Le Selve/Note alla selva Baliatico
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BALIATICO.
Il Poeta, celebrando le lodi della poesia e dei poeti, rende il convenevole tributo di riconoscenza alla Musa inspiratrice. Nella Panatenaica di Elio Aristide da Smirne è detto: “È antica legge ai Greci, e credo anche a molte altre nazioni, che si rendano a chi ci nutrí le maggiori grazie possibili.
Pag. 154, v. 15 sgg.
Caieta, nutrice di Enea; feste lupercali rinnovate in Roma da Romolo in onore della lupa, sua balia; le Jadi, nutrici di Bacco, fatte costellazioni in fronte al toro; la capra amaltèa nutrice di Giove, assunta anch’essa in cielo come costellazione.
Pag. 164, v. 206.
* Orfeo, tipo di tutto questo periodo d’incivilimento sociale.
Pag. 165, v. 222 sgg.
* Proposto il soggetto, traccia in questi versi la distribuzione alla materia di tutta la Selva, che ha due parti: generale l’una e breve, che direbbesi estetica e dichiara l’essenza e le fonti della poesia (vv. 233-311); particolare e la maggiore del poemetto, l’altra, che con acconce divisioni ritesse storicamente la schiera di tutti i poeti (vv. 313-1137), finché l’ultima e piú verde fronda d’alloro scenda sul capo diletto del mecenate mediceo (v. 1138, alla fine).
Pag. 166, v. 241.
Armonia universale, secondo Platone, Pitagora ed altri filosofi dell’antichità.
Pag. 167, v. 257 sgg.
Descrive in tutte le sue fasi, fino al punto in cui erompe, l’entusiasmo poetico.
Pag. 168, v. 273 sgg.
Con bellissima perifrasi accenna all’organo.
Pag. 170, v. 303 sgg.
Amplificazione del concetto espresso nell’Ambra (22-27) sulla virtú della poesia negli animi.
Pag. 170, v. 312 sgg.
Vati primitivi: Nerèo, veritiero e ingenuo; Prometeo che ammoniva il Satiro, il quale, vedendo per la prima volta il fuoco, voleva baciarlo: “Bada, ti brucerai la barba, becco!„; Temide, che ebbe tempio e oracolo nel Parnasso; Giove, sotto le spoglie di un ariete col nome di Ammone; Pane, vaticinante nel monte Menalo; Branco, pastore, il quale vuolsi ricevesse il dono del vaticinio per un bacio dato ad Apollo; Fauno, re e Dio del Lazio che dava responsi ne’ boschi d’Albunea; le Parche; le Sibille; i fratelli Marsi; Baci di Beozia; Oleno, antichissimo innografo greco; Lica, spartano, che, interpretando un oracolo, ritrovò le ossa di Oreste, senzachéFonte/commento: norm. i suoi corregionali non potevano vincere i Tegeati; le due colombe nere, venute d’Egitto, che con linguaggio umano prescrissero la istituzione di due oracoli, in Dodona e in Libia; Proteo, Dio marino e celebre indovino, dotato della facoltà di assumere ogni forma; Glauco, anch’egli Dio marino e vaticinatore; Idmone, figlio di Apollo; Mopso, figlio di Ampico, divinatori entrambi e argonauti; Melampo, interprete del linguaggio degli uccelli; Tiresia, uno de’ piú celebri indovini dell’antichità, il quale, chiamato giudice in una contesa tra Giove e Giunone, ed essendosi pronunciato contro la Dea, fu da questa accecato, ricevendo da Giove, in compenso, il dono della profezia; secondo altri, privato della vista per aver veduto Minerva nel bagno e donato del lume della mente per le preci di Cariclea; Amfiarao, tradito dalla moglie, e destinato ad essere inghiottito dalla terra nella guerra tebana; Polide, medico e indovino, che richiamò in vita Glauco per mezzo d’un’erba miracolosa; Calcante, figlio di Testore, sacerdote e augure de’ Greci in Troia; Zoroastro, astronomo incenerito per suo volere dal fulmine, che prescrisse agli Assiri di custodire gelosamente le sue ceneri se avevano caro di conservare il loro Stato.
Viene quindi ad enumerare i profeti della stirpe giudaica: Davide, uccisore del gigante Golia; Salomone, che innalzò il famoso tempio di Gerusalemme e compose il Cantico de’ Cantici; Mosé, autore dell’inno che levarono a Dio gli Ebrei dopo traversato il Mar Rosso, e raggiante poscia dalla faccia divino splendore; Re Davide, sopraddetto, autore de’ salmi; i tre babilonesi gettati nella fornace ardente da Nabuccodonosor e cantanti le lodi al Signore.
Pag. 176, v. 414.
* Grafia da destra a sinistra, continuata; o da sinistra a destra, e poi da destra a sinistra imitando l’arare: exarare literis.
Pag. 176, v. 415 sgg.
Il paganesimo popolò il mondo di divinità, informandone la poesia.
* Poesia primitiva de’ Greci, ispirata al culto degli Dei e all’origine delle cose e ai fenomeni naturali. Uffici e forme di quell’antica poesia fino a Omero; semplici canti accompagnati da melodie costanti e uguali; gl’incantesimi fatti co’ carmi alle ferite e alle malattie; gl’inni nelle cerimonie sacre; le magie. Tipi della poesia primitiva: Anfione (ammaestrato nella lira da Mercurio) e Orfeo (Mito, virtú della sua poesia, discesa all’inferno per Euridice, strazio per mano delle donne traci; assunzione in cielo della sua lira; prodigio attribuito al suo simulacro presso Libetra al cominciare della spedizione d’Alessandro.
Pag. 182, v. 522.
Il poeta Arione.
Pag. 182, v. 527 sgg.
* I suoi amori con Giacinto dànno a lui (ciò che, secondo altri, deve dirsi di Orfeo) la turpe fama di aver primo incominciata la Venere maschile (Apollodoro). Delle piú antiche tenzoni, con premio, si nomina quella degl’inni in onor d’Apollo: e primo a vincere cantando fu Crisotemi cretese, dopo lui Filammone, e dopo questo il figliuol suo Tamiri.
Pag. 184, v. 557 sgg.
Esiodo e Teocrito; il primo nato in Ascra, dove pare che il padre suo emigrasse spintovi dalla miseria; il secondo di Siracusa, discepolo di Fileta, il piú rinomato degli antichi bucolici. La critica moderna attribuisce ad Esiodo delle sedici epopee ascrittegli dalla tradizione solo il poemetto: Le Opere e i Giorni, scartando anche la Teogonia e lo Scudo d’Eracle. Intorno a Teocrito ha un lungo e pregevole studio critico-bibliografico Antonio Cipollini in Gli Idilli di Teocrito Siracusano; Hoepli, Milano, 1887.
Pag. 184, v. 560 sgg.
* Accenna alle impotenti censure mosse contro Virgilio dai malevoli, confutati, dicesi, da Asconio Pediano. E in proposito di costoro rammenta la malignità di Momo, il quale, non sapendo che appuntare nella compiuta bellezza di Venere, scappò a dire “che le scricchiolavano le scarpe, con suono stridulo e molestissimo, e che avrebbe fatto meglio a camminare scalza quale era uscita dal mare„.
Pag. 184, v. 566 sgg.
Antimaco di Claros, e Stazio di Napoli che cantarono entrambi la guerra tebana. Stazio chiude una sua Selva Eucharisticon (IV, II), celebrante un pranzo imperiale datogli da Domiziano, con questi versi:
Quel giorno, in cui felice ebbi la sorte
Teco a mensa gustar de’ sacri cibi,
Tal ricolmo di gioia a me ne venne
Dopo tempo assai lungo, e a quel simíle,
Quando in Albano, allor che le vittorie
Cantai, Signor, che riportasti invitto
Sovra l’armi germane, e contra i Daci,
La gemmata di Palla aurea corona
Mi cinse al crin la tua cesarea mano.
(Vers. di F. M. Biacca).
Pag. 185, v. 578 sgg.
Poeti argonautici: Orfeo da Crotone (scrisse l’argonautica in persona dell’antico Orfeo trace che prese parte alla spedizione); Apollonio, che, nato in Alessandria, emigrò a Rodi; Publio Terenzio Varrone della Gallia Narbonese; Caio Valerio Flacco, padovano, che ci lasciò incompiuto il suo poema imitato da Apollonio.
Pag. 186, v. 599 sgg.
Esiodo, di cui scrive Quintiliano: datur ei palma in illo medio genere dicendi, si attiene, al giusto mezzo raccomandato da Dedalo al figliuolo. Il Poliziano enumera quindi le opere del Poeta, seguendo la tradizione (al qual proposito vedi la nota precedente ai vv. 557 sgg); tocca della triste sua fine e del sepolcro di lui in Orcomeno (terra di Minia) dove furono raccolte le sue ossa, ritrovate per un oracolo pitico sotto un masso, su cui stava una cornacchia.
Pag. 188, v. 629.
Pisandro da Rodi, autore di un’Eraclea in 2 o 12 libri, che rappresentava le dodici fatiche d’Ercole, raffigurandolo con la pelle di leone e la clava.
Pag. 188, v. 634.
Paniasi o Paniassi, nativo di Alicarnasso, scrisse anch’egli sull’esempio di Pisandro un’Eraclea in 14 libri, e meritò che gli fosse assegnato un posto ragguardevole accanto a Omero ed Esiodo.
Pag. 188, v. 638.
Euforione di Calcide, autore di molte epopee mitologiche, scrisse un poema: Mopsopia, che è una serie incomposta di storie e tradizioni intorno all’Attica (Mopsopia).
Pag. 189, v. 642.
Tirteo, secondo la leggenda, era zoppo.
Pag. 189, v. 643.
Partemio di Nicea, poeta elegiaco, autore di una Metamorfosi.
Pag. 189, v. 644.
Arato di Soli, in Cilicia, scrisse il poema astronomico i Fenomeni: qui si accenna a’ suoi amori col fanciullo Filino.
Pag. 189, v. 651.
Nicandro di Colofone, poeta e grammatico e dilettante di medicina. Scrisse, tra le molte altre cose, dei poemetti sui veleni e contravveleni e le Georgiche, che si vuole servissero di modello a Virgilio.
Pag. 190, v. 661 sgg.
* Oppiano, d’Anazarbe in Cilicia, scrisse i poemi sulla caccia, sulla pésca, ecc. Raccontano che Antonino Pio (altri, Settimio Severo) regalasse all’autore pel poema della pésca uno scudo al verso; onde i suoi versi ebbero, a buon mercato, il nome di aurei. Dionisio affricano, detto Periegete dal suo poema geografico: Descrizione del mondo. Nonno, di Panopoli, cantò le gesta di Bacco in India nel suo poema le Dionisiache: scrisse anche la Gigantomachia, e verseggiò libri cristiani. Callimaco, figlio di Batto e di Mesarma, o della stirpe di Batto, fondatore della patria di lui, Cirene in Libia; il leggiadro poeta, a cui Quintiliano dava il primato nell’elegia, e che piegò l’ingegno artificioso a tutte le forme del poetare. Amante dei brevi componimenti (diceva un grosso libro essere un grosso malanno), scrisse apposta un lungo poema, per mostrarsi da piú che nol credessero certi suoi avversari: l’Ecale, dal nome della vecchia, cara a Teseo, del quale ivi si descrivevano le gesta contro il toro di Maratona. Altri scritti di Callimaco: sulle origini delle favole, dei riti e delle antichità, in quattro canti; endecasillabi amatorî; l’Ibi; gl’Inni, satire, commedie e tragedie.
Pag. 191, v. 687.
Ovidio: accenna alle sue molte e svariate opere. Per notizie piú particolareggiate, vedi il Commento del Del Lungo.
Pag. 192, v. 712.
Ennio, nato a Rotigliano in Calabria, dei poeti latini il primo, vantavasi di aver tre anime, poiché sapeva parlare tre lingue: la greca, l’osca e la latina. Il Poliziano allude a vari fatti della sua vita, tra cui, a una visione, nella quale diceva di aver sognato che l’anima d’Omero era passata nel suo corpo. Fu assai caro, tra i molti illustri, a Scipione Affricano il vecchio, che volle fosse posto nel suo sepolcro il busto in marmo del Poeta. Morí in modesta fortuna, e proibí gli si rendessero onori funebri. Fu sepolto nella tomba degli Scipioni, e sotto la sua statua leggevasi questa iscrizione da lui stesso dettata: volito vivus per ora virum. Imitò, sebbene mostrasse di non tenerlo in gran conto, Gneo Nevio. Nei vv. 744-46 il Poliziano allude al noto motto di Virgilio: se aurum colligere de stercore Ennii.
Pag. 195, v. 750.
Clodia, celebrata sotto il nome di Lesbia; le nozze di Peleo e Tetide, dove le Parche preconizzano sul finire la nascita di Achille; le satire contro l’aristocrazia romana e i versi contro Giulio Cesare.
Pag. 195, v. 756.
Emilio Macro, amico di Ovidio, scrisse poemi sugli uccelli, sui serpenti e sulle erbe (?).
Pag. 195, v. 759.
T. Lucrezio Caro: De rerum Natura. Vuolsi che Cicerone rivedesse ed emendasse il poema lucreziano; ma la critica moderna mette ciò in dubbio.
Pag. 196, v. 770 sgg.
Empedocle di Agrigento, filosofo di poca rinomanza, fondatore della scuola sicula. Una storiella vuol ch’egli si precipitasse con pianelle di ferro nel cratere dell’Etna per studiare le cause prime dei fenomeni tellurici e delle eruzioni vulcaniche. Ma l’Etna vomitò fuori soltanto le sue pianelle. Eraclito d’Efeso, filosofo difficile ed astruso, che da Lucrezio fu detto: clarus ob obscuram linguam.
Pag. 196, v. 781.
M. Anneo Lucano di Cordova, morto a ventisette anni. Sue opere: Riscatto di Ettore; la Discesa all’Inferno; l’Encomio di Polla Argentaria, sua moglie; Saturnali, Selve, Epigrammi, Orazioni; la Farsaglia. Lucano, com’è noto, condannato da Nerone perché partecipe della congiura di Pisone, morí facendosi aprire le vene e cantando versi del suo poema.
Pag. 198, v. 813.
Silio Italico fu prima causidico, poi poeta, autore delle Puniche. Fu console sotto Nerone, il quale fu ucciso mentr’egli esercitava quell’ufficio. Morí del mal del chiodo nella quiete degli studi e della campagna.
Pag. 199, v. 828.
Claudio Claudiano, epico di Alessandria d’Egitto, Il Poliziano, d’accordo con alcuni altri scrittori, lo vuol fiorentino, come nato da un mercante che fu solo di passaggio in Egitto, ove prese moglie e n’ebbe Claudiano. Sue opere: Il Ratto di Proserpina, le Lodi di Stilicone, la Guerra getica.
Pag. 199, v. 834.
Manilio, o, secondo altri, Mallio o Manlio, vissuto pare ai tempi di Augusto, attingendo alle dottrine egizie sull’astronomia, scrisse un’opera Astronomicon, in cinque libri.
Pag. 200, v. 843 sgg.
Tibullo cantò Plania sotto il finto nome di Delia; ProperzioFonte/commento: Barbèra, 1867, Ostia, sotto quello di Cintia, e Cornelio Gallo la mima Citeride, sotto l’altro di Licoride. Caio Licinio Calvo, oratore e poeta, morto giovane, celebra in versi di sapore catulliano la sua Quintilia. Fileta di Coo, critico e poeta, fiorito intorno al 300, cosí esile e gracile di costituzione, che soleva, dicesi, portare nelle scarpe suole di piombo per non essere menato via dal vento, fu elegiaco di bella fama. Fu inoltre grammatico, e, come tale, lasciò un glossario. Ultimo viene Mimnermo, molle e malinconico, il quale soleva dire che nulla v’ha al mondo di giocondo senza l’amore. Le sue poesie di carattere sentimentale e romantico spirano tutte l’amorosa passione, non corrisposta, verso una sonatrice di flauto, Nanno. Per maggiori particolari intorno a questo poeta, V. Mimnermo: Studio e versione metrica di G. Vanzolini; Ancona, A. G. Morelli, 1883.
Pag. 201, v. 867 sgg.
* Bucolici Greci: Mosco e Bione; Latini: Virgilio e Calpurnio.
Pag. 202, v. 874 sgg.
Lirici greci (compilo dal citato Commento del Del Lungo): Pindaro di cui si favoleggia: “Nella sua prima gioventú andando Pindaro, ancor giovinetto, verso Tespi, in sul caldo del mezzodí, fu preso dalla stanchezza del sonno; e cosí sopravvia, si sdraiò per riposare. Ecco uno sciame d’api a deporre sulle sue labbra, mentr’ei dorme, i lor favi....„. La poetessa di Tanagra è Corinna, della quale racconta Plutarco che, consigliato il giovinetto Pindaro a ornare di miti la sua poesia, quand’egli le presentò un inno i cui primi sei versi, toccano di quasi tutta la mitologia tebana, sorridendo esclamasse: “Con la mano, t’avevo detto: questo è seminar col sacco„. Essa medesima scese nell’agone poetico con Pindaro e lo vinse piú per ragion della lingua e della sua maravigliosa bellezza. Di Pindaro abbiamo le odi: Olimpiche; Istmiche; Pitiche; Nemèe (il Poliziano nominandole allude alla favola che il leone Nemèo, domato da Ercole, fosse generato dalla Luna). Trattò anche altri generi; gl’inni, gli encomi, i treni ecc. “Sonando (dice Pausania) il nome di Pindaro per tutta la Grecia, ebbe dalla Pitia l’ultimo suggello di gloria; la quale comandò che di tutte le offerte che si recavano in Delfo ad Apollo, toccasse una parte a Pindaro„. Anche il Dio Pane onorò il grande poeta ripetendone nei monti i versi immortali. Morí a 80 anni circa. A illustrazione dei versi del Poliziano, riferisco anche i particolari mitici della sua morte secondo due tradizioni; l’una, desunta da Valerio Massimo, per cui vuolsi che il Poeta morisse abbandonato a un dolce sonno tra le braccia del giovinetto che amava, Teosseno; l’altra, tratta da Pausania, il quale dice essere in sogno apparsa a Pindaro la Dea Proserpina, e lamentandosi di non aver mai avuto da lui un inno, averle egli soggiunto che glielo avrebbe fatto, appena pervenuto laggiú ne’ suoi regni. Non passano dieci giorni che Pindaro muore; e, poco dopo, comparisce in sogno a una vecchia sua parente e cantatrice di suoi inni, e le canta l’inno di Proserpina. La vecchia si sveglia, balza di letto e lo scrive.
Sulla casa di Pindaro in Tebe era scritto: “Non bruciate la casa di Pindaro, poeta„; e i discendenti di lui rimasero illesi dalle armi degli Spartani e di Alessandro Magno.
Pag. 204, v. 918.
Dice un verso di Anacreonte: Che mi fo dell’oro? la mia passione è bere, bere buon vino in brigata, e sui molli letti'' ecc. E non era questa l’unica sua passione....; ma lasciamo stare. La sua poesia è uno specchio fedelissimo della corruzione ionica. Morí, secondo una graziosa e arguta leggenda, per un acino d’uva andatogli traverso.
Pag. 204, v. 927.
Alceo di Mitilene, fiero poeta de’ rivolgimenti politici, fu tra i capi della sua fazione che rovesciarono il tiranno Melacro. La leggenda lo dice amante di Saffo e di un fanciullo, Pericle. Delle sue odi ci restano un centinaio di frammenti.
Pag. 205, v. 936.
Stesicoro è un appellativo dato a Tisia d’Imera, il quale fu poeta di grande versatilità e rinomanza. La leggenda vuole che un usignuolo gli volasse sulle labbra appena nato, che egli dissuadesse gl’Imeresi dall’affidare la difesa della città a Falaride tiranno d’Agrigento. Si dice anche che, avendo in un suo canto vilipeso Elena, fosse da questa reso cieco, e non riacquistasse la vista se non dopo di aver riparato all’offesa fatta con una palinodía. Morí a 85 anni.
Pag. 205, v. 945.
Simonide di Ceo, il melico, fu uno dei piú fecondi e geniali poeti greci. Il Poliziano allude a una peripezia disastrosa d’un banchetto in Tessaglia e alla sua venalità e avarizia. Si vuole che fosse stato il primo a prostituire il suo verso, e soleva dire di possedere due cassette: una, delle grazie, vuota; un’altra, piena.
Pag. 206, v. 955.
Alcmano, grande poeta lirico, greco di Sardi, che si trasferí poi a Sparta. A lui nulla scemò di leggiadria la lingua laconica, ch’è pure agli orecchi tanto poco soave. Morí di morbo pediculare.
Pag. 206, v. 960.
Ibico, di Reggio di Calabria. Una leggenda lo fa morire assassinato nei dintorni di Corinto, e si dice che un volo di gru lo vendicasse, apparendo ai Corinti, che assistevano a una rappresentazione in un anfiteatro. Suada o Suadèla, compagna ordinaria di Venere, è la Dea della soave persuasione.
Pag. 207, v. 964 sgg.
Bacchilide, dell’isola di Ceo. Con Saffo di Mitilene si chiude il ciclo dei poeti alessandrini. Il Poliziano accenna agli amori illeciti di lei con altre fanciulle. Amò perdutamente Faone, barcaiolo, ringiovanito da Venere, la quale ei tragittò sotto le sembianze di vecchia, senza volerne mercede; o, secondo altri, per aver mangiato un’erba miracolosa. Vuolsi dalla leggenda che morisse pel suo tragico salto di Leucade, perché non corrisposta nel suo amore. Inferiori assai di merito alla poetessa di Lesbo sono: Mirtide, beota; Prassilla di Sicione; Anite; Nosside; Erinna, autrice di un poemetto: il fuso; Telessilla, poetessa e guerriera; e Corinna di Tanagra in Beozia, che, come ho accennato in altra nota, dalla tradizione è fatta maestra di miti a Pindaro, col quale gareggiò anche vittoriosamente nei pubblici agoni. Rispetto all’errore in cui è caduto il nostro facendo dell’epiteto άγακλέα, in un verso di Antipatro, un nome di poetessa, vedi il Commento del Del Lungo, pag. 414.
Pag. 208, v. 998.
* Orazio, lirico e satirico. E da lui, ai satirici latini e greci: Lucilio (di Aurunca), Persio, Giovenale, Basso, Bibacolo, Archiloco, Ipponatte.
I fieri giambi di Archiloco ridussero le figlie di Licambe, il quale gli aveva mancato di parola nella promessa della mano della sua Neobule, ad impiccarsi. Fu ucciso in battaglia da Calonda, detto il Corvo, il quale fu perciò dalla Pitia cacciato fuori del tempio di Delfo.
Pag. 210, v. 1017.
Accenna al teatro greco e latino: Eschilo, Sofocle, Euripide (tragici principi); Omero, il giovine, Sositeo, Licofrone, Alessandro, Ananziade, Sosifane e Filisco (pleiade alessandrina); L. Vario, Seneca, il tragico, di Cordova, Accio, Pacuvio, Pomponio Secondo. Segue l’enumerazione dei comici greci e dei latini che in questo genere zoppicano grandemente.
Pag. 214, v. 1097 sgg.
Sotade scrisse versi molli e licenziosi, che, fra le altre forme, hanno quella di leggersi anche a rovescio con senso uguale o diverso.
Epigrammatici latini: Marziale, autore di milledugento epigrammi; Ausonio, di Bordeaux, console in Roma; Ortensio, oratore; Catone, grammatico; Cornificio; Ticida, cantore dell’amante Metella sotto il finto nome di Perilla; Cinna, autore di un oscuro poema: Smirna; e Ansere, piú sfacciato di tutti.
Epigrammatici greci: Diogene di Laerte, autore del Pammetron; Timone da Fliunte e Xenofane, fisico, scrittori di idillî (poesie licenziose e mordaci); Menippo di Gradara, filosofo cinico, scrisse satire serie o buffe, miste di versi e di prosa, interamente perdute.
Infine si accenna ai ditirambi tragici nel dramma satirico, e, secondo opina il Del Lungo, all’antologia greca.
Pag. 216, v. 1131.
Il Boccaccio e il suo Decamerone.
Pag. 216, v. 1133.
Guido Cavalcanti e sua canzone sulla natura d’amore.
Pag. 216, v. 1138.
* Ingegnosa e lusinghiera dedicazione della Selva de’ poeti (come la chiama il Salvini) a Lorenzo de’ Medici, poeta; che il conte Pico della Mirandola, con retorica cortigiana, preponeva a Dante e al Petrarca. Dietro alla lunga e aurea turba degli spiriti magni, resa a vita da quel rinascimento, di cui le Nutricia posson dirsi l’apoteosi, grandeggia, quasi attraendone sopra di sé la luce immortale, la famiglia de’ mecenati fiorentini. Le memorie del vecchio Cosimo e di Piero si raccolgono su Lorenzo “il primo cittadino toscano„, la maraviglia della Signoria e del popolo, il pacificatore d’Italia: era l’anno 1486, nel quale la pace da lui procurata tra la Chiesa e Napoli, come pochi anni innanzi tra Napoli e Firenze, salvò forse la penisola da quella terribile invasione francese, che, lui morto, guastò per secoli l’indipendenza nazionale.
Intanto il Poeta cliente canta la Musa, le fatiche poetiche, gli ozi del suo Mecenate. Dipingendo, con gentilezza non minore della verità, la musa di Lorenzo, pone fondamento e ispirazione del suo leggiadro e original poetare, le bellezze solitarie della natura e l’amore.
Il Poliziano segue facendo una lunga recensione dei versi di Lorenzo de’ Medici, alludendo al Capitolo di Pane (vv. 1166-69), e all’altro Corinto e Galatea; ai Sonetti e alle Canzoni e ballate d’amore; ai Trionfi e canti carnescialeschi e Canzoni a ballo, all’Altercazione.
Desiderando particolari maggiori, veggasi il Commento del Del Lungo dalla pag. 424 alla 427.
Intanto io non so astenermi dallo stralciare dalle note suddette, ove ho già molto spigolato, anche queste poche righe che si riferiscono alla Musa della Selva: “Dopo il panegirico, l’augurio (v. 1210 alla fine): in Lorenzo, il presente e il passato della stirpe medicea; in Pierino, nel suo figliolo, l’avvenire, fidato per tanta parte alle mani del poeta precettore. Ma non fu lieto avvenire! E i versi che vanno simulando modestia, sarebbe venuto tempo al povero Agnolo di citarli a scusa delle audaci speranze e promesse, se la morte non lo avesse salvato dallo spettacolo tristo della ruina de’ suoi Medici e delle vergogne del suo alunno„.