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NOTTE CLVI
— «Il terzo giorno dopo quella disgrazia,» disse il giovane di Mussul; «vidi con maraviglia entrare una squadra di gente di polizia, col padrone della casa ed il mercante che mi aveva falsamente accusato d’avergli rubata la collana di perle. Domandai qual cosa li conducesse; ma, invece di rispondere, impadronitisi di me, mi legarono, ingiuriandomi, e dicendo che la collana apparteneva al governatore di Damasco, il quale l’aveva perduta da più di tre anni, e che nel medesimo tempo una delle sue figlie era sparita. Giudicate della mia sorpresa a simili parole! Presa però la mia risoluzione: — Dirò la verità al governatore,» dissi fra me; «starà in lui il perdonarmi o farmi morire. —
«Quando fui alla sua presenza, notai che mi guardava con occhio compassionevole, e n’ebbi buon augurio. Mi fece slegare, poi, voltosi al gioielliere, mio accusatore, ed al padrone della mia casa: — È questo,» chiese loro, «l’uomo che voleva vendere la collana di perle?» Non ebbero appena risposto affermativamente, ch’egli disse: — So da fonte certa che costui non ha rubata la collana, e mi maraviglio che gli sia stata fatta sì grande ingiustizia.» Rassicurato da tali parole: — Signore» sclamai, «vi giuro che sono in fatti innocente. Son persuaso inoltre che la collana non appartenne mai al mio accusatore, ch’io non ho mai veduto, e la cui orribile perfidia è cagione dell‘infame trattamento a me usato. E se confessai il furto, lo feci contro coscienza, costretto dai tormenti, e per una ragione, cui son pronto,