Le Troadi/Primo episodio

Primo episodio

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Parodo Primo stasimo

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corifea
Dalle schiere ecco giunge dei Dànai
un araldo, di nuovi messaggi
dispensiere, che l’orme sollecita
dei rapidi piedi.
Che reca? Che dice? Noi schiave
siamo già della dorica terra.
Giunge Taltibio.
taltibio
Ecuba, sai che spesse volte a Troia
dell’esercito achivo araldo io venni.
Taltibio sono, a te già noto, o donna,
ed un pubblico a te placito reco.
ecuba
Ecco, dilette Troiane
ciò che da tempo io temevo.

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taltibio
Se temevi le sorti, esse fûr tratte.
ecuba
Ahi, di Tessaglia quale città
quale di Ftia
dicesti, o della terra di Cadmo?
taltibio
Foste a varii assegnate, una a ciascuno.
ecuba
Quale a ciascuno toccò? Quale attendere
può delle donne di Troia prospera sorte?
taltibio
Lo so; ma d’esse chiedi una alla volta.
ecuba
Dimmi, a chi dunque toccò
la mia povera Cassandra?
taltibio
Agamènnone, il re, per sé la scelse.

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ecuba
Serva alla donna di Sparta ella dunque sarà?
Ahimè ahimè!
taltibio
No, ma segreta sposa del suo talamo.
ecuba
Di Febo la vergine, a cui diede il Dio chioma d’oro
che vivere immune da nozze potesse?
taltibio
L’innamorò la vergine fatidica.
ecuba
Gitta, o figlia, le chiavi tue sante,
dalle membra il velame disciogli dell’infule sacre.
taltibio
Gran cosa è pur salire un regio talamo!
ecuba
E la figliuola che or ora m’avete rapita, dov’è?

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taltibio
Di Polissena vuoi dire? O di chi?
ecuba
Di Polissena. Con chi la stringeva la sorte?
taltibio
Scelta ministra fu d’Achille al tumulo.
ecuba
Ahimè! Perché fossi a una tomba
ministra, io t’ho dunque concetta?
Ma quale costume, qual rito,
amico, è mai questo per gli Elleni?
taltibio
La figlia tua chiama beata: ha pace.
ecuba
Quali parole son queste? Vede ancora la luce del sole?
taltibio
Tal sorte ebbe, che piú mali non soffre.

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ecuba
E quale ebbe sorte la sposa
d’Ettore, il bronzeo guerriero,
la misera Andromaca?
taltibio
L’ebbe il figlio d’Achille: anch’essa scelta.
ecuba
E a chi sarò serva io, ch’ho d’uopo
del bastone, che sia terzo puntello
al vecchio mio corpo?
taltibio
Ulisse t’ebbe in sorte, il signor d’Itaca.
ecuba
Ahimè ahimè!
Lacera il raso tuo capo,
strappa entrambe le guance con l’unghia.
Ahimè ahimè!
Voluta la sorte m’ha schiava
d’un uom sozzo, maestro di frode,
nemico a giustizia,
d’una belva che legge non ha,
che le cose di lí, qui travisa,
di lí quelle di qui,

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ch’ha duplice lingua,
che semina l’odio
dov’era amicizia.
Compiangetemi, o donne di Troia.
Io sono infelice,
perduta son, misera me:
ch’io m’ebbi fra tutte
la sorte piú infesta.
corifea
Regina, il tuo signor tu sai. Ma quale
fra gli Elleni o gli Achivi il mio sarà?
taltibio
Orsú, famigli, quanto prima è d’uopo
che rechi alcuno qui Cassandra, ed io
al duce nostro la consegni, e poi
le prigioniere scelte agli altri adduca. —
Oh, qual bagliore entro la tenda brilla
di fiaccole? Che mai fan le Troiane?
Ardono forse gli aditi? In procinto
d’esser condotte dalla patria ad Argo,
dando alle fiamme il proprio corpo, vogliono
morire? Certo, in tali eventi, un libero
cuor, le sue pene mal sopporta. — Apri apri,
ché questo evento a voi grato, ma infesto
per gli Achei, me gittar non debba in colpa.
ecuba
Un incendio non è: la figlia mia
Cassandra, è: verso noi corre delira.

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Entra in folle danza Cassandra, vestita da sacerdotessa.
Delira, e squassa una fiaccola.

cassandra
Largo, fate ala!
Io porto la fiaccola, io celebro, inondo di luce,
vedete vedete,
con questa mia lampada il tempio.
Osire Imenèo,
beato lo sposo,
me beata che a talamo regio,
che in Argo andrò sposa.
Imèn, o Signore Imenèo!
Perché mai, tutta in lagrime, o madre,
tutta in ululi, il padre defunto
stai gemendo, e la patria diletta?
lo stessa, per queste mie nozze
brillar fo le vampe del fuoco
in raggio, in fulgore
facendo per te,
Imenèo, per te, Ècate, il fuoco
brillare che a nozze virginee s’addice.

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Antistrofe.
Lancia nell’ètere il piede sublime, sii guida, sii guida alla danza
evoè evoè!,
come già per gli eventi che prosperi
piú al padre seguirono.
Sacro è questo coro.
Nel tuo tempio, fra i lauri, conducilo,
o Febo, a onorarmi, tu stesso,
Imen o Imene.
Danza, o madre, su, volgi il tuo passo
carolando, e dei pie’ la cadenza
alla nostra, o diletta, accompagna.
Gridate Imenèo, con beate
canzoni, acclamate, con grida
di gioia, la sposa.
O Frigie fanciulle
dalle fulgide vesti, esaltate
lo sposo che il fato concesse al mio talamo.

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coro
Frena, Ecuba, la tua figlia delira
ché a pronti balzi al campo acheo non giunga!
ecuba
Tu la fiaccola, Efesto in queste nozze
reggi; ma troppo amara è questa luce
che fai brillar, dalla speranza grande
troppo diversa. Ahi, figlia mia, creduto
mai non avrei che delle spade all’ombra
e delle lancie achèe simili nozze
celebrare dovrei. Dammi la fiaccola,
ché, delira correndo, obliqua tu
la reggi, o figlia; e la sventura il senno
reso non t’ha, ma quale fosti or sei.
Riportate le faci entro la tenda,
donne di Troia, e ai cantici di nozze
rispondan di costei le nostre lagrime.
cassandra
La fronte mia vittorïosa cingi
d’una ghirlanda, o madre, e per le mie

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regie nozze t’allegra, e siimi guida,
e se ti par che poco io sia sollecita,
spingimi a forza. Ché se Febo esiste,
il re d’Acaia, il celebre Agamènnone,
sposa m’avrà piú d’Elena funesta,
ché morte a lui darò, saccheggerò
la sua casa, a mia volta, a far vendetta
dei fratelli e del padre. Altre sozzure
dire non vo’. Non canterò la scure
che taglierà la mia gola e l’altrui,
e i matricidi agoni a cui principio
le mie nozze daranno, e la rovina
della casa d’Atreo. Ma vo’ provare
che la nostra città piú fortunata
è degli Achivi. Invasa io son del Nume;
ma tuttavia, desisterò, per farlo,
dal furor mio. Per una donna sola
e per un solo amor, quelli per Elena
rïaver, mille e mille alme perdettero.
E il duce lor, che proclamato è saggio,
quanto piú caro avea, perdé, per quanto
era piú infesto: della casa il gaudio,
la figlia sua, diede al fratello, a causa
della sua sposa, che rapita fu
di suo buon grado, e non a forza. E quando
dello Scamandro su le rive giunsero,
morirono, non già perché minaccia
fosse ai confini della terra o agli altri
recinti della patria. E quei che caddero,
non li videro i figli, e dalla mano
della sposa non fûr nei pepli funebri
composti, e in terra straniera giacciono.
E nella patria loro, altro avveniva:

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morian le donne vedove, di figli
orbi i parenti, che nutriti i pargoli
avean per altri, e sulle tombe loro
nessuno verserà sangue di vittime.
L’elogio è tal che merita l’esercito.
Meglio tacere è poi le turpitudini:
né la mia Musa cantatrice tale
divenga mai, che le sozzure memori.
Ed i Troiani, invece, pria morirono,
fulgida gloria, per la patria; e quelli
che la lancia abbatteva, addotti spenti
alle lor case dagli amici, involucri
nel patrio suolo ebber di terra, e il tumulo
estrusse allor chi lo voleva. E quanti
morîr dei Frigi nella pugna, in casa,
giorno per giorno, con le spose e i figli,
gioia agli Achivi sconosciuta, vissero.
Ed il destino d’Ettore, che lugubre
ti sembra, odi qual fu. Morí, poi ch’ebbe
fama d’eroe conquisa; e ciò gli fecero
gli Achei, venendo a Troia: ov’essi fossero
restati in patria, il suo valor sarebbe
rimasto ignoto. E Paride, la figlia
sposò di Giove: senza quelle nozze,
del parentado niun parlato avrebbe.
coro
Come dei mali tuoi soavemente
ridi, ed intoni cantici, che certo
il tuo stesso cantar falsi dimostra.

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taltibio
Se te demente non rendesse Apollo,
impunemente ai duci miei congedo
dare da Troia con sí tristi auguri,
tu non potresti. No, chi saggio e accorto
sembra, non val piú di chi nulla vale.
Il supremo signor di tutti gli Èlleni,
il figliuolo ad Atrèo caro, l’amore
prescelto s’addossò di questa Mènade.
Poverello sono io; ma non l’avrei
voluta sposa. E a te, che il senno a posto
non hai, perdóno i biasimi agli Achivi,
gli encomî ai Frigi; e i venti li disperdano.
Seguimi, del mio duce o sposa bella,
verso le navi. E tu, quando comandi
di Laerte il figliuol, dovrai seguirlo:
serva sarai d’una donna pudica,
a quanto dicon quei che ad Ilio vennero.
cassandra
Che cianciatore è questo servo! Il nome
perché dànno d’araldi a questi famuli
e di tiranni, e di città, che l’odio
son degli uomini tutti? Andrà, tu dici,
serva mia madre alla casa d’Ulisse?
E dove son gli oracoli d’Apollo,
espressi a me, che qui morta sarebbe?
Taccio l’altre ignominie. O sciagurato,
egli non sa che pene ancor l’attendono!
Oro, al confronto, gli parranno i mali
dei Frigi, i miei: ché dieci anni, oltre quelli

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trascorsi qui, passare ancor dovranno,
pria che soletto alla sua patria giunga:
non sa lo stretto ove abita Cariddi,
fra le rupi tremenda, e non l’alpestre
d’umane carni vorator Ciclope,
né la ligura Circe, onde sembianza
l’uomo assume di ciacco, e non le navi
frante tra i flutti, né il desio del loto,
né i buoi sacri del Sole, onde le carni
emetteranno un dí voce che amara
suoni ad Ulisse. E ad esser breve, all’Ade
scenderà vivo, e, al pelago sfuggito,
in casa troverà mali infiniti.

Ma perché contro il destino d’Odisseo scaglio i miei dardi?
A uno sposo nell’Averno devo unirmi: or non si tardi.
Sull’esequie tue, che tristo sei, che insigne sembri, o duce
degli Achei sommo, saranno tristi tenebre, e non luce.
Il mio corpo, giú scagliato nei burroni dove piomba
dei torrenti l’acqua, ignudo, del mio sposo sulla tomba,
pasceran le fiere: e famula fui d’Apollo. O dell’Iddio
caro a me su tutti, bende, delle feste infule, addio.
lo le sagre ove incedevo già superba, ecco, abbandono:
da me lungi ite, vi lacero, sinché pura ancora io sono:
alle brezze, che le sperdano, Dio profeta, io le consegno.
In qual nave ho da salire? Del signore dov’è il legno?
Se propizio il vento spira, non tardare, ed apri i lini;
con me tu da questa terra una adduci dell’Eríni.
Madre, salve: e tu non piangere. E tu, padre, e voi, germani
già sepolti, lungo tempo non saremo ancor lontani:
tra i defunti, coronata di vittoria, io verrò presto:
ché il lignaggio avrò distrutto degli Achivi a noi funesto.
Esce con Taltibio e le guardie. Ecuba piomba al suolo.

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coro
Vedete, o dell’antica Ecuba ancelle,
come piombata senza voce al suolo
è la regina vostra? Or soccorretela.
O patirete che una vecchia resti
cosí prostrata, o tristi? Sollevatela.
ecuba
Qui dove io caddi, poiché il grato ufficio
grato non m’è, lasciatemi ch’io giaccia,
o fanciulle: giacer s’addice a ciò
che soffro, che soffersi, e soffrirò.
O Numi invoco in voi tristi alleati,
lo so, ma pure è qualche illusione
i Celesti invocar, quando ci coglie
la mala sorte io voglio adesso il bene
che un tempo ebbi, cantar: pietà maggiore
cosí le mie sciagure ispireranno.
Regina fui, d’un re sposa; e da lui
ottimi figli m’ebbi; e non il numero
m’è vanto inane: i primi eran tra i Frigi.
Nessuna donna di Troia né d’Ellade,
né barbara, menar vanto potrebbe
d’averne tali procreati, e tutti
cader li vidi sotto l’aste d’Ellade,
e su le tombe i lor crini recisi,
e quei che vita in loro infuse, Priamo,
non per udita altrui morto lo piansi,
ma sopra l’ara del recinto io stessa
immolare con questi occhi l’ho visto,

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e la città cadere. E le mie figlie
io le crebbi a prescelto onor di sposi,
ma per altri le crebbi; e dalle mani
mi furono strappate; e non ho speme
ch’esse mai piú mi veggano, né ch’io
piú vegga loro. E, culmine di mali
ultimo, schiava andrò, già vecchia, in Ellade.
E le bisogne che meno convengono
alla vecchiaia, a me quelle imporranno:
o rimanere a guardia, io madre d’Ettore,
delle porte ai serrami, o fare il pane,
e al rugoso mio dorso aver giaciglio
la nuda terra, e letti ebbi regali,
e vesti sopra le consunte membra
indossare consunte, e disdicevoli
a chi visse già ricco. Ahi, me tapina,
quante sventure, a causa d’una infida
sposa, già m’ebbi, e quante ancor n’avrò!
O figlia mia, partecipe dell’estro
divin, Cassandra, e tu, per che sciagure
la purità perdesti! E dove sei
tu, Polissena misera? Ahi, né figlio
mi soccorre, né figlia; e tanti n’ebbi,
povera me. Perché mi sollevate
dunque? Per che speranza? Il pie’ che a Troia
incedeva superbo, ora guidate
ove giaciglio avrò di terra, e sassi
per origliere, ch’io vi cada, e muoia,
di lagrime distrutta. Oh, non crediate
felice, innanzi che sia morto, alcuno.
Si accascia di nuovo al suolo.