giuochi innocenti per puro divertimento, e al più di mezzo paolo la partita. 4. Che ciascheduno abbia da applicarsi a qualche arte o a qualche scienza, comunicando agli altri quei lumi che averà acquistato leggendo. 5. Che ogni giorno di riduzione debba uno della compagnia proponer qualche dubbio o economico, o mercantile, o scientifico, sopra il quale ciascheduno dica la sua oppinione».
  8. Pap. aggiunge: il mese.
  9. Pap. aggiunge: i brindesi.
  10. Segue nell’ed. Pap.: che a tavola chi ha fame, se ne prenda: chi ha sete, beva: chi vuol andar ecc.
  11. Pap. aggiunge: fa lo stesso.
  12. Pap.: povere.
  13. A uccellare, a buscar qualche cosa. [nota originale]
  14. Pap. aggiunge: poverelle vu.
  15. Pap. aggiunge: e Coralina casca.
  16. Pap. aggiunge: e el darghe, el coparle no remediava.
  17. Segue nell’ed. Pap.: la curiosità è un male comune, ma in noi particolarmente pare che operi più.
  18. Pap.: Ma! che dite ecc.
  19. Pap.: E po no le sarà ecc.