La vedova spiritosa (prosa)/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera di don Berto.

Paoluccio e Rosina.

Rosina. Che cosa è questa istoria? Che novità è quella che girati per il capo?

Paoluccio. La novità è questa. Ti voglio bene, ma senza i cento zecchini, Rosina mia, noi non faremo niente.

Rosina. Perchè non ci pensasti in prima?

Paoluccio. È vero, ci penso tardi, ma è meglio tardi, che mai.

Rosina. I cento zecchini mi sono stati promessi, ma se poi non me li danno?

Paoluccio. Te lo dico liberamente, chi s’è visto, s’è visto.

Rosina. Sei veramente un asino.

Paoluccio. Taccio, perchè tu sei una frasca.

Rosina. Lazzarone.

Paoluccio. Pettegola.

Rosina. Temerario. (alzando la voce)

Paoluccio. Insolente. (alzando anche lui la voce)

Rosina. Va via, non ti voglio più. (come sopra)

SCENA II.

Don Anselmo e detti.

Anselmo. Che cosa c’è, figliuoli miei?

Rosina. Costui mi maltratta.

Paoluccio. Rosina m’insolenta.

Anselmo. Siate buono, figliuolo, chetatevi, ragazza. Fate che ha voi regni la carità fraterna.

Rosina. Gli dissi della dote, ed ora non mi vuole senza i cento zecchini. [p. 468 modifica]

Paoluccio. Signor no. Mi ha promesso cento zecchini, e se non li ha, non la voglio.

Rosina. Ed io me ne vado immediatamente da questa casa.

Anselmo. State zitti, che ci saranno; ecco, in questa borsa ci sono i cento zecchini, ma figliuoli miei, non lo state a dire a nessuno. Quello che li dà, non vuole che si sappia. Io pure non voglio che di me si parli. Vi darò i cento zecchini con patto che vi sposiate, e che non si sappia che li avete avuti da me.

Rosina. Io non dirò niente a nessuno.

Paoluccio. Via, favoriteci quella borsa.

Anselmo. Adagio un poco, Rosina sa il modo con cui si ha da meritare la dote. Faccia quel che le ho detto, mostrisi grata al benefattore, e subito si conta il danaro, e si faranno le vostre nozze.

Rosina. Per me son pronta a fare tutto quello che posso.

Paoluccio. Signore, spiegatemi un poco questo latino; non vorrei che Rosina avesse a fare qualche triste figura.

Anselmo. Sono un galantuomo, e di me vi potete fidare; andate, buona fanciulla, a fare quello vi ho detto, poscia da me tornate, che il danaro è in questa borsa per voi.

Rosina. Vado subito, ed assicuro il signor don Anselmo, che farò tutto il potere per renderlo consolato. (parte)

SCENA III.

Don Anselmo e Paoluccio.

Paoluccio. Signore, finchè ella torna, potressimo principiare a contar le monete.

Anselmo. Ah! no figliuolo, non vuò sentirvi tanto avido del danaro. Non è l’oro e l’argento quel bene che voi pensate. Qui dentro in questa borsa voi credete che ci sia la vostra fortuna, ma voglia il cielo che non vi sia la vostra disgrazia. Ah! quest’oro è un veleno.

Paoluccio. Signore, sono stanco di vivere a questo mondo; datemi un poco di quel!’oro, lasciate che io mi avveleni. [p. 469 modifica]

Anselmo. Viene il vostro padrone, andate, che ho da parlare con lui.

Paoluccio. (Saranno miei quei zecchini? Non sono sì fortunato; non lo credo, se non lo vedo). (da sè, indi parte)

SCENA IV.

Don Anselmo e poi don Berto.

Anselmo. Sono in un grande impegno. Finora mi ho conservato buona riputazione, ma dubito che amore mi voglia un dì corbellare. Convien superare la vergogna, dirlo alla figlia, e confidarlo al zio, dalla di cui dabbenaggine mi posso compromettere assai.

Berto. Sentite, don Anselmo, non basta che voi mi diate de’ buoni consigli, ma conviene altresì, che voi non vi distacchiate mai dal mio fianco. Ha un’arte donna Placida, a cui senza del vostro aiuto non mi comprometto di resistere.

Anselmo. Vi pare che ella sia scaltra?

Berto. Ci può condurre a scuola quanti noi siamo.

Anselmo. Conoscete voi il pericolo, in cui si ritrova quell’altra?

Berto. Pur troppo lo conosco, e ci vorrei rimediare.

Anselmo. Tocca a voi a farlo, e quanto più presto il farete, adempirete meglio all’obbligo che vi corre.

Berto. Ma che cosa ho da risolvere? ho da metterla in un ritiro?

Anselmo. No poverina, non la precipitate.

Berto. Ho da maritarla?

Anselmo. Più tosto.

Berto. Ma con chi?

Anselmo. Il cielo provederà.

Berto. E intanto che il cielo provede, che cosa abbiamo da fare?

Anselmo. Ah! vorrei pure vedervi fuori di quest’impiccio. Caro amico, mi preme tanto la vostra quiete, mi preme tanto la salute di quella buona ragazza, che per voi e per ella [p. 470 modifica] sagrificherei tutto me stesso. Sì, vuò darvi una prova della mia vera amicizia; sì, don Berto, son qui, nessuno ci sente, ve lo dico di cuore, donna Luigia vostra nepote....

SCENA V.

Don Isidoro e detti.

Isidoro. Don Berto, che si fa, che non si va a desinare?

Anselmo. (Che tu sia maladetto, poteva capitare in peggior tempo di questo?)

Berto. Se vi pare che sia ora, andiamo.

Isidoro. Suonato è il mezzogiorno, ch’è un pezzo.

Berto. Andiamo dunque. (ad Anselmo)

Anselmo. Abbiamo prima da terminare questo interesse. (a don Berto)

Berto. Abbiamo un interesse da terminare. (a don Isidoro)

Isidoro. Le pernici son cotte, il pane è arrostito in modo, che pare nello spiedo un pezzo di zuccaro candito. Se non si mangia in punto, perde in gran parte la sua bontà, e sarebbe un peccato che andasse a male una cosa così preziosa.

Berto. Andiamo, che parleremo quando avremo pranzato.

Anselmo. Vi pare che per la gola s’abbino da trascurare i propri interessi? (a don Isidoro)

Isidoro. Ma quel pane abbrustolato mi sta sul cuore.

SCENA VI.

Paoluccio e detti.

Paoluccio. Signore, un altro forestiere ha domandato di donna Placida; sono prima venuto a dirlo a vossignoria, come mi ha comandato. (a don Berto)

Isidoro. Adesso non si riceve nessuno.

Berto. Non si riceve nessuno.

Isidoro. Presto, licenzia il forastiere, e che si porti in tavola.

Paoluccio. Comanda ella, signore? (a don Berto) [p. 471 modifica]

Isidoro. Va a fare quello che ti ho detto, insolente.

Paoluccio. (Scrocco indiscreto; sì, per fargli dispetto, voglio introdurre la visita del forastiere). (parte)

SCENA VII.

Don Berto, don Anselmo, don Isidoro, e poi don Ferramondo.

Anselmo. Che dite di donna Placida? Visite tutto il giorno.

Isidoro. E anche a quest’ora, con pericolo di rovinar le pernici.

Ferramondo. Servitore umilissimo di lor signori.

Isidoro. Come, non ve l’hanno detto che si dà in tavola, e che ora non si riceve nessuno?

Ferramondo. Chi è il padrone di casa?

Anselmo. Eccolo qui, signore. (accennando don Berto)

Berto. Sono io, per servirla, ma mi riporto a quello che dicono e a quello che fanno questi miei amici.

Ferramondo. Non siete voi don Berto?

Berto. Servitore di vossignoria.

Isidoro. Di grazia, padron mio. (a Ferramondo)

Berto. State zitto (a don Isidoro, mostrando paura)

Ferramondo. Signore, vi sono obbligato, che in ora così incomoda abbiate avuta la bontà di ricevermi. Io veramente domandai di donna Placida, ma mi disse il vostro servo, che prima venissi da voi, ed io son qui ai cenni vostri.

Berto. Anzi mi favorisce.

Isidoro. (Ah Paoluccio briccone, me l’ha fatta per questa volta).

Anselmo. Perdoni, signore; don Berto gli fece dire per il servo, che ora non si potevano ricevere le sue grazie. (a don Ferramondo)

Isidoro. Perchè vogliamo pranzare. (a don Ferramondo)

Ferramondo. Il servo non mi diede una risposta simile, e un cavaliere mio pari non la merita, e non l’avrebbe sofferta. Io sono, se noi sapete, don Ferramondo di Belvedere, capitano de’ granatieri nelle truppe tedesche; ho conosciuto donna Placida fin quando aveva marito, e se io vengo a farvi una visita, [p. 472 modifica] non credo far disonore nè a lei, nè alla sua famiglia; non mi credea che in questa casa si andasse a desinare a quest’ora; se lo avessi saputo, avrei differito a venirvi, ma con tutto questo a voi non è lecito di trattar male con un mio pari.

Isidoro. Signore, con chi parlate?

Berto. (Zitto, ch’è un capitano). (piano a don Isidoro)

Ferramondo. Se gli amici vostri sono così indiscreti, che vi fanno commettere una mala azione, saprò io trattar come merita questa gente vile e malnata, che non conosce i doveri suoi.

Anselmo. Veramente, signore, voi vi avanzate in modo...

Berto. Zitto, ch’è un granatiere. (a don Anselmo, con isdegno)

Ferramondo. Cerco di donna Placida. (ad Anselmo, con sdegno)

Anselmo. A me? Io non sono padrone di casa.

Berto. Sarà di là, signore: se comandate...

Anselmo. (No, che vi è la fanciulla con essa). (piano a don Berto)

Isidoro. Volete donna Placida? Potete andare, ecco là la sua camera. (a don Ferramondo) Lasciate che egli vada, che intanto potremo andare a mangiare. (piano a don Berto)

Ferramondo. Lo sa donna Placida, che io desidero riverirla?

Berto. Gli faremo far l’ambasciata.

Isidoro. Può andar liberamente, che di già non sarà occupata.

Anselmo. Un cavaliere ben nato, che sa il trattar civile, saprà che non gli conviene una simile libertà. (a don Ferramondo)

Ferramondo. So i miei doveri, e non ho bisogno di apprendere le convenienze da voi. (a don Anselmo)

Anselmo. Ed io, signore, son uno, che con amore sincero dico liberamente la verità; si lasciano stare le donne, e non si va a tentarle, sia detto con vostra buona licenza. (a don Ferramondo)

Ferramondo. E chi sei tu, che pretendi di farmi il correttore? zelante indiscreto, impostore falsario. Vieni qui a ostentare la bontà e la dottrina, per farti merito e per iscroccare la mensa? Oppure, ribaldo, ascondi sotto il manto di agnello il cuore di lupo, per insidiar le donzelle? L’uno o l’altro di questi due motivi ti deve far parlare senza ragione, e moralizzar fuor di tempo. Un cavaliere che visita una donna onesta e civile, dà [p. 473 modifica] un segno del suo rispetto, e non può dirsi che egli venga a sollecitarla; e chi a torto sospetta dell’altrui condotta, fa vedere che la colpa ha piantate in lui le radici. Don Berto è un uomo da bene, ei presta fede alle tue menzogne, ma io sono uomo di mondo, e ti conosco per un impostore.

Berto. (Rispondetegli, giustificatevi). (piano a don Anselmo)

Anselmo. (Per umiltà sto zitto). Signore, il cielo ve lo perdoni. (parte)

SCENA VIII.

Don Berto, don Isidoro e don Ferramondo.

Berto. (Son confuso. Non so che cosa abbia a credere). (da sè)

Isidoro. (E intanto non si desina). (da sè) Signore, se volete, andate da donna Placida liberamente.

Ferramondo. No no, conosco il mio dovere. Non anderò dalla dama prima che ella lo sappia e me lo permetta.

Isidoro. Orsù, quest’istoria ha da terminare. Volete donna Placida? Anderò io ad avvisarla. (parte)

SCENA IX.

Don Berto e don Ferramondo.

Berto. Signore, in verità, se volete andare, siete padrone; per donna Placida non mi oppongo. Spiacemi solamente che con essa vi è la sorella minore, che è ancor fanciulla.

Ferramondo. So il mio dovere, vi dico, e so trattare onestamente colle donne civili in qualunque grado si trovino. Lodo lo zelo vostro, che invigila al decoro delle nepoti; ma lodar non vi posso, che tenghiate in casa, vicino ad esse, un menzognere impostore. Un militare per solito si crede discolo di costume; a un giovane si accorda di mal animo l’accesso in una casa, dove vi siano fanciulle; e poi, a chi sa fingere un affettato contegno, si permette talora una libertà illimitata. Non [p. 474 modifica] dico che non vi siano delle persone da bene, ma prima di fidarsi, convien conoscerle e sperimentarle. In noi si suol temere l’ardire, e la presunzione, e l’inganno.

Berto. (Parla bene, parla bene. Non ho mai più sentito un militare a ragionare così). Oh, ecco qui mia nepote.

SCENA X.

Donna Placida, don Isidoro e detti.

Placida. Oh signor capitano.

Ferramondo. Scusatemi, signora mia, se incautamente ho scelto quest’ora per esercitare con voi un atto del mio dovere.

Placida. È un onor che io non merito, che il signor capitano sia venuto a favorirmi di una sua visita. Spiacemi solamente che egli abbia scelto quest’ora, per non dare incomodo al signor zio.

Isidoro. Possono restar qui, se vogliono; noi intanto anderemo a pranzare.

Berto. Con tutta libertà si servano pure. (Con un granatiere bisogna andar colle buone).

Placida. Signore, voi potete conoscer da ciò, che don Berto ha per voi quel rispetto che meritate. Sarebbe veramente una cosa strana, che il primo giorno in cui torno nella casa paterna, non avessi io pure ad intervenire alla tavola della famiglia. Tralascerò di farlo, se voi me lo comandate: ma un cavaliere ben fatto, compiacente e discreto, spero mi dispenserà da simile inconvenienza. Siete padrone di ritornare quando vi piace. Anzi vi supplico innanzi sera di lasciarvi da me riverire. Il zio lo accorda, e meco unitamente vi prega. Egli è amoroso con tutti, ha un cuor docile e generoso, ma in questi pochi giorni che ho da restare con lui, desidero ad esso mostrarmi grata, mi preme di far seco lui il mio dovere; onde vi supplico per finezza non prendere in mala parte l’onesta scusa che vi offerisco, e lasciarmi per ora in libertà di pranzare. [p. 475 modifica]

Ferramondo. Sarei un indiscreto, sarei un incivile qualora non m’appagassi di così onesta ragione. Accetto le vostre grazie, gradisco la bontà di don Berto. Tornerò innanzi sera ad incomodarvi. (saluta tutti, e parte)

SCENA XI.

Don Berto, don Isidoro, donna Placida, e poi Paoluccio.

Isidoro. Brava, brava davvero. Estremamente vi lodo.

Berto. Cara la mia nepote, siete per me così compiacente? Quasi quasi mi dispiace che andiate in un ritiro.

Placida. Voi lo vedete, signore, se in tutto e per tutto desidero soddisfarvi.

Isidoro. Via, caro don Berto, in tavola.

Berto. In tavola (forte verso la scena)

Paoluccio. Signore, è qui il signor don Fausto, che brama di riverirla. (a donna Placida)

Isidoro. Ditegli che ritorni, che ora si va a desinare, (al servitore)

Placida. Fermatevi. (al servitore) non posso dispensarmi dal ricevere il mio avvocato. Quando viene a quest’ora, convien dire che la cosa sia di premura. Chi ha delle liti, ha sempre mai da temere.

Berto. Ha ragion mia nipote.

Isidoro. Maladetti gl’impicci. Le pernici anderanno a male, e il pane abbrustolato si seccherà.

Placida. Signore, vi supplico per grazia, lasciatemi in libertà. (a don Berlo)

Berto. Volete che aspettiamo? (a donna Placida)

Isidoro. Ancora si ha da aspettare? (a don Berto)

Placida. Servitevi, se comandate. Ho un certo affare coll’avvocato, che forse non mi potrò spicciare sì presto.

Isidoro. Sentite? vuole che andiamo a desinare senza di lei. La capite? Via, signor zio gentile; compiacetela la nipote. [p. 476 modifica]

Berto. Quando così vi piaccia, servitevi come vi pare. (a donna Placida)

Isidoro. Andiamo? (a don Berto)

Berto. Andiamo.... (parte)

Isidoro. Sia ringraziato il cielo. Propriamente non vedo l’ora di divorarmi quel pane unto bisunto ed abbrustolato. (parte)

SCENA XII.

Donna Placida ed il Servitore.

Placida. Dite a don Fausto, che venga innanzi. (al servitore che parte) Che dirà egli d’una sì lunga anticamera? è tanto compiacente, e tanto pien di rispetto, che son sicura, non saprà lamentarsene. Ma chiedo a me medesima, perchè ho saputo io trovare il pretesto per licenziare il signor capitano, e poi non ho fatto lo stesso con l’avvocato? Sarebbe mai cotesta una segreta insinuazione di amore? Ah, conviene badarci bene; da questi princìpi nascono poscia i maggiori impegni. No no, saprò vincere ogni passione, e terrò in guardia il cuore.

SCENA XIII.

Don Fausto e la suddetta.

Fausto. Temerei con ragione, che la mia sollecitudine nel tornare ad incomodarvi venissemi come importuna rimproverata, se certo non fossi di trovar grazia qua dove è situato delle grazie il fonte.

Placida. Dovrei io scusarmi, per avervi fatto soverchiamente aspettare, quando certa non fossi, che il vostro cuor generoso non accostuma di attender scusa per accordare il perdono.

Fausto. Signora, io mi rammento le vostre leggi ed i vostri comandi, ma quello che con impero voi mi chiedeste, io vi domando per grazia. Deh siate meno amabile, meno gentile, se volete che anche il mio cuore sia moderato ne’ suoi trasporti. [p. 477 modifica]

Placida. Come? Vi scordaste con quale impegno siete da me partito stamane? Non sapete voi, che io voglio essere padrona di me medesima? Che temo in voi un insidiatore? E che per darmi campo di potervi trattare, non dovete usar meco che una placidissima indifferenza?

Fausto. Protestovi con la maggiore costanza del mondo, che altro non desidero che obbedirvi, ma devo altresì confessare la mia debolezza, che mi fa temere di me medesimo. Quando sono da voi lontano, parmi d’avere un cuor sì forte, un animo così robusto, da non temere di perdere quella gloria che voi a sì caro prezzo mi proponete, ma nel mirarvi appena, e nell’ udirvi a ragionare sì tenera e sì gentile, ah il mio valor vien meno, s’infiacchisce lo spinto, e la passione trionfa. Dove s’intese mai, che in un legale conflitto sia colpa il far valere le sue ragioni a fronte dell’avversario? E pure al tribunal di Cupido perdo il merito del trionfo s’io vi conquisto, e se vi cedo il campo, non vi sagrifico niente men che la vita.

Placida. Altre sono le leggi del foro, altre sono quelle d’amore. Un valoroso legale gode nel pubblicare le sue vittorie, e un amatore discreto contentasi di tacere, e di nascondere le sue palme.

Fausto. Sì, mia vincitrice adorabile, nasconderò la vittoria, basta che voi mi diciate, che ho trionfato e vinto.

Placida. Nol dissi, e non isperate che il labbro mio ve lo dica.

Fausto. Ah, se il labbro tace, me lo dicono quei begli occhi.

Placida. Se gli occhi miei vi lusingano mio malgrado, fuggirò in avvenire l’incontro di rimirarvi. Temo le insidie vostre; non vi lusingo; andate.

Fausto. Vi ubbidirò. Prevalga il mio rispetto al più tenero, al più cocente amore. Ah, che son io costretto a perdere, nel momento medesimo che mi pareva di avervi vinta. (in atto di allontanarsi)

Placida. Don Fausto. (chiamandolo dolcemente)

Fausto. Mia signora. (rispondendo dolcemente)

Placida. Partite? [p. 478 modifica]

Fausto. Ah sì, pur troppo lo veggio; ogni lusinga è vana; son forzato a obbedirvi.

Placida. Ma non vi rammentate, che una cieca obbedienza può essere più pericolosa al mio cuore di qualunque altro contrasto.

Fausto. Posso dunque restare?

Placida. Restate (ohimè! parmi d’avere internamente una fiamma, che vadami ricercando per ogni viscera). (da sè)

Fausto. S’io resto, quei begli occhi sdegneranno più di mirarmi?

Placida. No, sì crudeli non sono. (mirandolo con tenerezza)

Fausto. Ah, se vi moveste a pietade!...

Placida. Vincer voi mi volete....

Fausto. Bastami che mi dite ch’io speri.

SCENA XIV.

Donna Luigia e detti.

Luigia. Sorella, perchè non venite a desinare anche voi?

Placida. Sì, ora vengo. Aspettava appunto che voi passaste (il soccorso è opportuno; se non veniva donna Luigia ero sul momento di perdermi, e di cadere). Andiamo, lo zio ci aspetta.

Fausto. Non potrebbe donna Luigia favorir di precedere per un momento?

Placida. No, no, scusate, dobbiamo andare. (con serietà)

Fausto. Ma terminate almeno....

Placida. Non ho altro da dire. (in atto di partire)

Luigia. Fermatevi. Non vuò che per mia cagione si differiscano gli affari vostri. Anderò da me sola; lasciovi in libertà. (Tutto per lei procura. Per me non vi è pericolo che possa sperar cosa alcuna). (parte)

SCENA XV.

Don Fausto e donna Placida.

Fausto. Posso dunque lusingarmi, che un giorno....

Placida. No, non vi lusinghiate di niente. Amo la libertade, e la sosterrò ad ogni costo. [p. 479 modifica]

Fausto. Tornino almeno quegli occhi ad essere men severi.

Placida. Senza del cuore questi occhi hanno delirato anche troppo. Di loro non vi fidate; siano torbidi, o siano sereni, non sono eglino interpreti sicuri della speranza.

Fausto. Se dall’amore passaste ad un rigore improvviso, spero ancora che dal rigore tornar possiate alla dolcezza primiera. Al tribunal d’amore giudice de’ miei pensieri e delle mie pene, tratterò la mia causa rispettoso avvocato, ed appassionato cliente. (parte)

SCENA XVI.

Donna Placida sola.

Pur troppo è vero; degli anni interi si soffre, si resiste, e in un momento il cuore e la ragione si perde. Ero a cader vicina, ero prossima a dichiararmi, se non veniva la germana a scuotermi dal mio letargo. Si dice, si propone, si fan degli sforzi per resistere, per contrastare. Ma ohimè! Nelle occasioni siam tenere, siamo umane, siam donne. (parte)

SCENA XVII.

Sala.

Don Sigismondo e poi don Isidoro.

Sigismondo. O di casa. Non ci è nessuno? la porta è aperta, e non si trovano servitori. O di casa. O di casa. (passeggiando) o di casa. (prende tabacco) o di casa, o di casa....

Isidoro. Chi grida in questa maniera, o di casa? (col tovagliuolo sul braccio, e in mano del pane, e qualche altra cosa da mangiare.)

Sigismondo. O di casa, o di casa. (passeggiando)

Isidoro. O di casa. (verso Sigismondo)

Sigismondo. O di ca... (incontrandosi con don Isidoro)

Isidoro. O di ca... (caricando don Sigismondo)

Sigismondo. Perdonatemi, che non vi aveva veduto.

Isidoro. Che vuole a quest’ora don Sigismondo? [p. 480 modifica]

Sigismorrdo. (Non so se abbia da confidargli, che vorrei vedere donna Luigia).

Isidoro. (Intanto mi divertirò con quest’osso). (mangiando)

Sigismondo. Don Isidoro, sono a tavola le signore?

Isidoro. Il pranzo è finito, ma io mi diverto con queste piccole galanterie.

Sigismondo. (Sarà meglio, che io faccia domandar donna Placida).

Isidoro. (Sarà meglio, ch’io vada a terminare quella bottiglia). (in atto di partire)

Sigismondo. Ehi, bel zitello.

Isidoro. Dite a me?

Sigismondo. Fate l’imbasciata alla vostra padrona.

Isidoro. Padrona? Io non ho padrona.

Sigismondo. Oh perdonate una piccola distrazione, credevo di parlare al servitore di casa. Vorrei vedere la signora.

Isidoro. Non come servitore, ma come amico di casa vi servirò.

Sigismondo. (Donna Luigia è una giovane assai ben fatta). (da sè, prendendo tabacco)

Isidoro. Mi figuro, che vorrete donna Placida.

Sigismondo. (È più giovane e più bella di donna Placida. La vorrei vedere da solo a sola. Spero che mi sarà permesso poter parlare con donna Luigia). (da sè, prendendo tabacco)

Isidoro. E così, volete che io la chiami?

Sigismondo. Mi farete piacere.

Isidoro. Volentieri. Per far servizio agli amici sono fatto a posta.

Sigismondo. Ma ditemi, non potrei avere il piacere di vederla sola senza la sua germana?

Isidoro. Perchè una vedova non potrà venir sola?

Sigismondo. Come! ancor ella è vedova?

Isidoro. Non lo sapete?

Sigismondo. Finora ho creduto ch’ella fosse fanciulla.

Isidoro. Ohibò, è stata maritata. È morto suo marito, ed ora forse vorrà di nuovo riprendere stato. Se voi avete per lei dell’inclinazione, ditelo a me, che io sono il suo confidente.

Sigismondo. A voi dunque mi raccomando. [p. 481 modifica]

Isidoro. Farò le parti di buon amico. Vado subito ad avvisarla. Trattenetevi, che verrà qui. (Cerco ogni strada di adoprarmi per donna Placida. Vorrei pur vedere di guadagnarla. Se no, non si mangiano le pernici). (parte)

SCENA XVIII.

Don Sigismondo, e poi donna Luigia.

Sigismondo. Placida non ha detto che sua sorella sia vedova; ma ciò non preme, tant’e tanto la stimo.

Luigia. (Ecco l’astratto. Mia sorella mi bada a dire, che sarebbe un buon partito per me; se non mi riesce aver l’avvocato, converrà che io mi adatti a questo).

Sigismondo. (Oh eccola. Don Isidoro è stato di parola). Compatite, signora, se ho ardito d’incomodarvi.

Luigia. Per me non mi è incomodo veruno.

Sigismondo. Avrei qualche cosa da comunicarvi.

Luigia. Parlate pure con libertà.

Sigismondo. Avreste difficoltà, che io passassi nel vostro quarto?

Luigia. Stupisco che domandiate una simil cosa.

Sigismondo. Perdonatemi; se foste fanciulla, avreste ragione di lamentarvi.

Luigia. Come! non sono io fanciulla?

Sigismondo. Non siete vedova?

Luigia. Io vedova?

Sigismondo. Me l’ha detto don Isidoro.

Luigia. Eh no, signore, sarà effetto di qualche vostra astrazione.

Sigismondo. Potrebbe darsi. Sono mortificatissimo... Chi non uscirebbe fuor di se stesso fissandosi in quel bel volto, vagheggiando quelle luci, le rose porporine di quelle guancie, quel labbro di rubino, quella bionda chioma, quell’amabile portamento? (si va distraendo a poco a poco, e si riduce a parlar da sè solo). (E se tanta bellezza esterna si presenta ai miei occhi, qual sarà la bellezza dell’animo? Una straordinaria dolcezza mi rapisce, m’incanta).

Luigia. (Che cosa va borbottando ha se medesimo?) (da sè) [p. 482 modifica]

SCENA XIX.

Don Anselmo e detti.

Anselmo. (Un uomo colla ragazza? che cosa fanno da solo a sola?)

Luigia. (Ecco il vecchio importuno). (da sè)

Anselmo. Sono capitato a tempo, signora.... (a donna Luigia)

Sigismondo. Al fine, che cosa mi può succedere? Mi piace, glielo voglio dire, e se vorranno che io la sposi, la sposerò. (da sé, passeggiando, e passando nel mezzo fra donna Luigia e don Anselmo) Signora, se voi gradite l’affetto mio, se donna Placida seconda il mio desiderio, farò quel che si conviene di fare, vi chiederò in isposa a don Berto.

Anselmo. Ehi padrone... (tirando don Sigismondo per la manica)

Sigismondo. Va in pace.... (dando a don Anselmo una pedata)

Anselmo. A me un insulto simile?

Sigismondo. Oh signore, perdonate, mi pareva di essere sulla strada, e che un povero m’insolentasse.

Anselmo. Il cielo ve lo perdoni, per me sono avvezzo a perdonare l’offese.

Luigia. (Questa volta la sua astrazione mi è piaciuta infinitamente). (da sè)

SCENA XX.

Donna Placida e detti, e poi Paoluccio.

Placida. (Don Isidoro non mi ha detto che vi fosse Luigia, ma ho piacere che ella vi sia). (da sè)

Anselmo. Qua qua, signora mia. Vedete il bel profitto dei vostri esempi e delle vostre lezioni. (a donna Placida)

Sigismondo. Signora, vi domando perdono, son qui venuto, secondo il concertato fra noi. (a donna Placida)

Anselmo. Concerti fraudolenti.

Placida. Voi, signore, come ci entrate? Andate a comandare a casa vostra, alle persone che da voi dipendono. Qui ora ci sono io; andate, che non vi è bisogno di voi. (a don Anselmo) [p. 483 modifica]

Anselmo. No, non voglio partire, voglio fare l’obbligo mio. Don Berto si fida di me; dite quel che volete, non partirò di qui certamente.

Placida. Restate pure, se restar volete. Son qui per trattare l’accasamento di mia sorella. Se questo cavaliere la desidera, si chiamerà don Berto, e voi servirete di testimonio.

Anselmo. No, non è questo il modo, io mi oppongo al contratto.

Sigismondo. Qual ragione avete di opporvi? (adirato contro don Anselmo)

Anselmo. (Non vorrei gli venisse qualche altra distrazione). (ritirandosi con un poco di timore)

Placida. E voi, sorella mia, non dite niente? (a donna Luigia)

Luigia. Per me non saprei che dire.

Sigismondo. Se donna Luigia è contenta.... (a donna Placida)

Anselmo. Protesto, che non si farà niente senza di me, e so io quel che dico; e non si farà niente senza di me; a mio dispetto, non vi riuscirà di superarla.... (mostrando sdegno e calore)

Paoluccio. Signora.... (a donna Placida)

Placida. Chi è venuto?

Paoluccio. È il signor capitano.

Anselmo. (Ohimè). Basta... il vedremo.... (timoroso, in atto di partire, sentendo l'arrivo del capitano)

Placida. Spiegatevi, cosa vorreste dire? (a don Anselmo)

Anselmo. Ah, se ciò succedesse! (lo direi, se non avessi paura del capitano). (parte)

Placida. Germana, viene dell’altra gente; andatevi a ritirare.

Sigismondo. Signora, mi raccomando alla vostra bontà. (a donna Luigia)

Luigia. Spiegatevi pure con mia sorella. (Le sue distrazioni qualche volta mi annoiano; ma può essere ancora, che qualche volta mi sian di comodo). (parte)

Placida. Fa che venga don Ferramondo. (a Paoluccio)

Paoluccio. Vado subito ad avvisarlo. (parte) [p. 484 modifica]

SCENA XXI.

Donna Placida e don Sigismondo, e poi don Ferramondo.

Sigismondo. Posso sperar che ella mi ami?

Placida. Io non dubito, che ella abbia per voi quella stima che meritate, ma vi consiglio andar subito dallo zio, prima che seco parli quel tristo vecchio. Egli, ve lo confido, aspira al cuore ed alla mano di mia sorella. Don Berto è debole, e lo potrebbe sedurre.

Sigismondo. Ora capisco il zelo di quell’impostore indiscreto. Ora sono in maggior impegno di conseguirla. La chiederò a don Berto; (in atto di partire furiosamente) la chiederò a don Berto... (va per partire, ed urta forte in don Ferramondo)

Ferramondo. Siete briaco? (rispingendolo)

Sigismondo. Che impertinenza è questa?.... (a don Ferramondo, incalzandolo)

Ferramondo. A me? non sai chi sono? (si ritira, ponendo la mano su la guardia della spada)

Sigismondo. Perdonatemi, signore, ch’io non vi aveva conosciuto. Un uomo, che poc’anzi era qui, mi ha fatto accender di collera.

Placida. Abbiate sofferenza, di già vi è noto il di lui difetto. (a don Ferramondo)

Sigismondo. Scusatemi, vi prego. (a don Ferramondo)

Ferramondo. Basta così, vi scuso. Con chi conosce aver torto, non soglio insistere villanamente.

Sigismondo. La collera qualche volta mi accieca. Sono soggetto ai trasporti della passione.... ma non vorrei che quel vecchio... Voglio prevenire don Berto. (parte) [p. 485 modifica]

SCENA XXII.

Donna Placida e don Ferramondo.

Ferramondo. Che ha don Sigismondo, che lo agita in cotal modo?

Placida. Combattono nel di lui seno e l’amore, e lo sdegno. Pare che egli desideri donna Luigia in consorte, non so se per vero amore, o per una specie d’impegno, poichè appena si può dire l’abbia egli veduta, smania e freme, temendo che un rivale gliela contenda.

Ferramondo. Che dice donna Luigia?

Placida. Ella vorrebbe fare la vergognosa, ma niente più desidera che maritarsi.

Ferramondo. Voi in ciò le siete favorevole, o pur contraria?

Placida. Io anzi procuro quanto posso sollecitar le sue nozze.

Ferramondo. Dunque, per quel ch’io sento, lo stato coniugale a voi rassembra il migliore?

Placida. Certo, lo sposo è un bene, per chi non l’ha ancora provato.

Ferramondo. E per voi che lo provaste, giudicate lo sposo un male?

Placida. So che la libertade è il maggior tesoro di questo mondo.

Ferramondo. Spiacemi, donna Placida, che abbiate fissata in cuore cotesta massima, spiacemi che divenuta siate nemica d’amore. Lo sapete, che io v’amo. Sperai fra i riposi di Marte trovare in voi le grazie del dio Cupido; ma poichè veggovi risoluta di non legarvi, nello stato libero in cui vi vedo, vi servirò eternamente.

Placida. Signore, io ho giurato di restar libera in sin ch’io viva.

Ferramondo. Si può dunque sperare, che amore vi riscaldi il seno?

Placida. Chi sa ch’io non mi senta un giorno accendere a mio dispetto?

Ferramondo. Quando è così, ripiglia il mio cuore i dritti suoi e le sue speranze. [p. 486 modifica]

Placida. Ma qual ragion vi può essere ch’io debbami per l’appunto accendere più di voi, che di un altro?

Ferramondo. Sono indegno d’amore.

Placida. Anzi voi ne siete degnissimo. Voi meritate amore, stima e rispetto, ma il cuore delle donne sapete già come è fatto, s’accende talora in un momento, all’improvviso, senza pensarvi. S’io avessi a scegliere un amante, non sceglierei certamente altro che voi; ma temo di me medesima, e posso ancora innamorarmi di un altro.

Ferramondo. Io non sarei capace d’innamorarvi?

Placida. Chi sa? potrebbe darsi.

Ferramondo. Per me, vi sentite niente pungere il cuore?

Placida. Non mi pare per ora.

Ferramondo. Quando son lontano, provate alcuna pena per la mia lontananza?

Placida. Quando siete lontano, per verità, non mi par di penare.

Ferramondo. Quando restai ferito nell’ultima battaglia, piangeste niente per il mio pericolo?

Placida. Io non mi ricordo d’aver mai pianto.

Ferramondo. Dunque voi non mi amaste finora.

Placida. Faceva anch’io la stessa considerazione.

Ferramondo. E in avvenire, che cosa poss’io sperare?

Placida. L’avvenire non lo sappiamo, nè voi, nè io.

Ferramondo. Come poss’io cercare di meritarmi l’affetto vostro?

Placida. Dirvelo a me non tocca, signore.

Ferramondo. Non basta che io vi consacri in dono tutto il mio cuore, tutti gli affetti miei, e la mia vita medesima?

Placida. Tanto bastar dovrebbe, ma accesa ancora non sono.

Ferramondo. Piacevi di essere vagheggiata? Piacevi di essere servita? Volete voi che l’amante non vi si stacchi dal fianco?

Placida. Oh no signore, se fossi anche innamorata, una simile assiduità mi annoierebbe infinitamente.

Ferramondo. Deggio comparirvi dinanzi in aria mesta, dolorosa e piangente? [p. 487 modifica]

Placida. Anzi al contrario, piacemi l’allegria, ed abborrisco queste idee malinconiche.

Ferramondo. Posso offerirvi il sangue, se lo volete.

Placida. Un capitan valoroso lo deve spargere per il proprio onore.

Ferramondo. Ma chi mai potrà innamorarvi?

Placida. Quello che saprà più piacermi.

Ferramondo. Io non lo sono finora?

Placida. Finora voi non lo foste. Una sorte, un incontro, un atomo può innamorare.

Ferramondo. Attenderò dunque il momento per me felice.

Placida. Attendetelo pure, ma se alcun altro è il primo, non vi dolete di me. Io bramo di vivere nella mia libertà; se cederò a nuove fiamme, non sarà per inclinazione, ma per destino, ed il destino che accende le fiamme in petto, dipone a suo volere indipendentemente dal cuore. Fate gli sforzi vostri. La piazza è ancora difesa. Ha degli assalti, è vero, ma non è ancora espugnata. Sa bene un capitan valoroso, che ad onta d’ogni difesa, la piazza non può resistere, quando l’assalitore è forte e sagace. Ma pure, ad onta ancora del valore, della forza e della più costante sagacità, quel che decide delle battaglie, è spesse volte il fato. (parte)

Ferramondo. Ma insegnami tu, Amore, quello che deggio far per innamorarla. Non anderò per ora lontano da queste soglie. Cercherò di essere il fortunato, e se per vincer la piazza non basterà l’assediarla, un capitano mio pari tenterà per assalto di soggiogarla.

Fine dell’Atto Secondo.


Note