Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Olimpia II

Ode Olimpia II

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Olimpia II
Le odi siciliane - Ode Olimpia I Le odi siciliane - Ode Istmica II
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ODE OLIMPIA II

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Questa ode meravigliosa fu composta, come vedemmo, nel 476, dopo l’Olimpia III, quando per Terone il cielo cominciava ad intorbidarsi per l’intervento che dové prendere in favore del genero suo Polizelo (v. pag. 17). Ad intenderne gli accenni, conviene rievocare nella loro successione cronologica le avventure, qui ricordate, delle genti cadmee.

Cadmo, il fenicio mitico fondatore di Tebe, ebbe quattro figlie e due figliuoli. Tutti incontrarono tragica sorte; qui basta ricordare Semele, Ino, Polidoro.

La prima era amata da Giove, che si recava da lei in sembianze umane. Giunone, gelosa, la indusse a chiedere all’amante celeste di mostrarsi in tutto il suo fulgore. Giove la esaudí; ma il vampo della folgore celeste da lui brandita ridusse in cenere la giovine. Il Nume sottrasse vivo, dal morto alvo materno, il bimbo da lei concepito, che fu poi Diòniso, il dio cinto d’ellera del vino e dell’ebbrezza. Semele fu assunta anch’essa in Olimpo.

Ino, poi che il suo sposo Atamante le ebbe ucciso il figlio Learco, prese in braccio l’altro figlio, Melìcerte, e si precipitò seco in mare. Ambedue divennero divinità del pelago benevole ai nocchieri.

Da Polidoro nacque Labdaco, da cui discesero Labdo, e il fatale Edipo. I due figli d’Edipo, Eteocle e Polinice, si uccisero in duello reciprocamente; ma sopravvisse, a continuar [p. 70 modifica] la stirpe, Tersandro, figlio di Polinice e di Argia, figlia di Adrasto re d’Argo. I discendenti di Tersandro passarono a Rodi, e di qui in Sicilia, dove fondarono Gela; e da Gela, finalmente, mossero a fondare Agrigento. La stirpe di Terone risaliva dunque, dal lato paterno, sino a Cadmo, dal materno sino al re d’Argo Adrasto. Onde i suoi antenati sono chiamati da Pindaro Adrastidi (v. 55).

Ed ecco il piano dell’ode.

Pindaro dice che per questa vittoria, riportata in Olimpia, deve cantare: Giove, protettore di Pisa, cioè dell’Elide, cioè d’Olimpia; Eracle che fondò i giuochi olimpici; Terone che in questi giuochi ha trionfato con la quadriga.

Terone è sangue degli illustri discendenti di Cadmo, che dopo lunghi travagli giunsero in Sicilia ed ebbero finalmente fortuna: l’abbiano anche i loro nipoti!

Qui il poeta introduce l’affermazione che la sorte degli Adrastidi fu mista di sciagure e di fortune. Il concetto nella sua forma esplicita è esposto al v. 43-45: ed è preparato e seguito da riflessioni concomitanti ed esemplificazioni mitiche. Nulla può far sí che le sciagure sofferte siano non sofferte; ma il bene che sopraggiunge le fa dimenticare. Cosí avvenne per Semele e per Ino. La sorte degli uomini è instabile; e instabile fu per gli antenati di Terone, da quando Edipo uccise Laio suo padre: onde fu l’orrido scempio reciproco di Eteocle e Polinice. Ma con Tersandro risorge la casa; e dopo varia fluttuazione di beni e di mali, Terone ha raggiunto adesso il vertice della felicità umana: ha vinto il supremo fra gli agoni d’Ellade.

Segue la solita affermazione che la massima felicità consiste nel vincere le gare e nell’essere ricco. E poi, il poeta esalta la ricchezza di Terone, osservando che però la ricchezza è vera luce per l’uomo solo quando esso è pio, cioè quando conosce la legge etica che regge le sorti del mondo; e si apre [p. 71 modifica] così la via a descrivere la vita ultramondana degli eletti. Conclude infine asseverando che Terone si trova appunto in tale condizione, e però, ad onta delle mene degl’invidi, va famoso per giusta prodigalità. A quest’ultima affermazione giunge attraverso una immagine che converrà chiarire.

Metafora comunissima in Pindaro è immaginare che il poeta sia un arciere, i suoi canti frecce, mèta la persona o la cosa esaltata nel canto. Or qui asserisce d’aver frecce a gran dovizia: chiede poi a sé stesso, ed è domanda retorica, riecheggiante con effetto musicale la domanda che apre l’epinicio, chi debba colpire; e afferma che deve colpire Agrigento e Terone: Terone che largí alle genti tanti benefizi quante arene ha il mare. Cosí termina l’ode.

Questa linea, semplice in complesso e nitida, si insinua qua e là in digressioni. Talune ovvie e inerenti all’andamento generale, come la pittura dei Beati. Altre piú capricciose e remote. Così quando parla dei personaggi che si trovano nell’isole dei Beati, giunto ad Achille, ricorda i suoi cimenti con Ettore, con Cigno e con Mènnone — e subito, con atteggiamento consueto, interrompe, per tornare al suo argomento.— L’altra digressione, piú lunga, e di meno agevole intelligenza, è il celebre apoftegma:

Saggio è chi molto sa per natura;
ma quanti appresero
alla rinfusa, garruli corvi, gracchiano invano
contro l’augello di Zeus divino.

In genere, s’intende che sia un’allusione ai poeti suoi rivali Simonide e Bacchilide. Come c’entri nei contesto, si vede poco; ma, d’altra parte, non sarebbe questa l’unica volta che Pindaro parla in un epinicio di sue questioni personali, con allusioni che oramai è impossibile intendere sicuramente. [p. 72 modifica]

Interessanti sono poi gli accenni intorno alla vita futura. Ridurli a sistema organico è tutt’altro che facile; tuttavia sembra che la dottrina esposta da Pindaro sia la seguente.

Ci sono due esistenze: una sulla terra, dei vivi; l’altra fuori della terra, forse sotterranea, dei defunti. Fra l’una e l’altra è un perenne transito di anime. E le anime che riescono a vivere tre volte in ciascuna di esse, mantenendosi immuni d’ogni colpa, godono eterna serenità nell’isole dei Beati. Chi invece commette in una delle due esistenze una colpa, la purga nell’altra; i vivi sotterra, i defunti sopra la terra. Pindaro descrive poi, oltre alla felicità dell’isole dei Beati, un altro stato di beatitudine (Strofe IV), che sembra quello concesso nell’esistenza sotterranea a chi visse piamente sopra la terra: e bisognerà certo integrar la sua dottrina immaginando che anche sulla terra sia un luogo — forse gli Iperborei (vedi la Pitia X) — dove conducono vita beata quanti piamente vissero nel regno sotterraneo.

Questa dottrina è senza dubbio la medesima che si insegnava nei misteri eleusini, e che non potè essere se non una derivazione delle dottrine orfico-pitagoriche. Pindaro ne parla in un frammento (137 Christ) in tono solenne:

Beato chi scende sotterra
dopo veduti i misterî.
Il fin della vita ei conosce,
conosce il principio sancito dai Numi.

Altri frammenti pindarici svolgono altri particolari della dottrina; ma troppo lungo sarebbe occuparsene, e implicherebbe controversie e discussioni di vario genere. Giova però riferire la mirabile pittura della vita che conducono sotterra quelli che vissero santamente sulla terra (fram. 129 Christ): [p. 73 modifica]

Quando è qui notte, laggiú scintilla per essi la vampa del sole.
E nel pomerïo, prati di rose purpuree,
ed aurei pomi fittissimi, ed ombre d’incensi.
E questi con ginnici ludi e corsieri; con dadi,
con cetere quelli s’allegrano;
e il fior d’ogni bene tra loro è in rigoglio.
E amabil fragranza s’effonde per tutta la terra,
dai mille su l’are dei Numi commisti profumi;
e sfolgora lunge la fiamma.

Due altri versi, due, ma di mirabile potenza, rimangono, o, meglio, si ricostruiscono da una prosastica parafrasi di Plutarco (De occulte viv. 7):

Donde l’illimite buio vomiscono
della notte di tenebre i lividi fiumi. —

Sebbene sia inclusa fra gli epinici, questa ode non può dirsi vero canto trionfale. Dalla vittoria prende appena il pretesto; ed è poi tutta una balenante rievocazione, una saggia trama di esortazioni, una speculazione mistica. Thrénos, meglio che epinicio.


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PER TERONE D’AGRIGENTO

VINCITORE COL CARRO IN OLIMPIA


I


Strofe

Inni, che legge date alla cétera,
quale dei Numi, qual degli Eroi, qual dei mortali celebreremo?
Pisa è di Giove: le olimpie gare
fondava Alcíde
con le primizie
di guerra: ed ora, per la quadriga vittoriosa,
cantar Terone convien, che gaudio giusto è degli ospiti,
è d’Agrigento
colonna, savio dator di leggi, fior d’avi illustri,


Antistrofe

che dopo lunghi gravi travagli
giunsero a questa sede fluviale, della Sicilia furon pupilla;
e venne il tempo sacro al Destino,
e aggiunse all’ínsite
virtú fortuna.
Su via, figliuolo di Rea, Croníde, tu che proteggi
d’Olimpo i vertici, dei giuochi il fiore, dell’Alfeo l'onde,
t’allegra ai cantici,
ed ai nepoti benigno serba la terra avita.

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Epodo

Neppure il Tempo, padre del tutto,
far sí potrebbe che non compiuto l’esito fosse
d’opra compiuta, giusta od ingiusta. Ma con la sorte
prospera, nasce l’oblivïone. Sottesso il bene,
sottesso il gaudio, giace domato, per quanto incalzi,
si spenge il duolo,

II


Strofe

quando pel cenno del Dio, la Parca
tragga la sorte d’eccelso bene. S’attaglia quanto dico alle figlie
di Cadmo. Molto soffrîr; ma il duolo
dinanzi ai beni
piú grandi cadde.
Semèle, chioma fiorita, spenta giacque alla romba
della saetta; ma tra gli Olimpi vive ora eterna,
e l’ama Pàllade,
l’amano Giove padre, ed il figlio d’ellera cinto.


Antistrofe

D’Ino, raccontano che giú nel pelago,
tra le marine figlie di Nèreo, le fu perenne vita concessa,
pel tempo eterno. Niuno degli uomini
sa di sua morte
securo il punto,
né quando un giorno, figlio del sole, trascorreremo
godendo un bene scevro di cure. Sovressi gli uomini,
or queste, or quelle
di contentezze, di pene, volgono correnti alterne.

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Epodo

Cosí la Moira, che il fato avito
felice regge di questi prenci, con la fortuna
data dai Numi, pur di rovesci talor li oppresse,
da quando il figlio fatal, scontrato suo padre Laio,
l’uccise; ed esito s’ebbe l’oracolo che in dí remoti
mosse da Pito.

III


Strofe

Erinni, aguzza pupilla, vide,
e con reciproca strage gli spense la prode schiatta; ma su Polínice
piombato al suolo, restò Tersandro,
che fra certami,
fra guerre e zuffe,
riscosse onore. Da tal rampollo quindi risursero
degli Adrastídi le case; ond’ebbe sua stirpe il figlio
d’Enesidàmo.
Giusto è che cantici d’encomio, e suoni di lira ei goda,


Antistrofe

poi ch’egli stesso vinse in Olimpia;
e a Pito, e sovra l’Istmo, le Càriti al suo germano, ch’ebbe qui simile
sorte, concessero fiori e ghirlande,
premio pei dodici
rapidi giri

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della quadriga. — Vincer le gare, dai crucci libera.
Ricchezza, quando di virtú s’orna, copia opportuna
porge di molte
bell’opre; e lungi tien l’incalzante profonda cura;


Epodo

ricchezza, stella fulgente, luce
per l’uom verissima, quand’ei, godendola, sappia il futuro:
che de gli spenti l’anime tristi quaggiú le colpe
purgano; e i falli commessi in questo regno di Giove,
giudica alcuno sotterra, dando, per fatal norma,
sentenza ostile.


IV


Strofe

Ma nella notte sempre, nel giorno
sempre, il fulgore del sol mirando, godono i buoni la vita immune
d’ogni fatica; né con le mani
scalzando il suolo,
né il mar solcando
dietro ad un misero sostentamento. Ma presso i Numi
piú venerandi, quanti mantennero lor sacri giuri,
senza mai lacrime
vivono: gli altri reggono il peso d’orrida pena.


Antistrofe

Quanti poi valsero sopra la terra,
sotto la terra, tre volte vivere con l’alma scevra d’ogni nequizia,

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di Zeus pel tramite, giungon di Crono
presso alla torre.
Qui dei Beati
l’isole cingono l’aure marine: qui fiori flagrano
d’oro, dagli alberi fulgidi, sovra la terra; ed altri
l’acqua ne nutre;
essi ne fanno serti, ne avvolgono le braccia e il capo,


Epodo

sotto le leggi di Radamanto
giusto, che siede presso allo sposo di Rea, figliuolo
di Gea, regina sul trono eccelso dell’universo.
Tra quei beati Cadmo con Pèleo dimora. E Tètide,
poi ch’ebbe indotta con le sue preci l’alma di Giove,
v’addusse Achille:

V


Strofe

Achille, ch’Ettore spense, incrollabile
pilastro invitto di Troia, e Cigno diede alla morte col figlio Etíope
d’Aurora. — Molti son dardi pronti
nella faretra
sotto il mio cubito,
che a chi comprende favellan chiaro; ma per le turbe
non hanno interprete. Saggio è chi molto sa per natura;
ma quanti appresero
alla rinfusa, gracchiano invano, garruli corvi

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Antistrofe

contro l’augello di Zeus divino.
Ora alla mèta rivolgi l’arco: su via, mio cuore, chi mai, lanciando
pure una volta le frecce fulgide
dal pensiero agile,
saetteremo?
Ad Agrigento volgi la mira. Con cuor veridico
pronuncio un giuro: che da cent’anni questa città
non diede a luce
uom piú benevolo piú liberale verso gli amici.


Epodo

Ma suole a laudi seguir Fastidio,
che con Giustizia non s’accompagna, bensí coi tristi
soffocar tenta plauso che suoni per le belle opere
dei buoni. E dimmi, chi numerare potrà le arene?
I benefizi che da Terone sugli altri caddero,
chi mai dirà?