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358 ATTO TERZO

Pantalone. Cossa diseli, patroni, xeli contenti che ricevemo sto nostro camerada?

Ottavio. Chi è? Come si chiama?

Leandro. Egli è il signor Flamminio Malduri. Lo conoscete?

Ottavio. Io no.

Lelio. Lo conosco io. È galantuomo. Merita esser ammesso nella vostra conversazione.

Pantalone. Bon. Co do lo cognosse, el se pol recever. Cossa diseli?

Ottavio. Io son contentissimo.

Florindo. Ed io pure.

Leandro. Posso dunque farlo passare.

Pantalone. Mo l’aspetta un pochetto. L’avemio da far vegnir cussì colle man a scorlando?1 Sto liogo ne costa dei bezzi assae; nu avemo speso, e avemo fatto quel che avemo fatto, xe ben giusto che chi entra novello, abbia da pagar qualcossa. Cossa ghe par?2

Leandro. Questi è un uomo generoso, soccomberà volentieri ad ogni convenienza.

Pantalone. Femo cussì, che el paga la cena de sta sera. Ah? dighio mal?

Lelio. Dite benissimo. Può pagar meno per entrare in una simile compagnia?

Florindo. Per me darò la mia parte.

Pantalone. Gnente, signor Florindo, no femo miga per sparagnar la parte. Semo tutti omeni che un felippo non ne descomoda. Se fa per un poco de chiasso, per un poco de allegria. Cossa diseu, sior Leandro?

Leandro. Va benissimo, ed ora con questo patto lo introduco senz’altro. (parte)

Pantalone. Più che semo, più stemo allegri. Oh, m’ho desmentegà de domandarghe una cossa.

Lelio. Che cosa?

  1. Cioè colle mani vuote?
  2. Segue nell’ed. Pap.: «Per me, se mi dà una presa di tabacco, son soddisfatto. Lean. Questi ecc.».