Le avventure della villeggiatura/Nota storica
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NOTA STORICA
Ecco Montenero. Scendono dalle carrozze Giacinta e Vittoria, servite da Leonardo e Guglielmo. Scende la zia Sabina aiutata dal fratello Filippo. Balza a terra, senza accettare la mano tesale da Ferdinando, l’agile servetta. L’agognata villeggiatura c’è; ma nessuna delle tre ragazze ha l’aria felice. Non Giacinta, fidanzatasi senza amore; non Vittoria che dalla compagnia dell’imbronciato Guglielmo attese invano il piacere sperato. Anche Brigida, poverina, alla «gloria strabocchevole» di viaggiare col cavalier del dente avrebbe preferito la conversazione di Paolo cameriere. Se in questo il padrone non potè contentarla (si dice non potè, perchè Filippo non sapeva volere) almeno non era dovuta andar per mare, in feluca, come prima egli aveva pensato.
Da Livorno a Montenero in feluca? si chiede stupito il Targioni-Tozzetti. Secondo il commediografo «per un piccolo tratto di strada avrebbero i villeggianti monteneresi dovuto spendere per far imbarcare e sbarcare i bagagli e le suppellettili dal navicello, per poi ricaricarli sopra un barroccio che li avrebbe trasportati sul monte!» (Targioni-Tozzetti, Carlo Goldoni a Livorno, MDCCCXCIX, p. 8; cfr. anche il saggio del T. T. in Villeggiature, ediz. Rasi, p. LXXXVII). Egli è che il Goldoni scriveva Livorno e Montenero, e dinanzi agli occhi gli stavano la sua Venezia e le rive della Brenta. Di quei luoghi, conclude il Targioni-Tozzetti, non aveva più ricordo esatto, o, meglio, non c’era mai stato. Ma vi furono pure scrittori ingenui e faciloni che presa l’ubicazione goldoniana per buona moneta, fecero dire al Nostro cose ch’egli mai si sognò di dire. Scrive Francesco Pera ne’ suoi Ricordi e biografie livornesi: «Forse in queste commedie non si trova solo il nome di Montenero e Livorno, ma credo che vi sieno anche i caratteri qui copiati dal vero; tra’ quali non doveva essere difficile al Molière italiano trovare fino da’ suoi tempi i colori più vivi a dipingere le ambiziose gare delle donne, e specialmente la spensieratezza, la prodigalità degli uomini» (Livorno, Vigo, MDCCCLXVII, p. 20). Peggio fece Ernesto Rossi. Soccorso dall’industre sua fantasia, il celebre tragico, critico e storiografo a ore perse, asserì che Carlo Goldoni, correndo l’anno 1745 o 1747, fu a Montenero, e, in compagnia della Medebac, vi abitò la Villa al Molino, affittata per lui dal marito benedicente; asserì pure che là egli compose le Smanie, la Donna vendicativa e lavorò intorno a Pamela nubile (Il Telegrafo, Livorno, 24 gennaio 1893). Perchè il Rossi, in vena di così piacevoli facezie, non aggiunse ancora, mettiamo, Gli innamorati, La moglie saggia. L’uomo prudente?... Gli rispose Giacomo Hamilton Cavalletti che la villa in questione sorse appena un secolo dopo (ibid., 30 genn.), e Americo Baldini, cultore di cose teatrali labroniche, si tolse la superflua pena di provargli come il Goldoni a Montenero, se mai vi fu, non compose nè quelle tre opere nè altre (ibidem, 31 genn.).
Giulio Piazza crede che «il motivo principale della satirica trilogia goldoniana, quello cioè dello squilibrio fra la spesa della villeggiatura e le condizioni economiche dei villeggianti, sia perduto un po’ di vista» in queste Avventure (Il Piccolo, Trieste, 2 febbr. 1911). Lo seconda lo Schmidbauer dicendo che queste «per la satira hanno minore importanza» (Das Komìsche bei G., München, 1906, p. 137). È giusto. Non che i piaceri della villa, descritti e chiosati con brio e arguzia, distolgano la mente dalle morbose smanie che li vollero e dagli effetti disastrosi che trarranno seco. L’intenzione critica resta sempre evidente. Qui però la villeggiatura è lo sfondo, dal quale si stacca un delicato episodio d’amore, che con interesse novo prende l’animo di chi legge o ascolta.
La commedia s’avvia con scene d’informazione e presentazione, affidate a una balda, anzi ribalda schiera di servitori. Senza eufemismi il Chatfield-Taylor definisce questi e i compagni loro della Moglie saggia e della Castalda «l’accolta più ladra e più insolente che mai abbia fatto ammattire in ogni tempo una padrona di casa» (Goldoni, a biography, New York, MDCDXII, p. 458). Si sparla dunque e si sciala a tutte spese de’ padroni. Alla brigata spendereccia delle Smanie s’aggiunse in campagna — c’informano — quella tal Costanza, moglie d’un bottegaio che, secondo la buona lingua di Ferdinando, per farsi l’abito nuovo vendette «due paia di lenzuola, una tovaglia di Fiandra e ventiquattro salviette» (Smanie, I 8). Ella ha con sè Rosina, sua nipote, non figlia, come con la solita disinvolta noncuranza delle cose minime dicono le Memorie (ediz. Mazzoni, II, p. 58). Rosina amoreggia con lo sciocco Tognino, figlio del medico condotto, altro scroccone che mangia, ma tra i personaggi non figura. Per la classe basta intanto Ferdinando. Lo Schmidbauer lo giudica un parasita con «un’impronta originale» (op. e luogo cit.). Scroccone anche in amore, egli accarezza, non senza qualche scatto di comica ribellione, il gruzzolo della vecchia Sabina. È questa la «donna attempata», cui nel pensiero dell’ingenuo Filippo spettava il compito di sorvegliare in villa Giacinta. Fulgenzio però, con presago animo, l’aveva ammonito che «vi sono delle vecchie più pazze assai delle giovani» (Smanie, II 9).
Il corredo artistico del Goldoni era ormai così ricco che gli bastava ideare nuove combinazioni di personaggi a lui già famigliari per creare situazioni nuove. In quante sue commedie non abbiamo incontrato il buon Filippo e il prudentissimo Fulgenzio, tutti e due nelle vesti di Pantalone, quando tenero dei figlioli sino alla più dannosa condiscendenza, quando savio regolatore della loro educazione e dispensiere d’auree massime al mondo corrotto, in cui vive! Quante Rosaure in traccia d’uno sposo qualunque e innumerevoli Florindi e Lelii a caccia d’una dote vistosa! Anche i parasiti del teatro goldoniano, che additano a questo Ferdinando la via, son molti (Cavaliere di buon gusto. Castalda, Femmine puntigliose, Apatista, Casa nova, Ricco insidiato, Vedova spiritosa) e non poche vecchiette ridicole vi trovi vogliose d’amore (Giocatore, Vero amico, Morbinose). Queste, il Momigliano definisce: «caricature che dan quasi sempre nello sciocco», (La comicità e l’ilarità del Goldoni, Giorn. stor. d.l. LXI, p. 25) ma a Sabina riconosce «una delicatezza relativa». Non pur figure amava ripetere il Goldoni: il che, data l’enorme soma della sua produzione, era inevitabile, ma si compiaceva di rinnovare intere scene, se ben riuscite. La prima dell’atto terzo tra Brigida e Paolino sui discorsi e gl’incidenti a tavola ricorda un’altra, in tutto simile, negli Innamorati (III, 1). L’ultima dell’atto primo ripete, modificata, la famosissima delle Smanie tra Vittoria e Giacinta. Questa volta Vittoria è alle prese con Costanza. Alla dispettosa gara assiste e aggiunge legna al fuoco Ferdinando. Son le «liti — scevera con l’ordinaria acutezza lo stesso Momigliano — di borghesi elevate che cominciano con un a parte velenoso, continuano con reticenze, mutan discorso, tornano al punto che le tormenta, fan come un temporale che brontola a lunghi intervalli, poi scoppia, e in fine colle loro parole sembrano schiaffeggiarsi mantenendo la posa dignitosa della persona — tanto meglio se c’è tra loro qualche ozioso che si diverte ad aizzarle» (studio cit., p. 18).
«Il n’y a presque rien de bien intéressant dans le premier acte» dicono le Memorie (ediz. cit., vol. Il, p. 59). Infatti: quadretti e discorsi destinati a lumeggiar l’ambiente, null’altro. Più tardi s’aggiungono ancora, ben animate, una grande scena di gioco, un’altra che raccoglie tutti i villeggianti al caffè, e di nuovo maldicenze e tresche di camerieri e cameriere. Ma qualcosa che con un filo pur esile legasse un episodio all’altro appariva necessario. Poichè il condimento dolce-amaro d’ogni piacere della villeggiatura — la tavola, il faraone, la corsa in vettura — era l’amore, ciò che tiene un po’ unite le disiecta membra è, senza uscir punto dal soggetto, un romanzetto sentimentale.
Nel breve intervallo che corre dalle Smanie alle Avventure Giacinta s’innamora. La cosa, naturalissima in ogni altra ragazza, in lei ci sorprende un poco. Non era parsa nella prima commedia fanciulla di teneri sensi, ma solo abile e fredda ragionatrice. Si fa sposa nient’altro che per uscir di soggezione. Tanto più caro sarebbe stato veder nascere questo miracoloso amore. Ma troppo vuole il critico pedante. Amore nasce ed è già grande e vola! L’adoperarsi ch’ella fa onde Guglielmo s’accompagni a loro in viaggio e in villeggiatura non è che un puntiglio per istuzzicare e castigare la gelosia di Leonardo? Così crede ella stessa e della nuova passione accagiona solo la convivenza. Ma forse nel desiderio di pungere si celava già allora — o imperscrutabile cuore di donna! — l’affetto nascente . . . Eppure a noi la Giacinta energica, scaltra, che sa e può ciò che vuole, è artisticamente più cara, perchè più viva, più spontanea. Aveva gran pratica Papà Goldoni nell’abbozzare simili figure femminili e ci godeva un mondo a crearle. Non che la nuova Giacinta manchi di grazia nel linguaggio e negli atteggiamenti. Il disegno di tutti e due gli innamorati tradisce finezza di tocco. Guglielmo appare davvero un Florindo che si stacca netto dai soliti, pur da quelli innamorati sul serio. E vi hanno scene d’amore, schizzate con delicatissimo pennello. Bellissima la prima (II 7) e bene avviata l’altra (III 3), se non che desinit in piscem . . . finisce troppo presto in una delle interminabili parlate di Giacinta.
Nello stendere la seconda commedia sembrò utile al Goldoni per il nuovo intreccio modificare il carattere di Giacinta. Con un po’ di sforzo si riesce a capire la repentina passione; si può giustificare ancora il sacrificio consigliato da scrupoli di coscienza e da un contratto legalmente steso, come allora usava. Meno s’intende però l’obbligo da lei fatto a Guglielmo di sposare Vittoria. È vero che i personaggi del Goldoni, presi dal tic dell’abnegazione, usano eccedere e già più d’una coppia male assortita tirò seco altre nel proprio inferno.
Della fortuna che a Giacinta, figura reale, sarebbe mancata nella vita, non le è avara la critica. In essa gli studiosi scorgono una nuova prova come il Goldoni sapesse penetrare nella psiche femminile ben più addentro della superficie. Giacinta apparterrebbe al buon ceppo dal quale derivano Mirandolina, Bettina, Eugenia, Zelinda. «Nella trilogia della Villeggiatura, — scrive un’incognita Donna Rosaura — c’è un personaggio femminile — Giacinta — frivolo, ostentato, vanitoso, eppure animato da un brivido di passione, non in forma di dolore, ma di malinconia, ciò che è più artistico, più fine, più difficile. Soltanto un profondo conoscitore d’anime può rendere le sfumature della figura di Giacinta che, fidanzata, sposa il suo promesso vincendo un amore più forte; ella compie un atto nobile pure avendo un cumulo di difetti e di miserie morali» (Mondo artistico, Milano, I marzo 1907). «Giacinta: anima tormentata e tormentosa; stupenda figura di donna moderna nella scena del settecento!» — esclama ammirando Adolfo Albertazzi — «Dal conflitto della ragione col cuore, della passione col dovere ella assorge mirabile di verità: or debole, con smarrimenti improvvisi, con pietà di sè, con abbandoni a fallaci speranze; or forte, con violente riprese di sè, con rimproveri acerbi a sè stessa, con intelligente dominio delle circostanze e dell’animo altrui; or triste, con voce di pianto; ora ironica fino al sarcasmo; orgogliosa nella debolezza; fiera nella forza e nella volontà; nervosa nell’ironia e nell’ambascia». Ma dispiace, aggiunge lo stesso critico, ch’ella nel discorsetto finale interrompa l’interessante analisi della propria psiche per non attediare i signori gentilissimi che l’ascoltano (Pel 2. centen. della nascita di C. G. Il Teatro Manzoni, Milano, 1907, p. 32). Non è raro il sostituirsi dell’attore al personaggio nel teatro del Nostro (cfr. la chiusa del sec. atto nei Rusteghi e altrove). Sono stonature poetiche osserva il De Gubernatis, e rivelano «il modo assai disinvolto con cui si lasciava trattare il buon pubblico veneziano del suo tempo» (Carlo Goldoni, Firenze, 1901, p. 269). Il Momigliano le qualifica «sciocchezze che tolgono l’illusione della realtà» (Le opere di C. G., ed. Momigliano, Napoli, 1914, p. 49 1 ). Ma Emma Boghen Conegliani nel caso di Giacinta spiega così la scappata del Goldoni:«Perchè il Goldoni non ci ha dato questa scena, questa lotta intima? Appunto perchè gli sarebbe voluto uno sforzo di fantasia, ed egli non voleva lavorar di fantasia, non voleva crear con isforzi esseri goffi e irreali che tali gli sarebbero riusciti, dacchè egli non li sentiva, non li intendeva. Gran saggezza fu questa di misurarsi senz’alzare i tacchi, come direbbe il Giusti, col suo soggetto, di non drappeggiarsi in paludamenti non adatti alla sua figura» (C. G. Nuova rass. di letterature moderne, Firenze, marzo 1907, p. 131). Quanto fervore di critica femminile intorno a questa sorella goldoniana! Raccogliamo ancora le buone considerazioni ch’essa ispira a Maria Merlato. «Quella pensosa e appassionata Giacinta che si sacrifica . . . per una malintesa idea del dovere» le sembra «una delle poche donne vive e sensibili del teatro goldoniano . . . Noi assistiamo in lei alla tortura d’un’anima che si costringe a una rinunzia dolorosa; ma mai, nelle sue inquietudini febbrili, nei suoi brevi soliloqui disperati, ci appare il fantasma di ciò che sarà. A Giacinta duole di rinunziare a Guglielmo: ma ella non ci rivela mai il timore che il sacrifizio sia superiore alle sue forze, che quel giovane possa essere per lei indimenticabile. Ella compie il sacrificio con un intimo spasimo, ma con una qual tranquilla serenità, come se avesse la certezza che la lontananza e il sentimento del dovere saranno sufficienti a farle dimenticare Guglielmo» (Mariti e cavalier serventi nelle commedie del G., Firenze, 1906, p. 18).
Vedremo, dopo il Ritorno, se il Chatfield-Taylor sia nel vero ritenendo questa seconda parte la meno significativa delle tre. Ci sembra abbia coscienza di ciò lo stesso autore. Il quale, se nelle Memorie giudica di scarso interesse l’atto primo, nella Premessa s’ingegna di scorgere in tutto il lavoro l’unità d’azione che non ha. «Quando il titolo collettivo abbraccia più persone, l’unità stessa si trova nella molteplicità delle azioni». E reca più esempi dal suo teatro. Ma le smanie della villeggiatura e i grattacapi del ritorno riempiono assai bene di sè la prima e la terza. Al Teatro comico dà sicura unità la tesi. Nella Bottega del caffè Don Marzio, personaggio episodico, per la forte drammaticità sua, si sovrappone a tutti e tutto par lumeggiare solo quella stupenda figura. Così la commedia d’ambiente si trasforma in commedia di carattere. Nei Pettegolezzi non è chi non veda come le chiacchiere sulla Checchina reggano senza sforzo tutto l’intreccio. Le Avventure invece si compongono di singoli quadri, abbozzati sopra un unico sfondo sì, ma senza intima fusione. L’episodio più consistente: gli amori di Giacinta e Guglielmo (di che nulla si sente al primo atto), non attira nella sua orbita che scarsamente quel mondo vano e pettegolo.
Voleva l’autore con questa commedia «criticare la pazza prodigalità e i pericoli d’una libertà senza limiti» (Memorie, ediz. cit., vol. II, p. 58). Ma «non si allarmi il lettore» avverte il Rabany (op. cit. p. 376) «la pittura non ha nulla di licenzioso; non si tratta che del mutamento avvenuto nel cuore d’una fanciulla che ama il fidanzato della sua amica, n’ha la confessione del suo amore, ma senza cedervi. Veramente i pericoli non erano per Giacinta soltanto. Nella suggestiva intimità delle carrozze e delle mense, nel discreto raccoglimento dei boschetti nascono e maturano ben cinque idilli. Tant’è vero che un moralista dei nostri giorni, pesati sulla bilancia di Pietro Schedoni amori dissipazione e maldicenza, mette questa tra le commedie «poco buone in tutto o in parte» (Rivista di letture, 15 maggio 1914).
Nell’Introduzione già citata (v. Nota alle Smanie, pp. 88, 89) le Avventure s’annunciano con questi versi:
«La seconda Commedia ha per assunto
Le avventure mostrar della campagna,
E toccherà principalmente il punto
Che chi sfugge i perigli assai guadagna.
Senza il tempo e il danar mirar consunto,
In città si sta bene e si sparagna.
Ed è un diletto che consola appieno,
Il Teatro veder brillante e pieno.
Ma quando è giunta la stagion fatale
Addio gente, addio mondo, addio commedie.
Di gondole scarseggia il Gran Canale,
E s’impiegan burchiei, cavalli e sedie.
Chi per disgrazia a villeggiar non vale,
Par che di tutto e anche di noi s’attedie.
Ite, giacchè al partir s’affretta il giorno.
Aggradite il buon viaggio e il buon ritorno».
Smanie e Avventure furono recitate entro l’ottobre dell’anno comico 1761-1762, come apparisce chiaro dall’Elenco del Teatro di S. Luca (posseduto da Aldo Ravà) e dalla Gazzetta Veneta del Chiari. Il quale nel numero del 28 ottobre 1761 scrive: «Madama la Gazzetta è stata per qualche tempo alla campagna, nè può render conto di vista della nuova commedia presentata al pubblico dal Sig. Dott. Goldoni nel Teatro di San Luca la settimana passata. Vero è che ne ha sentito dire del bene e lo crede con tutta ragione; ma sulla semplice relazione altrui non giudica d’averne a parlar d’avvantaggio. Anche in questa Commedia l’Autore ha presa di mira la Villeggiatura, come nella precedente, esaminandola e criticandola in aspetto diverso. Si dice che ne abbia una terza sullo stesso argomento». Per recite posteriori si vedano le notizie contenute nella Nota alle Smanie (pp. 93, 94). Giacinto Gallina, direttore nella Compagnia Comica Goldoniana, pensò ad eseguire tutta la trilogia. In una sua lettera del 23 gennaio 1891 a Eugenio Tibaldi si legge: «piacendo le quali [le Smanie], si farebbero i due seguiti» (Cronache Teatrali, Roma, 5 marzo 1901, p. 228). Non consta che il simpatico progetto si sia realizzato.
Non conosciamo traduzioni o riduzioni di questa commedia. Fu ristampata tre volte nella nota Scelta del Baudry (Commedie scelte di C. G., Paris 1844, 1855, 1875); le scene II - III dell’atto primo vennero accolte nella sua dal Momigliano (volume cit., pp. 93-96) con questa nota: «Sono scene che contribuiscono a dipingere il rovinoso e cieco dispendio dei protagonisti della trilogia sulla villeggiatura, e rappresentano benissimo l’allegro e volgare mondo dei servi che tagliano i panni e rodono le costole ai padroni. Nessuno può lumeggiar più vivamente di costoro tutta quella compagnia».
E. M.
Le Avventure della villeggiatura furono stampate la prima volta nel t. XI dell’edizione Pasquali di Venezia, sulla fine dell’anno 1773; e furono poi ristampate, sempre di seguito alle Smanie per la villeggiatura, a Torino (Guibert e Orgeas XIV, 1774), a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino, 1775), a Venezia (Savioli e Pitteri XV, 1780; Zatta, cl. I, t. II, 1789; Garbo III, 1794), a Livorno (Masi XI, 1789), a Lucca (Bonsignori XVII, 1789) e forse altrove nel Settecento. — La presente ristampa fu compiuta principalmente sul testo fedele dell’edizione Pasquali. Valgono le solite avvertenze.