Le avventure della villeggiatura/Atto III
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ATTOTERZO.
SCENA PRIMA.
Boschetto.
Brigida e Paolino.
Brigida. Qui, qui, signor Paolino. Fermiamoci qui, che godremo un poco di fresco.
Paolino. Ma se il padrone mi cerca, e non mi trova....
Brigida. Ora sono tutti in sala a pigliare il caffè. Dopo il caffè si metteranno a giocare. State un poco con me, se non vi dispiace la mia compagnia.
Paolino. Cara signora Brigida, la vostra compagnia mi è carissima.
Brigida. Propriamente desiderava di star con voi mezz’oretta.
Paolino. Bisogna poi dire la verità, in campagna si possono trovare più facilmente dei buoni momenti, delle ore libere, dei siti comodi per ritrovarsi a quattr’occhi.
Brigida. Li trovano le padrone e i padroni? Li possiamo trovare anche noi.
Paolino. Sì, è vero, nascono in villa di quegli accidenti, che non nascerebbero1 facilmente in città.
Brigida. N’è nato uno alla mia padrona degli accidenti, che dubito se ne voglia ricordar per un pezzo.
Paolino. Che cosa le è accaduto?
Brigida. Mi dispiace che non posso parlare; del resto sentireste delle cose da far arricciar i capelli.
Paolino. Qualche cosa certo convien dir che sia nato. Il mio padrone è agitatissimo; la signora Giacinta pare stordita. Io sono stato dietro di loro, come sapete, a servire a tavola; e so che in tutti e due non hanno mangiato un’oncia di roba.
Brigida. E chi era dall’altra parte della mia padrona?
Paolino. Il signor Guglielmo.
Brigida. Maladetto colui! Non la vuol finire. Vuol essere la rovina di questa casa.
Paolino. Vi è qualche imbroglio forse fra lui e la vostra padrona?
Brigida. Eh! no, non c’è niente. E la signora Vittoria dov’era?
Paolino. Vicino anch’essa al signor Guglielmo.
Brigida. Guardate che galeotto! Andarsi a mettere in mezzo di tutte e due.
Paolino. Di quando in quando con quella sua patetichezza diceva qualche parola alla signora Giacinta; ma non ho potuto capire.
Brigida. Se n’è accorto il signor Leonardo?
Paolino. Una volta mi pare di sì. Tant’è vero, che nel darmi il tondo da mutare, l’ha fatto con tal dispetto, che ha urtato nella spalla della signora Giacinta, e le ha un poco macchiato l’abito.
Brigida. Le ha macchiato l’abito nuovo? Avrà dato nelle furie la mia padrona.
Paolino. No, no, se l’è passata con somma disinvoltura.
Brigida. È molto; si vede bene che qualche cosa le sta nel cuore più dell’abito.
Paolino. Anzi il padrone la volea ripulire, ed ella non ha voluto.
Brigida. Eppure la pulizia è la sua gran passione. Oh povera fanciulla! È fuor di se propriamente.
Paolino. Ci gioco io, che l’occasione ed il comodo l’ha fatta innamorare del signor Guglielmo.
Brigida. Eh! via, che diavolo dite? Vi pare? Non è ella promessa al signor Leonardo? Non ci sono dei discorsi fra il signor Guglielmo e la signora Vittoria?
Paolino. Oh! io credo che la mia padrona si lusinghi assai male. Non faceva a tavola che tormentar il signor Guglielmo, ed egli non le dava risposta, non le badava nemmeno.
Brigida. E parlava colla mia padrona?
Paolino. Sì, qualche volta colla bocca, e qualche volta col gomito, e qualche volta coi piedi.
Brigida. Cospetto di bacco! Se fossi sfata lì io, dove eravate voi, non so se mi sarei tenuta di dargli il tondo sul capo.
Paolino. Vedete? Se non ci fossero delle cose fra loro, non ci sarebbe bisogno che deste voi in queste smanie.
Brigida. Orsù, parliamo d’altro. La vecchia sarà stata vicina a quel drittaccio di Ferdinando.
Paolino. Sì, certo; e non faceva che dirgli delle cosette tenere ed amorose, ed egli mangiava, o piuttosto divorava, che pareva fosse digiuno da quattro giorni.
Brigida. E la povera padrona non mangiava niente?
Paolino. Come poteva ella mangiare, se era lì angustiata fra lo sposo e l’amante?
Brigida. Eh! via, lasciamo questi discorsi. Come si sono portate a tavola la signora Costanza e la signora Rosina?
Paolino. Eh! non si sono portate male; ma chi ha fatto bene la parte sua, quasi quanto il signor Ferdinando, è stato quella cara gioia del signor Tognino.
Brigida. Era vicino alla sua Rosina?
Paolino. Ci s’intende, e come se la godevano! Hanno sempre parlato sotto voce fra loro due, che era una cosa che faceva male allo stomaco.
Brigida. Anche quello è un matrimonio vicino.
Paolino. Per quel che si vede.
Brigida. Anche quella è un’amicizia fatta in villeggiatura. Se la signora Rosina non veniva qui, difficilmente in Livorno si sarebbe maritata, ed io, in tanti anni che ci vengo, sono ancora così. Convien dire, o che non abbia alcun merito, o che sia sfortunata.
Paolino. Signora Brigida, avete desiderio di maritarvi?
Brigida. Ho anch’io quel desiderio che hanno tutte le fanciulle che non si vogliono ritirare dal mondo.
Paolino. Quando si vuole, si trova.
Brigida. Per me, so che non l’ho ancora trovato; eppure son giovane. Bella non sono, ma non mi pare di esser deforme: dell’abilità ne ho quant’un’altra, e forse più di tant’altre. Per dote, fra denari e roba, tre o quattrocento scudi non mi mancano. Eppure nessun mi cerca, e nessun mi vuole.
Paolino. Mi dispiace che devo andar via, per altro vi direi qualche cosa su questo proposito.
Brigida. Dite, dite, non mi lasciate con questa curiosità.
Paolino. È peccato che perdiate così il vostro tempo.
Brigida. Avreste qualche cosa voi da propormi?
Paolino. Avrei io.... ma....
Brigida. Ma che?
Paolino. Non so se fosse di vostro genio.
Brigida. Quando non ho da prendere un galantuomo, un uomo proprio e civile come siete voi, voglio star piuttosto così come sono.
Paolino. Signora Brigida, ci parleremo.
Brigida. Questa sera, in tempo della conversazione.
Paolino. Sì, avremo quanto tempo vorremo. Verrò da voi, verremo qui nel boschetto.
Brigida. Oh! di notte poi nel boschetto....
Paolino. Via, via, ho detto così per ischerzo. Son galantuomo, fo stima di voi, e spero che le cose anderanno bene.
Brigida. Voi mi consolate a tal segno...
Paolino. Addio, addio. A questa sera. (parte)
Brigida. Chi sa che la campagna in quest’anno non produca qualche cosa di buono ancora per me? (parte)
SCENA II.
Giacinta sola.
Vorrei respirare un momento. Vorrei un momento di quiete. Giochi chi vuol giocare. Niente mi alletta, niente mi diverte, tutto anzi m’annoia, tutto m’inquieta. Bella villeggiatura che mi tocca fare quest’anno! Non l’avrei mai pensato. Io che mi rideva di quelle che spasimavano per amore, ci son caduta peggio dell’altre. Ma perchè, pazza ch’io sono stata, perchè lasciarmi indurre sì presto e sì facilmente a dar parola a Leonardo, ed a permettere che se ne facesse il contratto? Sì, ecco l’inganno. Ho avuto fretta di maritarmi, più per uscire di soggezione, che per volontà di marito. Ho creduto, che quel poco di amore che io sentiva per Leonardo, bastasse per un matrimonio civile, e non mi ho creduto capace d’innamorarmi poi a tal segno. Ma qui convien rimediarci. Quest’amicizia non può tirar innanzi così. Ho data parola ad un altro. Quegli ha da essere mio marito, e voglia o non voglia, s’ha da vincere la passione. Finirà quest’mdegna villeggiatura. A Livorno Guglielmo non mi verrà più per i piedi. Sfuggirò le occasioni di ritrovarmi con esso lui. Possibile che col tempo non me ne scordi? Ma intanto come ho da vivere qui in campagna? Le cose sono a tal segno, che temo di non potermi nascondere. Cent’occhi mi guardano; tutti mi osservano. Leonardo è in sospetto. Vittoria mi teme. La vecchia è imprudente, ed io non posso sempre dissimulare. Oh cieli! cieli, aiutatemi. Mi raccomando, e mi raccomando di cuore.
SCENA III.
Guglielmo e la suddetta.
Guglielmo. Finalmente vi ho potuto poi rinvenire.
Giacinta. Che volete da me? Anche qui venite ad importunarmi?
Guglielmo. Parto, sì, non temete. Concedetemi ch’io possa dirvi due parole soltanto.
Giacinta. Spicciatevi. (guardando d’intorno)
Guglielmo. Vi supplico della risposta, di cui vi avea pregato stamane.
Giacinta. Io non mi ricordo che cosa mi abbiate detto.
Guglielmo. Ve lo tornerò a replicare.
Giacinta. Non c’è bisogno.
Guglielmo. Dunque ve ne sovverrete benissimo.
Giacinta. Andate, vi priego, e lasciatemi in pace.
Guglielmo. Due parole, e me ne vado subito.
Giacinta. (Qual arte, qual incanto è mai questo!) E così?
Guglielmo. Ho da vivere, o ho da morire?
Giacinta. Sono queste domande da fare a me?
Guglielmo. Bisogna ch’io lo domandi a chi ha l’autorità di potermelo comandare.
Giacinta. Pretendereste voi ch’io mancassi al signor Leonardo, e che mi facessi scorgere da tutto il mondo?
Guglielmo. Io non ho l’ardir di pretendere; ho quello solamente di supplicare.
Giacinta. Fareste meglio a tacere.
Guglielmo. Non isperate ch’io taccia, senza una positiva risposta.
Giacinta. Orsù dunque, giacchè s’ha da parlare, si parli. Riflettete, signor Guglielmo, che voi ed io siamo due persone infelici, e lo siamo entrambi per la cagione medesima. Se la nostra infelicità si estendesse soltanto a farci vivere in pene, si potrebbe anche soffrire; ma il peggio si è, che andiamo a perdere il decoro, l’estimazione, l’onore. Io manco al mio dovere, ascoltandovi; voi mancate al vostro, insidiandomi il cuore. Io manco al rispetto di figlia, al dovere di sposa, all’obbligo di fanciulla saggia e civile; voi mancate alle leggi dell’amicizia, dell’ospitalità, della buona fede. Qual nome ci acquisteremo noi fra le genti? Qual figura dovremo fare nel mondo? Pensateci per voi stesso, e pensateci per me ancora. Se è vero che voi mi amiate, non procacciate la mia rovina. Avrete voi un animo sì crudele di sagrificare alla vostra passione una povera sfortunata, che ha avuto la debolezza d’aprire il seno alle lusinghe d’amore? Avrete un cuore sì nero per ingannare mio padre, per tradire Leonardo, per deludere sua germana? Ma a qual prò tutto questo? Qual mercede vi promettete voi da sì vergognosa condotta? Tutt’altro aspettatevi, fuor ch’io receda dal primo impegno. Sì, vel confesso, io vi amo, dicolo a mio rossore, a mio dispetto, vi amo. Ma questa mia confessione è quanto potete da me sapere. Assicuratevi ch’io farò il possibile per l’avvenire o per iscordarmi di voi, o per lasciarmi struggere dalla passione, e morire. Ad ogni costo noi ci abbiamo da separare per sempre. Se avrete voi l’imprudenza d’insistere, avrò io il coraggio di cercar le vie di mortificarvi. Farò il mio dovere, se voi non farete il vostro. Avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Vi premea d’intendere il mio sentimento, l’avete inteso. Mi chiedeste, se dovevate vivere o morire; a ciò rispondo, che non so dire quel che sarà di me stessa; ma che l’onore si dee preferire alla vita.
Guglielmo. (Oimè! Non so in che mondo mi sia. Mi ha confuso a tal segno, che non so più che rispondere).
Giacinta. (Ah! è pur grande lo sforzo che fare mi è convenuto! Grand’affanno, gran tormento mi costa!)
SCENA IV.
Leonardo e detti.
Leonardo. Voi qui, signora?
Giacinta. (Oh cieli!)
Leonardo. Quali affari segreti vi obbligano a ritirarvi qui col signor Guglielmo?
Guglielmo. (Ah! è inevitabile il precipizio).
Giacinta. (Si tratta dell’onore. Vi vuol coraggio). (da sè) Gli affari ch’io tratto con esso lui, dovrebbero interessar voi più di me. L’onore che ho di essere vostra sposa, rende mie proprie le convenienze della vostra famiglia. Parlasi per Montenero, che siano corse parole di qualche impegno fra lui e la signora Vittoria. So che ella se ne lusinga, e in pubblico ha dimostrata la sua passione. Cose son queste delicatissime, dalle quali può dipendere il buon concetto di una fanciulla. Io non sapeva precisamente di qual animo fosse il signor Guglielmo. Ho cercato di assicurarmene, ed ecco ciò che ne ho ricavato. Ei sa benissimo, che un uomo d’onore non dee abusarsi della debolezza di un’onesta fanciulla. Conosce il proprio dovere, fa quella stima di lei che merita la vostra casa, e se voi gliela concedete, col mezzo mio ve la domanda in isposa.
Guglielmo. (Misero me! in qual impegno mi trovo!)
Leonardo. Me la domanda col mezzo vostro? (a Giacinta)
Giacinta. Sì, signore, col mezzo mio.
Leonardo. Non v’erano altri nel mondo, se non si prevaleva di voi?
Giacinta. Io sono quella che gli ha parlato. Sa il signor Guglielmo quel che gli ho detto. Le mie parole deggiono aver fatta impressione in un uomo d’onore, in un cuore onesto e civile; ed è ben giusto che io medesima compisca un’opera, che non può essere che applaudita.
Leonardo. Che dice il signor Guglielmo?
Guglielmo. (Ceda la passione al dovere). Sì, amico, se non isdegnate accordarmela, vi chiedo la sorella vostra in consorte.
Giacinta. (Ah! la sinderesi lo ha convinto).
Leonardo. Signore, questa sera vi darò la risposta. (a Guglielmo)
Giacinta. Che difficoltà avete voi di accordargliela presentemente?
Leonardo. È giusto ch’io parli con mia sorella.
Giacinta. Ella non può essere che contenta.
Leonardo. Andiamo, signora, ci aspettano per andare al passeggio. (a Giacinta)
Giacinta. Eccomi. Andiamo pure.
Leonardo. Vuol ch’io abbia l’onor di servirla?
Giacinta. Mi maraviglio di voi, che mi facciate di queste scene. C’è bisogno de’ complimenti? Se non mi date il braccio voi, chi me l’ha da dare?
Leonardo. Siete qui venuta senza di me...
Giacinta. E ora voglio ritornare a casa con voi. (lo prende pel braccio con forza) (Costa pene il dissimulare). (da sè, partendo)
Leonardo. (Ancora non sono quieto che basti). (parte con Giacinta)
Guglielmo. Chi ha mai veduto caso più stravagante e più doloroso del mio? (parte)
SCENA V.
Camera in casa di Filippo.
Filippo e Vittoria.
Vittoria. Favorisca, signor Filippo. Ho piacer di dirle due parole qui in questa camera, che nessuno ci senta.
Filippo. Sì, volentieri. Già io in sala ci sto come una statua. Giocano al faraone, ed io al faraone non gioco.
Vittoria. Fatemi grazia. Presentemente la signora Giacinta dov’è?
Filippo. Io non so dove sia. Io non le tengo dietro. Oh! sì, che in campagna si può tener dietro a voialtre fanciulle.
Vittoria. E il signor Guglielmo dov’è?
Filippo. Peggio. Volete ch’io sappia dove vanno tutti quelli che sono in casa da me?
Vittoria. Il punto sta, signore, che mancano tutti e due.
Filippo. E chi sono questi due?
Vittoria. Il signor Guglielmo e la signora Giacinta.
Filippo. E che importa questo? Uno sarà in un luogo2, e l’altra sarà nell’altro.
Vittoria. E se fossero insieme?
Filippo. Oh! in materia di questo poi, mia figlia non è una frasca.
Vittoria. Io non dico diversamente. Ma so bene che alla tavola, dove ora si gioca, non si fa che parlare di questa cosa, e vedendo che sono tutti e due spariti....
Filippo. Spariti?
Vittoria. Mancano tutti e due, e non si sa dove siano.
Filippo. Cospetto! cospetto! Cosa dice il signor Leonardo?
Vittoria. Mio fratello è andato in traccia di loro.
Filippo. Se scopro niente... Se me ne accorgo... Vo’ andare in questo momento... Ma ecco il signor Leonardo, sentiremo qualche cosa da lui.
SCENA VI.
Leonardo e detti.
Leonardo. Signor Filippo, mi fareste il piacere di permettermi che io scrivessi una lettera?
Filippo. Accomodatevi. Là vi è carta, penna e calamaio.
Vittoria. (Mi pare torbido. Vi dovrebbero essere delle novità).
Filippo. Ditemi un poco, signor Leonardo, sapete voi dove sia mia figliuola?
Leonardo. Sì, signore. (accomodandosi al tavolino)
Filippo. E dov’è?
Leonardo. Giù in sala. (come sopra)
Filippo. E dov’è stata finora?
Leonardo. Era andata a visitar la castalda, che la notte passata ha avuto un poco di febbre. (come sopra)
Filippo. E con chi è andata?
Leonardo. Sola.
Filippo. E andata sola?
Leonardo. Sì, signore.
Filippo. Non è andato il signor Guglielmo con lei?
Leonardo. E perchè il signor Guglielmo doveva andare con lei? Non può andar sola dalla castalda? E se aveva bisogno di compagnia, non c’era io da poterla servire?
Filippo. Sentite, signora Vittoria?
Vittoria. Avete pure sentito in sala cosa dicevano. So pure che anche voi eravate fuor di voi stesso. (a Leonardo)
Leonardo. Presto si pensa male, e con troppa facilità si giudica indegnamente. Sono stato io a rintracciarla. L’ho trovata sola dalla castalda, e l’ho servita a casa io medesimo. (Vuol il dovere che così si dica. Tutti non sarebbero persuasi del motivo che li faceva essere nel boschetto; intieramente non ne son nemmen io persuaso). (principiando a scrivere)
Filippo. Ha sentito, signora Vittoria? Mia figlia non è capace.
Vittoria. E il signor Guglielmo è tornato? (a Leonardo)
Leonardo. È tornato. (scrivendo)
Vittoria. E dov’era andato? (a Leonardo)
Leonardo. Non lo so. (come sopra)
Vittoria. Sarà stato a visitare il castaldo. (a Leonardo, ironica)
Leonardo. Prudenza, sorella, prudenza. (come sopra)
Vittoria. Io ne ho poca, ma non vorrei che voi ne aveste troppa. (a Leonardo)
Leonardo. Lasciatemi terminar questa lettera.
Vittoria. Scrivete a Livorno?
Leonardo. Scrivo dove mi pare. Signor Filippo, la supplico d’una grazia: favorisca mandar uno de’ suoi servitori a cercar il mio cameriere, e dirgli che venga subito qui, e se non mi trovasse più qui, che verso sera sia alla bottega del caffè, e che non manchi.
Filippo. Sì, signore, vi servo subito.(Signora Vittoria, pensi meglio di me, e della mia famiglia, e della mia casa. Basta! A buon intenditor poche parole). (parte)
SCENA VII.
Leonardo scrivendo, e Vittoria.
Leonardo. (Questa mi pare la miglior risoluzione ch’io possa prendere). (da sè, poi scrive)
Vittoria. Ditemi, signor fratello, siete voi contento della condotta della signora Giacinta?
Leonardo. Sì, signora. (scrivendo)
Vittoria. Le apparenze per altro non vi dovrebbero contentar molto.
Leonardo. Son contentissimo. (scrivendo)
Vittoria. E del signor Guglielmo?
Leonardo. Anche di lui. (scrivendo)
Vittoria. Vi par che si porti bene egli pure?
Leonardo. Il signor Guglielmo è un galantuomo, è un uomo d’onore. (scrivendo)
Vittoria. Eppure io so che da tutti...
Leonardo. Ma lasciatemi scrivere, tormentatrice perpetua. (sdegnato)
Vittoria. Lasciate ch’io dica una cosa, e poi vi levo il disturbo.
Leonardo. Che cosa volete dirmi? (scrivendo)
Vittoria. Non s’era egli spiegato d’aver dell’inclinazione per me?
Leonardo. Sì, signora. (scrivendo)
Vittoria. E come si può credere questa cosa?
Leonardo. Si può credere. (scrivendo)
Vittoria. Si può credere?
Leonardo. (Oh! sono pure annoiato). (scrivendo)
Vittoria. Ha fatto nessun passo con voi?
Leonardo. L’ha fatto. (come sopra)
Vittoria. L’ha fatto?
Leonardo. Sì, lasciatemi terminare. (come sopra)
Vittoria. E a me non si dice niente?
Leonardo. Vi parlerò, se mi lascierete finir questa lettera.
Vittoria. Sì, finitela pure. (Io non so che cosa m’abbia da credere. Potrebbe anche darsi che m’ingannassi, che fosse la gelosia che mi facesse travedere). Quando vi ha parlato il signor Guglielmo? (a Leonardo)
Leonardo. Acchetatevi una volta. Che vi si possa seccar la lingua. (Una lettera artifiziosa ha bisogno di essere studiata bene, e costei mi tormenta). (rilegge piano la lettera)
Vittoria. (Ardo, muoio di curiosità di sapere). (da sè)
Leonardo. (Sì, sì, così va bene. La cosa parerà naturale. Basta che sia bene eseguita). (da sè)
SCENA VIII.
Brigida e detti.
Brigida. Signori, hanno terminato di giocare. Vogliono andare a far due passi fino al caffè, e mandano a vedere se vogliono restar serviti.
Leonardo. Andiamo. (s’alza)
Vittoria. E non mi volete dir niente?
Leonardo. Vi parlerò questa sera.
Vittoria. Datemi un cenno di qualche cosa.
Leonardo. Questo non è nè il tempo, nè il luogo.
Vittoria. Ma io non posso resistere.
Leonardo. Ma voi siete la più inquieta donna del mondo. (parte)
SCENA IX.
Vittoria e Brigida.
Vittoria. Dite, Brigida. Dov’è stata oggi dopo pranzo la vostra padrona?
Brigida. Che vuol ch’io sappia? Non so niente io.
Vittoria. Come sta la castalda?
Brigida. La castalda? Io credo stia bene.
Vittoria. Non ha avuto la febbre la notte passata?
Brigida. Oh! la febbre. Se ha aiutato anch’ella in cucina per il pranzo d’oggi.
Vittoria. (Se lo dico! Tutti m’ingannano, tutti mi deridono, ma mi fa specie quello sciocco di mio fratello).
Brigida. Non va ella cogli altri al caffè?
Vittoria. Sono ritornati insieme il signor Guglielmo e la signora Giacinta?
Brigida. Oh! io non so niente. A me non si domandano di queste cose. La mia padrona è una signora onesta e civile, e se vi sono dei giovani poco di buono, non si può dar la colpa alle persone savie e dabbene. Se vuol andar, vada, se non vuole, io ho fatto il mio debito. (parte)
Vittoria. Tanto più mi mette in sospetto. Basta, da qui a sera c’è poco. Sentirò che cosa m’ha da dire Leonardo. Taccio, taccio; ma se mi fanno parlare, s’hanno da sentire di quelle cose che non si sono mai più sentite. (parte)
SCENA X.
Campagna con bottega di caffè e qualche casa. Due o tre panche per comodo di quelli che vanno al caffè, situate bene.
Tita e Beltrame, garzoni del caffè.
Beltrame. Tita, come stai d’appetito?
Tita. Oh! bene. Non veggio l’ora d’andar a cena.
Beltrame. Questa mattina dal signor Filippo ci credevamo di fare un gran pasto, e non c’era da cavarsi la fame.
Tita. Venivano via i piatti di tavola netti netti, che non c’erano appena l’ossa.
Beltrame. E di quel poco che è avanzato, che cosa ha toccato a noi?
Tita. Niente. S’hanno portato via tutto. Il castaldo, la castalda, la giardiniera, la lavandaia, i famigli, tutti hanno voluto la parte loro.
Beltrame. S’intende che ci abbiano fatto un regalo grande a farci la minestra a posta.
Tita. Ma che minestra! Pareva fatta nelle lavature de’ piatti.
Beltrame. Vino pessimo.
Tita. Di quello che si può dar da bere ai feriti.
Beltrame. Ci fosse stato almeno del pane.
Tita. Bisognava, chi voleva del pane, domandarlo per elemosina3.
Beltrame. Io mi sono attaccato ad un buon pezzo di manzo, che per verità era tenero come il latte.
Tita. Ed io ho adocchiato un cossame di cappone, a cui vi era per accidente un’ala intiera attaccata, e me l’ho pappolata in due colpi.
Beltrame. Non era cattivo quel pasticcio di maccheroni.
Tita. Mi sono anche piaciute quelle polpette.
Beltrame. L’arrosto, se fosse stato caldo, era di buona ragione.
Tita. Sì, era vitella di latte. Ne ho portato via un buon pezzo in una carta, per mangiarmelo questa sera.
Beltrame. Ed io mi ho portato via quattro pasticciotti ed un pezzo di parmigiano.
Tita. Oh! se fosse stato un pranzo, come dico io4, si poteva portar via un buon tovagliolo di roba.
Beltrame. E che non ci fossero stati tanti occhi d’intorno.
Tita. Basta dire, che se avanzava roba sui tondi, erano lì pronti i servitori di casa, per paura che ci ponessimo noi la roba in saccoccia.
Beltrame. Oh! io non sono di quelli che portano le saccoccia di pelle.
Tita. Io pure di queste viltà non ne faccio. Se ce n’è, mangio, se non ce n’è, buon viaggio.
Beltrame. Poco più, poco meno, pur che si viva.
Tita. Oh! ecco la compagnia; diamo luogo.
Beltrame. E la vecchia innanzi di tutti.
Tita. E come mangia quella vecchietta!
Beltrame. E il signor Ferdinando?
Tita. E il vostro caro signor Tognino?
Beltrame. Ma ehi! avete veduto come si portava bene con quella ragazza?
Tita. E come!
Beltrame. Se succede, vuol essere il gran bel matrimonio.
Tita. L’appetito e la fame. (parte)
Beltrame. Il bisogno e la necessità. (parte)
SCENA XI.
Vengono tutti accompagnati come segue:
Sabina e Ferdinando, Giacinta e Leonardo, Vittoria e Guglielmo, Rosina e Tognino, Costanza e Filippo.
Si pongono tutti a sedere. Un Garzone si presenta a domandar cosa vogliono, andando da tutti a uno per uno, e ciaschedun domanda al Garzone come segue.
Giacinta. Un caffè.
Leonardo. Un bicchier d’acqua pura.
Rosina. Un cedrato.
Tognino. Una cioccolata.
Vittoria. Un caffè senza zucchero.
Costanza. Una limonata.
Filippo. Dell’acqua con dell’agro di cedro.
Ferdinando. Un bicchier di rosolio.
Sabina. E a me portatemi una pappina.
Vittoria. (Sapete quel che mi dee dir mio fratello, e non mi volete far il piacere di dirmelo voi?) (a Guglielmo)
Guglielmo. (Perdonatemi; tocca a lui, ed io non mi ho da prendere questa libertà). (a Vittoria)
Vittoria. (Se mi voleste bene, sareste un poco più compiacente). (a Guglielmo)
Giacinta. (Tutto posso soffrire, ma vederlo cogli occhi miei, mi fa dar nelle smanie). (da sè, osservando Guglielmo)
Leonardo. (Che avete, signora Giacinta?)
Giacinta. A questa bottega non si può venire. Per un caffè ci fanno aspettare mezz’ora.
Leonardo. Ci vuol pazienza. Non avete sentito che siamo in dieci, e nessuno ha ordinato la stessa cosa?
Giacinta. Pazienza dunque. (Ne ho tanta della pazienza, che or ora non posso più). (da sè, fremendo)
Rosina. (Avete sentito? La principessa vuol essere servita subito). (a Tognino)
Tognino. (Oh! mi sono scordato di dire, che mi portino due ciambelle). (a Rosina)
Rosina. (Avete fame a quest’ora?) (a Tognino)
Tognino. (Sicuro. Non ho mica merendato). (a Rosina)
Filippo. (Non mi dite niente, signora Costanza?)
Costanza. (Che cosa volete ch’io dica?)
Filippo. (Raccontatemi qualche cosa. È vero che vostra nipote fa l’amore con quel babbeo di Tognino?)
Costanza. (Non so niente. Per dirvi la verità, a queste cose ci abbado e non ci abbado; finalmente non è mia figlia).
Sabina. (Mi pare che l’aria cominci ad essere un poco umida. Non vorrei raffreddarmi). (a Ferdinando)
Ferdinando. (Poverina! copritevi il capo. Non l’avete il cappuccietto?)
Sabina. (No, no, aspettate). (tira fuori di tasca un ombrellino) (Tenetemi quest’ombrellino). (a Ferdinando)
Ferdinando. (Oh, povero me!) (E ho da star qui mezz’ora con} quest’imbroglio?) (a Sabina)
Sabina. (Quando si vuol bene, niente incomoda, niente pesa). (a Ferdinando)
Ferdinando. (Dunque voi non mi volete bene). (a Sabina)
Sabina. (Perchè?) (a Ferdinando)
Ferdinando. (Perchè vi pesa farmi una miserabile donazione). (a Sabina)
Sabina. (Ancora mi tormentate?) (a Ferdinando)
Ferdinando. (O donazione, o vi pianto). (a Sabina)
Sabina. (Ingrato!) (piangendo, e si asciuga gli occhi. Vengono i garzoni a portare le cose ordinate, e sbagliano, e si confondono.)
Tognino. La cioccolata a me.
Rosina. A me il sorbetto.
Costanza. Ehi, limonata.
Sabina. La mia pappina.
Leonardo. Un bicchier d’acqua.
Vittoria. Il caffè!
Giacinta. Il caffè! (danno il caffè a Giacinta) Sciocchi! io non l’ho domandato senza lo zucchero.
Ferdinando. Si può avere questo rosolio?
Filippo. Quel giovane! La sapete anche voi la lezione? Lo sapete anche voi, ch’io ho da essere sempre l’ultimo? Se tutti si sono serviti, fatemi l’alto onore di darmi l’agro di cedro che vi ho domandato.
SCENA XII.
Paolino e detti.
Paolino. (Sì fa veder dal padrone.)
Leonardo. Ora vengo. (a Paolino, e s’alza) Scusatemi. Ho da dir qualche cosa al mio servitore. (a Giacinta, e si scosta)
Giacinta. Servitevi pure. (a Leonardo) (Pagherei non so quanto a poter sentire quel che dicono Guglielmo e Vittoria).
Ferdinando. Con permissione. (a Sabina, e s’alza)
Sabina. Dove andate? (a Ferdinando)
Ferdinando. Vengo subito. (va a sedere dov’era Leonardo)
Sabina. (Briccone! mi vuol bene, e mi fa centomila dispetti). (da sè)
Ferdinando. Oimè; non ne poteva più. (a Giacinta)
Giacinta. Mi maraviglio di voi, che abbiate ardire di corbellare mia zia. È vecchia, è semplice, ma è una donna civile. (a Ferdinando)
Ferdinando. Ma io, signora... (a Giacinta)
Giacinta. Tacete, che sarà meglio per voi.
Ferdinando. E così, signora Rosina, come vi divertite?
Rosina. Lasciatemi stare, che io non ho che fare con voi.
Ferdinando. (Ho capito. Qui non vi è da far bene). Eccomi qui con voi, la mia cara gioia. (siede presso Sabina)
Sabina. Meritereste ch’io non vi guardassi. Ma non ho cuore di farlo. (a Ferdinando)
Leonardo. (Sì, trovate qualcheduno che copi la lettera, o copiatela voi, e procurate di contraffare il carattere. Sigillatela, fate la soprascritta diretta a me; poi, quando siamo in casa del signor Filippo, sul punto di principiar la conversazione, venitemi a portar la lettera, come se da un uomo a posta mi fosse da Livorno spedita, e trovate un uomo che, instruito da voi, vaglia a sostener la finzione. Regolatevi poscia anche voi, secondo il contenuto della lettera stessa. Fate la cosa come va fatta, assicurandovi che estremamente mi preme. (a Paolino)
Paolino. Sarà puntualmente servita. (parte)
Giacinta. (La scena va troppo lunga, non la posso più tollerare: accordo e desidero che Guglielmo si determini a sposar Vittoria; ma non ho cuor di vederlo cogli occhi miei). (da sè, alzandosi)
Guglielmo. (Giacinta smania. E non sa forse in quali affanni io mi trovi). (da sè)
Leonardo. Eccomi qui. Vi veggo molto agitata. (a Giacinta)
Giacinta. Quest’aria assolutamente m’offende.
Leonardo. Andiamo a casa, se comandate.
Vittoria. Sì, andiamo, andiamo. (Non veggo l’ora di saper tutto. Questa faccia tosta non c’è caso che mi voglia dir niente), (s’alza, e tutti s’alzano.)
Sabina. Lasciatemi andar innanzi. Sapete ch’io sono sempre stata di vista corta. (Andiamo; non voglio che chi è avanti di noi, senta quello che noi diciamo). (a Ferdinando)
Ferdinando. (Sì, andiamo, che parleremo della donazione), (a Sabina)
Sabina. (Che tu sia maladetto!) (lo prende per mano con dispetto, e partono.)
Giacinta. Vadano pure, se vogliono.
Vittoria. No, no, servitevi. Seguitiamo l’ordine, come siamo venuti. (a Giacinta)
Leonardo. Andiamo, senza cerimonie. (dà mano a Giacinta)
Giacinta. (Oh cieli! mi par d’andar alla morte). (da sè, e parte con Leonardo.)
Vittoria. (Oh! io m’aspetto delle cattive nuove, signor Guglielmo).
Guglielmo. (E perchè, signora?)
Vittoria. (Vi veggo troppo melanconico).
Guglielmo. (Son così di temperamento). (parte con Vittoria)
Costanza. (Ehi! Rosina, cosa vi pare?)
Rosina. (Veggo di gran nuvoloni per aria). (Oh! caro il mio Tognino, andiamo). (parte con Tognino)
Costanza. Andiamo, signor Filippo?
Filippo. Sì, eccomi qui. Già si sa; sempre l’ultimo. (parte con Costanza)
SCENA XIII.
Sala in casa di Filippo, con lumiere ecc.
Brigida e Servitori.
Brigida. Presto, preparate i lumi. Li ho veduti venire dalle finestre, (i servitori preparano) (Mi confido che verrà anche Paolino. In questi sette o otto giorni che mancano a terminar la villeggiatura, spero di condur a fine l’affare mio. Oh! la sarebbe bella che in mezzo a tanti matrimoni il mio si facesse prima di tutti). Sentite, se viene Paolino, il cameriere del signor Leonardo, avvisatemi. (ad un servitore) Bisognerà ch’io stia qui a levar le mantiglie a tutte queste signore. Oh! eccole, eccole.
SCENA XIV.
Vengono i suddetti coll’ordine stesso, e Brigida leva la mantiglia alle donne, e i Servitori prendono i cappelli.
Sabina. Oimè! sono un poco stracchetta. (siede) Venite qui voi. (a Ferdinando)
Ferdinando. Eccomi, eccomi. (La cosa va lunga. Domani, o dentro o fuori). (siede presso di lei)
Giacinta. Se vogliono accomodarsi, qui ci son delle seggiole, (tutti siedono, e non vi resta da seder per Filippo.)
Filippo. E per me, non c’è da sedere?
Brigida. Io, io, signor padrone. (va a prender una sedia)
Filippo. Sì, una sedia anche a me per limosina.
Brigida. Eccola servita. (gli porta una sedia)
Filippo. (Oh! un altr’anno voglio essere padrone io in casa mia). (siede)
Vittoria. (s’alza) Signor fratello, una parola in grazia.
Leonardo. (Ho capito. La curiosità la tormenta). (s’alza)
Vittoria. E così, che cosa avete da dirmi? (in disparte)
Leonardo. (In due parole vi dico tutto. Il signor Guglielmo vi ha domandata in isposa).
Vittoria. (Davvero?) (guarda ridendo verso Guglielmo)
Guglielmo. (S’accorge di Vittoria, e si volge altrove per non vederla.)
Leonardo. (Onde tocca a voi a risolvere).
Vittoria. (Per me, quando siete contento voi, sono contentissima).
Leonardo. Favorisca, signor Guglielmo. (lo chiama)
Guglielmo. Eccomi. (Andiamo a sagrificarci).
Giacinta. (Mostra ansietà di sentire.)
Leonardo. (Mia sorella ha inteso con piacere la bontà che avete per lei, ed è pronta ad acconsentire).
Guglielmo. Benissimo.
Vittoria. Benissimo? Non sapete dir altro che benissimo?
Guglielmo. Signora, che cosa volete ch’io dica?
Vittoria. Io non so che naturale sia il vostro. Non si sa mai, se siate disgustato o se siate contento.
Guglielmo. Soffritemi come sono.
Vittoria. (Può essere, che quando è mio marito, si svegli).
Leonardo. Signor Filippo, signor Ferdinando, favoriscano in grazia una parola.
Filippo. Volentieri. (s’alza e s’avanza)
Ferdinando. Sono a’ vostri comandi. (s’alza e s’avanza)
Leonardo. Si compiacciano d’esser testimoni della vicendevole promissione di matrimonio fra il signor Guglielmo e Vittoria mia sorella.
Giacinta. (È fatta). (si getta a sedere con passione)
Filippo. Bravi!
Ferdinando. Me ne consolo infinitamente.
Sabina. (Vedete? Così si fa). (a Ferdinando)
Ferdinando. Donazione, e facciamolo. (a Sabina)
Sabina. Sia maladetta la donazione. (va a sedere)
Leonardo. Or ora si farà la scritta, e lor signori porranno in carta la loro testimonianza.
Filippo. Sì, signore.
Ferdinando. Se volete che vi serva io della scritta, ne ho fatte delle altre, in un momento vi servo.
Vittoria. Ci farete piacere.
Leonardo. Sì, fatela.
Ferdinando. Vado subito. (A queste nozze ci voglio essere ancor io). (parte)
Vittoria. E voi non dite niente, signore? (a Guglielmo)
Guglielmo. Approvo tutto. Che volete ch’io dica di più?
Vittoria. Pare che lo facciate più per forza, che per amore.
Guglielmo. Anzi lo faccio, perchè amore mi costringe a doverlo fare.
Vittoria. (Manco male. Ha confessato una volta che mi vuol bene). Via, andiamo a sedere. (a Guglielmo. Vanno tutti al loro posto.)
Costanza. Mi consolo, signora Vittoria.
Vittoria. Grazie.
Rosina. Mi consolo. (a Vittoria)
Vittoria. Obbligatissima.
Rosina. (Vedete? Essi l’hanno fatta). (a Tognino)
Tognino. (E noi la faremo). (ridendo, a Rosina)
SCENA XV.
Paolino e detti.
Paolino. Signore. (a Leonardo)
Leonardo. Cosa e’è?
Paolino. Un messo, spedito a posta da Livorno, ha portato per lei questa lettera di premura.
Leonardo. Vediamo che cosa è. Date qui. (s’alza, e apre la lettera) È il signor Fulgenzio che scrive. (verso Filippo)
Filippo. Sì, il nostro amicone. Che cosa dice?
Leonardo. Cospetto! Una novità che mi mette in agitazione. Sentite cosa mi scrive. Amico carissimo. Vi scrivo in fretta, e Vi spedisco un uomo a posta, per avvisarvi che vostro zio Bernardino per un male di petto in tre giorni si è ridotto agli estremi, e i medici gli danno poche ore di vita. Ha mandato a chiamare il notaro, onde pensate a’ casi vostri, perchè si tratta del vostro stato, ed io vi consiglio venire immediatamente a Livorno.
Filippo. Per bacco! Vi consiglio anch’io che non vi tratteniate un momento. Si dice che sarà padrone di cinquanta e più mille scudi.
Vittoria. Sì, certo, subito, subito. E ci vengo anch’io.
Leonardo. Mi dispiace dover abbandonare la compagnia.
Vittoria. A buon conto il signor Guglielmo verrà con noi.
Guglielmo. (Tutto si combina per mio malanno).
Giacinta. (Sì, sarà bene per me. Mi sento rodere, mi sento crepare. Ma una volta s’ha da finire).
Leonardo. Paolino, andate subito alla posta, e ordinate quattro cavalli, e fate preparare lo sterzo, che si anderà a Livorno con quello. Siamo in quattro, il signor Guglielmo, mia sorella, io e voi. Non ci è bisogno di far bauli.
Paolino. Sarà servita.
Brigida. (Paolino).
Paolino. (Figliuola mia).
Brigida. (Andate via?)
Paolino. (Sì, ma tornerò a pigliar la roba).
Brigida. (Per amor del cielo, non vi scordate di me).
Paolino. (Non c’è pericolo. Vi do parola). (parte)
Brigida.(Povera me! Sul più bello mi tocca a provare questo disgusto).
Filippo. Quando siete a Livorno, scrivete subito. Se tornate, vi aspettiamo qui. Quando no, verremo presto anche noi. (a Leonardo)
Vittoria. Non perdiamo tempo. Signora Giacinta, compatisca l’incomodo. Mi conservi la sua buona grazia, e a buon riverirla a Livorno.
Giacinta. Sì, vita mia, a buon rivederci. (si baciano)
Guglielmo. (Mi tremano le gambe, mi manca il fiato).
Leonardo. E non volete aspettare che si sottoscriva il contratto? (a Vittoria)
Vittoria. Ma sì, s’ha da sottoscrivere. Ehi! signor Ferdinando, ha finito? (forte alla scena)
SCENA ULTIMA.
Ferdinando e detti.
Ferdinando. Eccomi, eccomi. Che novità son queste? Andate via? Ci lasciate?
Vittoria. E terminata la scritta?
Ferdinando. Eccola terminata.
Guglielmo. Scusatemi. Non si può far a Livorno? Non è meglio farla stendere da un notaio?
Ferdinando. Ma se è già fatta.
Guglielmo. S’ha da leggere, s’ha da firmare. Signor Leonardo, vi consiglio non perder tempo. È meglio assai partir subito, e si farà la scritta a Livorno. Eccomi, io sono con voi. Io non mi distacco da voi.
Leonardo. Non dite male. Andiamo, si farà a Livorno.
Guglielmo. (Respiro un poco. Qualche cosa può nascere).
Leonardo. Signora Giacinta, venite presto, conservatemi il vostro affetto. (Le tocca la mano) Signor Filippo, addio. (lo bacia) Padroni tutti. Schiavo di lor signori. (A Livorno ci regoleremo diversamente). (parte)
Vittoria. Nuovamente, signora Giacinta. Padrone mie riverite. Signor Filippo. Padroni tutti. Andiamo. (prende per mano Guglielmo)
Costanza. Buon viaggio.
Rosina. Buon viaggio.
Sabina. Buon viaggio.
Guglielmo. Contentatevi. (a Vittoria, con un poco di sdegno) Signor Filippo, scusate, e vi ringrazio.
Filippo. Addio, a rivederci a Livorno.
Guglielmo. Signora Giacinta... perdoni... (confuso)
Giacinta. Buon viaggio. (Non posso più).
Vittoria. Che diavolo avete? Par che piangete. (a Guglielmo)
Guglielmo. Andiamo. (risoluto)
Vittoria. Così! Andiamo. (parte con Guglielmo)
Ferdinando. Signora Sabina.
Sabina. Che cosa volete?
Ferdinando. Tenga, che gliene faccio un presente.
Sabina. Cosa mi date?
Ferdinando. Una scritta di matrimonio.
Sabina. È per me forse?
Ferdinando. Veramente non è per lei. Perchè nella sua ci ha da essere la donazione.
Sabina. Orsù, questa è un’insolenza, e ne sono stufa. Avete avuto abbastanza, e vi dovreste contentare così. Ingrato, tigna, avaraccio. (parte)
Ferdinando. La vecchia è in collera. La donazione è in fumo, e la commedia per me è finita. (parte)
Costanza. Signora Giacinta, le vogliamo levar l’incomodo.
Giacinta. Vogliono andar via?
Filippo. Non vogliono far da noi la partita?
Costanza. Ho premura d’andar a casa.
Giacinta. S’accomodi, come comanda.
Costanza.(Andiamo, giacchè Tognino è disposto, non ce lo lasciamo scappare). (a Rosina)
Rosina. Serva umilissima. Compatisca. (a Giacinta, e parte)
Tognino. Servo suo. Compatisca. (a Giacinta, e parte)
Filippo. Andiamo, che vi voglio servire a casa. (a Costanza)
Costanza. Mi farà finezza. (Già di questo vecchio non ci prendiam soggezione). (parte)
Filippo. (Se non c’è altro, giocherò due partite a bazzica con quel baggiano). (parte)
Giacinta. Lode al cielo, son sola. Posso liberamente sfogare la mia passione, e confessando la mia debolezza... Signori miei gentilissimi, qui il poeta con tutto lo sforzo della fantasia aveva preparata una lunga disperazione, un combattimento di affetti, un misto d’eroismo e di tenerezza. Ho creduto bene di ommetterla per non attediarvi di più. Figuratevi qual esser puote una donna che sente gli stimoli dell’onore, ed è afflitta dalla più crudele passione. Immaginatevi sentirla a rimproverare se stessa per non aver custodito il cuore come doveva; indi a scusarsi coll’accidente, coll’occasione e colla sua diletta villeggiatura. La commedia non par finita; ma pure è finita, poichè l’argomento delle Avventure è completo. Se qualche cosa rimane a dilucidare, sarà forse materia di una terza commedia, che a suo tempo ci daremo l’onore di rappresentarvi, ringraziando per ora del benignissimo vostro compatimento alle due che vi abbiamo sinora rappresentato.
Fine della Commedia.