Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Istmica II

Ode Istmica II

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Istmica II
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ODE ISTMICA II

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Questa ode, come la Pitia VI, la piú antica delle siciliane, è composta per una vittoria di Senocrate; ma dopo la morte di lui; ed è anch’essa indirizzata all’amico diletto Trasibulo.

Dal contenuto parrebbe probabile che fosse morto anche Terone, e che le ultime tenebre si addensassero oramai sulle case degli Emmenidi. Ai tempi dell’opulenza erano state aperte a tutti, le mense sempre imbandite, e i poeti gareggiavano nell’esaltare i signori. Adesso si sono tutti allontanati. Non si allontana Pindaro; ma sulla tomba dell’amico defunto scioglie un affettuoso epicedio, che non è fra le piú belle cose del poeta, ma fra le piú commoventi, e che piú dicono la nobiltà dell’animo suo.

Un tempo — dice Pindaro — i poeti cantavano l’elogio ai giovinetti per la loro bellezza, per i loro meriti: adesso invece si canta per chi ha quattrini. Sei savio e intendi meglio ch’io non ragioni (1-13).

Ma io canterò l’ultima vittoria che tuo padre Senocrate riportò sull’Istmo. L’ultima, non l’unica. Aveva anche vinto nei giuochi di Crisa, e in Atene, dove non ebbe a lagnarsi dell’auriga Nicomaco, e ad Olimpia, dove salutarono festosi la sua vittoria gli araldi Elei, che erano stati largamente ospitati da lui ad Agrigento. E in Olimpia i figli di Enesidamo, [p. 84 modifica] cioè Terone e Senocrate, conseguirono vittorie la cui fama non morrà (13-30).

Ma tu conosci meglio di chicchessia, o Trasibulo, le vittorie, l’ospitalità, le feste della tua casa. Ora la grandezza antica è caduta. Ora ci sono ostacoli a cantar di voi. Ma non ci sono ostacoli a chi vuole. Io canto (31-36).

E potessi con la mia parola tanto superare gli altri poeti quanto Senocrate superava tutti gli altri uomini! (37-40).

Elogio di Senocrate (40-45).

Ora gl’invidiosi vorrebbero che si tacesse di lui. Ma tu fa’ suonare alto il suo nome, ed il canto in cui io lo esalto (43-46). —

Rivolgendosi infine ad un certo Nicasippo, il poeta gli offre il canto perché lo rechi a Trasibulo. E cosí, termina l'ode.

I poeti salgono il cocchio delle Muse — cosí vediamo, in antiche rappresentazioni, l’eroe stare sul carro accanto alla Dea che lo protegge. — Le canzoni moderne si vendono a prezzo, come le cortigiane: han voce lusinghiera, e viso tutto adorno di gioielli (6-8). — Era famosissima fra i Greci la massima: l’uomo è denaro, attribuita ad un Aristodemo, che qualcuno includeva fra i sette sapienti. La massima, al solito, è personificata: dunque ha anche piedi, e può camminare; sicché Pindaro dice che muove presso ai sentieri di verità (9-10). — Il «Saggio tu sei, tu m’intendi» si riferisce a quanto è detto sopra, alluda o non alluda a Simonide; ma poi nel testo è riferito, assai piú strettamente, a quanto segue. È strano zeugma, non unico in Pindaro; e di gusto non indiscutibile (13). — Gli Araldi delle Ore sono gli araldi Elei che al cominciar delle feste olimpiche annunciavano la tregua sacra; ed erano stati, come ho detto, largamente ospitati ad Agrigento da Terone e Senocrate (24). — La Dea Vittoria accoglie il vincitore: qui si dice che questi le cadde sulle [p. 85 modifica]ginocchia (27). — Come altrove ad un arciere, qui il poeta è paragonato ad un discobolo: il canto sarà qui disco, come lí saetta (37). — Piú strana è la metafora che segue. La mensa è una nave. Se il vento (dell’ospitalità) soffia nelle vele, gli ospiti scialano: si trovano male se il vento cade e le vele si sgonfiano. Alla mensa di Senocrate non mancò mai vento: e andò d’estate sino al Fasi, a Nord, dove c’è fresco: d’inverno sino al Nilo, in clima temperato. Fa un po’ ridere, ma è immaginoso. Quel che dice dei propri versi, che non li ha scritti perché rimanessero lí fermi, bensí perché girassero il mondo, è languida eco della immagine mirabilmente svolta qualche anno prima nel preludio della Nemea V. E Nicasippo, infine, è la persona a cui è affidata l’ode perché la porti a chi la deve ricevere, e forse perché ne diriga, in assenza del poeta, l’esecuzione. Un collega, dunque, dell’Enea di cui si parla nella Olimpia VI.

Quest’ode, come ho già accennato, non è un epinicio, bensí una epistola consolatoria. E non ha mito.


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A TRASIBULO D’AGRIGENTO

IN MEMORIA D'UNA VITTORIA RIPORTATA DA SUO PADRE

COL CARRO NEI GIUOCHI ISTMICI



I


Strofe

Trasíbulo, gli uomini prischi che il carro salian de le Muse
d’oro velate, trattando la celera insigne,
gl’inni, saette soavi, spontanei lanciavano ai giovani,
quanti eran vaghi e toccavano la florida età
che d’Afrodite dal trono vezzoso la cura suade.


Antistrofe
 
Ché allora venale non era, né a prezzo locata, la Musa,
né le melliflue canzoni solean di Tersícore
dolce canora, d’argento la faccia adornarsi, e far lucro.
Ora la massima è forza seguir dell’Argivo;
ch’essa ben prossimo il piede conduce ai sentier del vero.


Epodo

«L’uomo è denaro, è denaro», quei disse, vedendo sparire
coi beni gli amici.
Saggio tu sei, tu m’intendi. Né ignori l’equestre
istmia vittoria ch’io canto:

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la concedette a Senòcrate Posídone; e il serto
d’apïo dorico, a lui
mandò, che al suo crin lo stringesse,


II


Strofe

e l’uomo di cocchi maestro, fulgor d’Agrigento, onorò.
Anche lo vide, e gli diede nei giuochi di Crisa
Febo vittoria; e in Atene fulgente, partecipe ai premî
degli Erettídi famosi, non ebbe a lagnarsi
dell'abilissima destra che a tempo Nicòmaco tese,


Antistrofe

illeso spingendo il suo cocchio, le briglie allentando. Gli araldi
lui ben conobber dell’Ore, ministri di Giove
Cronio, gli Ellèni, che un giorno di lui furono ospiti. E dolci
a salutarlo levaron le voci, quand’egli
su le ginocchia cadeva d’un aurea Diva, di Nice,


Epodo

nella lor terra, che detta dagli uomini è bosco di Giove.
Qui stretti ad onore
che non morrà, d’Enesídamo furono i figli. —
Ma sconosciuti alle case
vostre, non sono, o Trasíbulo, né i lieti banchetti
risi da grazia, né gl’inni
che suonan piú dolci del miele. —

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III


Strofe

Né rupe né impervio sentiero trattiene chi brama l’elogio
dell’Elicònidi addurre agli uomini chiari.
Oh, se potessi, vibrandolo, sí lunge scagliare il mio disco
quanto ne l’impeto nobile Senòcrate tutti
gli altri mortali vinceva! Pregiato dai suoi cittadini,


Antistrofe

volgea la sua mente ai corsieri, qual patrio costume è degli Èlleni:
tutte onorava dei Superi le mense: né mai
su la sua mensa ospitale piegâr senza vento le vele;
ma sino al Fasi nei giorni d’Està si spingeva,
ma navigava l’Inverno fin presso alle spiagge del Nilo.


Epodo

Or, poi che l'invide spemi circondan le menti degli uomini,
tu mai non celare
né la virtú di tuo padre, né questi miei canti.
Non perché immoti restassero
io li composi in tua lode. Su via, Nicasíppo,
récati all’ospite mio
diletto, e quest’inno a lui porgi.