La secchia rapita (1930)/Canto secondo

Canto secondo

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Canto primo Canto terzo

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CANTO SECONDO

ARGOMENTO

               Mandano i bolognesi ambasciatori
          due volte a dimandar la secchia in vano:
          onde con fieri ed ostinati cori
          s’armano quinci e quindi il monte e ’l piano.
          Chiama Giove a concilio i dèi minori,
          contendono fra lor Marte e Vulcano:
          Venere si ritira e si diparte,
          e ’n terra se ne vien con Bacco e Marte.


1
     Giá il quarto dí volgea che vincitori
diêr la rotta a’ Petroni i Gemignani,
e per l’ira che ardea ne’ fieri cori
restavano anco i morti in preda ai cani;
quando in Modana entrâr due ambasciatori
con pacifici aspetti e modi umani;
e smontati al Monton col vetturino,
chiesero a l’oste s’egli avea buon vino.
2
     Indi un messo spedîr per impetrare
cbe l’ordine ch’avean fosse ascoltato.
Cominciò il campanaccio a dindonare,
e in un momento s’adunò il senato.
Andâr gli ambasciatori ad onorare
Alessandro Fallopia e Gaspar Prato,
e li condusser per diritta strada
a la sala ove il duca or tien la biada.

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3
     Un vecchio ranticoso, affumicato,
pallido e vizzo, che parea l’inedia
e per forza tener co’ denti il fiato,
e potea far da Lazzaro in comedia;
poi che due volte intorno ebbe mirato,
incominciò così da la sua sedia:
— Messeri, io son Marcel di Bolognino,
dottor di legge e conte palatino.
4
     Il mio collega è conte e cavaliero,
e Ridolfo Campeggi è nominato:
io son uomo di pace, egli è guerriero;
io lettor de lo Studio, egli soldato.
Or l’uno e l’altro ha qui per messaggiero
il nostro Reggimento a voi mandato,
per iscusarsi del passato eccesso
che ’l popol nostro ha contra voi commesso.
5
     Il popol nostro è un popol del demonio,
che non si può frenar con alcun freno;
e s’io non dico il ver, che san Petronio
mi faccia oggi venir la vita meno.
Sará il collega mio buon testimonio,
che quando l’altra notte ei passò il Reno,
fu mera invenzion d’un seduttore,
né il Reggimento n’ebbe alcun sentore.
6
     Ma non si può disfar quel ch’è giá fatto:
d’ogni vostro disturbo assai ne spiace;
e siam venuti qua per far riscatto
de’ morti nostri, e ad offerirvi pace:
ma vogliam quella secchia ad ogni patto,
che ci rubò la vostra gente audace;
perché altramente andria ogni cosa in zero,
e ci scorrucciaremmo da dovero. —

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7
     Qui chiuse il Bolognino il suo sermone,
e rise ognun quanto potea piú forte.
Era capo di banca un Rarabone
Dal Tasso, arridottor cavato a sorte;
per sopra nome gli dicean Tassone,
perch’era grosso e avea le gambe corte.
Questi, poi che ’l senato in lui s’affisse,
compose il volto, e si rivolse, e disse:
8
     — Che ’l vostro Reggimento abbia mandati
due personaggi suoi sí principali
a scusarsi con noi de’ danni dati
e a condolersi de’ passati mali,
nostra ventura è certo; e registrati
ne fieno i nomi lor ne’ nostri annali.
A noi ancora in ver molto dispiace
de’ vostri morti, che Dio gli abbia in pace:
9
     e se per sotterrargli or qui venite,
la vostra ambascieria fia consolata;
ma quella pace che voi ci offerite
col patto della secchia, è un po’ intricata:
e convien aggiustar pria le partite
con cui voi dite che ve l’ha rubata;
perché di secchie non abbiam bisogno,
e ci crediam che favelliate in sogno. —
10
     Manfredi ch’era a quel parlar presente,
cavatosi il cappuccio, e in piè levato:
— Figlio è, disse, d’un becco, e se ne mente
chi vuol dir ch’io la secchia abbia rubato.
Di mezzo la cittá nel dí lucente
io la trassi per forza in sella armato:
e tornerò, se me ne vien talento,
dov’è quel pozzo, e cacherovvi drento.

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11
     Siete mal infermato, a quel ch’io veggio,
messer Marcello mio da un bolognino. —
— Cappita! disse il cavalier Campeggio,
voi siete bravo come un paladino.
Orsú, ripigliarem, ch’io me n’avveggio,
con le trombe nel sacco oggi il cammino:
ma, Gemignani miei, io vi protesto
che ve ne pentirete assai ben presto. —
12
     Rispondeva Manfredi; e ne potea
seguir scandalo grave entro ’l senato,
se ’l Potta allor non vi s’interponea
con modo imperioso e volto irato:
— Taci, frasca merdosa, egli dicea;
ché questo è ius antico inviolato,
che possa un messaggier dir ciò che vuole
senza render ragion di sue parole. —
13
     Cosí gli ambasciatori usciron fuore,
ed a la patria lor feron ritorno:
la quale il Baldi principal dottore
mandò con nuovi patti il terzo giorno;
e la terra offería di Grevalcore,
se la secchia tornava al suo soggiorno.
Fu il dottor Baldi molto accarezzato
e a le spese del publico alloggiato.
14
Poscia di nuovo s’adunò il conseglio,
dov’egli fu introdotto il dí seguente.
Il Baldi, ch’era astuto come veglio
e sapea secondar l’onda corrente,
incominciò: — Signori, esempio e speglio
d’onor e senno a la futura gente,
io rendo grazie a Dio che mi concede
di seder oggi in cosí degna sede.

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15
     E vengovi a propor cosa inudita,
che vi fará inarcar forse le ciglia.
Giace una terra antica, e favorita
de le grazie del cielo a meraviglia,
col territorio vostro appunto unita,
e lontana di qua tredici miglia.
Giá vi fu morto Pansa, e dal dolore,
nominata da’ suoi fu Grevalcore.
16
     Ancor dopo tant’anni e tanti lustri
il suo nome primier conserva e tiene;
furon giá stagni e valli ime e palustri,
or son campagne arate e piagge amene:
non han però gli agricoltori industri
tutte asciugate ancor le natíe vene;
ma vi son fondi di perpetui umori,
che sogliono abitar pesci canori.
17
     Le sirene de’ fossi, allettatrici
del sonno, di color vari fregiate,
e del prato e de l’onda abitatrici,
fanvi col canto lor perpetua state;
i regni de l’Aurora almi e felici
paiono questi; ove son genti nate,
che ne’ costumi e ne’ sembianti loro
rappresentano ancor l’etá de l’oro.
18
     Or cosí degna terra e principale
vi manda ad offerir la patria mia,
se quella secchia, che toglieste a un tale
de’ nostri, col malan che Dio gli dia,
quando i vostri l’altier fêr tanto male
e sforzarmon la porta che s’apría,
sará da voi al pozzo rimandata
pubicamente, d’onde fu levata.

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19
     Mentre vi s’offre la fortuna in questo,
di cambiare una secchia in una terra,
ricordatevi sol, che volge presto
il calvo a chi la chioma non afferra.
Se non cogliete il tempo, i’ vi protesto
ch’avrete lunga e faticosa guerra,
né potrete durare a la campagna,
che s’armerá con noi tutta Romagna. —
20
     Qui tacque il Baldi, e nacque un gran bisbiglio,
né fu chi rispondesse alcuna cosa:
ma si conobbe in un girar di ciglio
che la mente d’ognuno era dubbiosa.
Alfin per consultare ogni periglio
e non urtare in qualche pietra ascosa,
fecero al Baldi dir, ch’era presente,
ch’avrebbe la risposta il dí seguente.
21
     Il dí che venne, il cambio fu approvato,
e disser che la secchia eran per darla,
sottoscritto il contratto e confirmato,
a qualunque venisse a ripigliarla;
perch’altramente non volea il Senato
con atto indegno al pozzo ei rimandarla:
che in questo il Reggimento era in errore,
se credea di dar legge al vincitore.
22
     Il Baldi si scusò che non avea
ordine d’alterar la sua proposta,
ma che l’istesso giorno egli volea
ritornare a Bologna per la posta;
e se ’l partito a la cittá piacea,
avrebbe rimandato un messo a posta.
Cosí conchiuso il Baldi fe’ ritorno,
né si seppe altro fino al terzo giorno.

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23
     Il terzo dí, ch’ognun stava aspettando
che non avesse piú la pace intoppo,
eccoti un messaggier venir trottando
sopra d’un vetturin spallato e zoppo:
e tratta fuori una protesta o un bando,
l’affisse al tronco d’un antico pioppo,
che dinanzi a la porta di sua mano
avea piantato giá san Gemignano.
24
     Dicea la carta: — Il popol bolognese
quel di Modana sfida a guerra e morte,
se non gli torna in termine d’un mese
la secchia che rubò su le sue porte. —
Affisso il foglio subito riprese
il suo cammin colui, spronando forte
quel tripode animale; e in un momento
parve che via lo si portasse il vento.
25
     Qual resta il pescator che ne la tana
mette la man per trarne il granchio vivo,
e trova serpe o velenosa rana
o qual si voglia altro animal nocivo;
tal la gente del Potta altera e vana,
trovar credendo un popolo corrivo,
quando sentí quella protesta, tutta
raggrinzò le mascelle e si fe’ brutta.
26
     Ma come ambiziosa per natura,
dissimulando il naturale affetto,
mostrò di non curar quella scrittura,
e le minacce altrui volse in diletto:
non ristorò le ruinate mura,
non cavò de le fosse il morto letto,
né di ceder mostrò sembianza alcuna
a la forza nemica o a la fortuna.

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27
     Ma scrisse a Federico in Alemagna
quant’era occorso, e di suo aiuto il chiese:
la milizia del pian, de la montagna
a preparar segretamente attese:
fe’ lega per un anno a la campagna
col popol parmigian, col cremonese:
scrisse ne la cittá fanti e cavalli,
indi tutta si diede a feste e balli.
28
     La fama in tanto al ciel battendo l’ali
con gli avisi d’Italia arrivò in corte,
ed al re Giove fe’ sapere i mali
che d’una secchia era per trar la sorte.
Giove che molto amico era ai mortali
e d’ogni danno lor si dolea forte,
fe’ sonar le campane del suo impero
e a consiglio chiamar gli dèi d’Omero.
29
     Da le stalle del ciel subito fuori
i cocchi uscir sovra rotanti stelle,
e i muli da lettiga e i corridori
con ricche briglie e ricamate selle:
piú di cento livree di servidori
si videro apparir pompose e belle,
che con leggiadra mostra e con decoro
seguivano i padroni a concistoro.
30
     Ma innanzi a tutti il prencipe di Delo
sopra d’una carrozza da campagna
venía correndo e calpestando il cielo
con sei ginetti a scorza di castagna:
rosso il manto, e ’l cappel di terziopelo
e al collo avea il toson del re di Spagna:
e ventiquattro vaghe donzellette
correndo gli tenean dietro in scarpette.

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31
     Pallade sdegnosetta e fiera in volto
venía su una chinea di Bisignano,
succinta a mezza gamba, in un raccolto
abito mezzo greco e mezzo ispano:
parte il crine annodato e parte sciolto
portava, e ne la treccia a destra mano
un mazzo d’aironi a la bizzarra,
e legata a l’arcion la scimitarra.
32
     Con due cocchi venía la dea d’Amore:
nel primo er’ella e le tre Grazie e ’l figlio,
tutto porpora ed or dentro e di fuore,
e i paggi di color bianco e vermiglio;
nel secondo sedean con grand’onore
cortigiani da cappa e da consiglio,
il braccier de la Dea, l’aio del putto,
ed il cuoco maggior mastro Presciutto.
33
     Saturno, ch’era vecchio e accatarrato
e s’avea messo dianzi un serviziale,
venía in una lettiga riserrato
che sotto la seggetta avea il pitale.
Marte sopra un cavallo era montato
che facea salti fuor del naturale;
le calze a tagli, e ’l corsaletto indosso,
e nel cappello avea un pennacchio rosso.
34
     Ma la dea de le biade e ’l dio del vino
venner congiunti e ragionando insieme:
Nettun, si fe’ portar da quel delfino,
che fra l’onde del ciel notar non teme;
nudo, algoso e fangoso era il meschino,
di che la madre ne sospira e geme,
ed accusa il fratel di poco amore,
che lo tratti cosí da pescatore.

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35
     Non comparve la vergine Diana,
che levata per tempo era ita al bosco
a lavare il bucato a una fontana
ne le maremme del paese Tosco;
e non tornò, che giá la tramontana
girava il carro suo per l’aer fosco;
venne sua madre a far la scusa in fretta,
lavorando su i ferri una calzetta.
36
     Non intervenne men Giunon Lucina,
che il capo allora si volea lavare:
Menippo, sovrastante a la cucina
di Giove, andò le Parche ad iscusare,
che facevano il pan quella mattina,
indi aveano molta stoppa da filare;
Sileno cantinier restò di fuori,
per inacquare il vin de’ servidori.
37
     De la reggia del ciel s’apron le porte,
stridon le spranghe e i chiavistelli d’oro;
passan gli dèi da la superba corte
ne la sala real del concistoro:
quivi sottratte ai fulmini di morte
splendon le ricche mura e i fregi loro;
vi perde il vanto suo qual piú lucente
e piú pregiata gemma ha l’Oriente.
38
     Posti a seder ne’ bei stellati palchi
i sommi eroi de’ fortunati regni,
ecco i tamburi a un tempo e gli oricalchi
de l’apparir del re diedero segni.
Cento fra paggi e camerieri e scalchi
veníeno, e poscia i proceri piú degni;
e dopo questi Alcide con la mazza,
capitan de la guardia de la piazza:

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39
     e come quel ch’ancor de la pazzia
non era ben guarito intieramente,
per allargare innanzi al re la via,
menava quella mazza fra la gente;
ch’un imbriaco svizzero paría,
di quei che con villan modo insolente
sogliono innanzi ’l papa il dí di festa
romper a chi le braccia, a chi la testa.
40
     Col cappello di Giove e con gli occhiali
seguiva indi Mercurio, e in man tenea
una borsaccia, dove de’ mortali
le suppliche e l’inchieste ei raccogliea;
dispensavale poscia a due pitali
che ne’ suoi gabinetti il padre avea,
dove con molta attenzion e cura
tenea due volte il giorno segnatura.
41
     Venne alfin Giove in abito reale
con quelle stelle c’han trovate in testa,
e su le spalle un manto imperiale
che soleva portar quand’era festa;
lo scettro in forma avea di pastorale
e sotto il manto una pomposa vesta
donatagli dal popol sericano,
e Ganimede avea la coda in mano.
42
     A l’apparir del re surse repente
da i seggi eterni l’immortal senato;
e chinò il capo umile e riverente,
fin che nel trono eccelso ei fu locato.
Gli sedea la Fortuna in eminente
loco a sinistra, ed a la destra il Fato;
la Morte e ’l Tempo gli facean predella,
e mostravan d’aver la cacarella.

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43
     Girò lo sguardo intorno, onde sereno
si fe’ l’aer e ’l ciel, tacquero i venti,
e la terra si scosse e l’ampio seno
de l’oceàno a’ suoi divini accenti.
Ei cominciò dal dí che fu ripieno
di topi il mondo e di ranocchi spenti,
e narrò le battaglie ad una ad una,
che ne’ campi seguir poi de la luna.
44
     — Or disse, una maggior se n’apparecchia
tra quei del Sipa e la cittá del Potta:
sapete ch’è tra lor ruggine vecchia
e che piú volte s’han la testa rotta.
Ma nuova gara or sopra d’una secchia
han messa in campo; e se non è interrotta,
l’Italia e il mondo sottosopra veggio:
intorno a ciò vostro consiglio chieggio. —
45
     Qui tacque Giove, e ’l guardo a un tempo affisse
nel padre suo, che gli sedea secondo.
Sorrise il vecchio, e tirò un peto, e disse:
— Potta! i’ credea che ruinasse il mondo.
Che importa a noi se guerra, liti e risse
turban lá giú quel miserabil fondo?
E se gli uomini son lieti o turbati?
Io gli vorrei veder tutti impiccati. —
46
     Marte a quella risposta alzando il ciglio,
— O buon vecchio, gridò, son teco anch’io.
Che importa a questo eterno alto consiglio,
se stato è colá giú turbato o rio?
Chi è nato a perigliar, viva in periglio:
viva e goda nel ciel chi è nato dio.
Io, se la diva mia noi mi disdice,
l’una e l’altra cittá farò infelice.

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47
     Sazierá doppia strage il mio furore;
di corpi morti inalzerò montagne;
farò laghi di sangue e di sudore,
e tutte inonderò quelle campagne. —
— Cavalier, disse Palla, il tuo valore
san cantar fin le trippe e le lasagne;
sí che indarno ti studi e t’argomenti
di farlo or noto a le celesti menti.
48
     Ma s’hai desio di qualche degna impresa,
facciam cosi: va’ tu coi Gemignani;
ch’io sarò de’ Petroni a la difesa,
e ti verrò a incontrar lá su que’ piani.
Bologna sempre fu a’ miei studi intesa;
onde tenermi a cintola le mani
or non debbo per lei. Tu meco scendi,
se palma di valor, se gloria attendi. —
49
     A quel parlar si levò Febo, e disse:
— Vergine bella, i’ verrò teco anch’io
in favor di Bologna, ove ognor visse
l’antico studio de le Muse e mio. —
Bacco, che in Citerea le luci fisse
sempre tenute avea con gran desio,
— Cosí dunque, rispose in volto irato,
fia il popol mio da tutti abbandonato?
50
     La cittá ch’ognor vive in feste e canti
fra maschere e tornei per onorarmi,
c’ha sí dolce liquor, vedrá fra tanti
travagli suoi qui neghittoso starmi?
Bella madre d’Amor, che co’ sembianti
puoi far vinta cader la forza e l’armi,
tu meco scendi, ch’io farò a costoro
di stoppa rimaner la barba d’oro. —

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51
     Sfavillò Citerea con un sorriso
che dicea: — Bacia, bacia, anima accesa; —
e gli diede col ciglio a un tempo aviso,
che sarebbe ita seco a quell’impresa.
Marte che ’n lei tenea lo sguardo fiso,
avido di litigio e di contesa,
vedendo ch’ella avea d’andar desio,
disse: — A la fé, che vo’ venir anch’io.
52
     Gite voi altri pur dove v’aggrada,
ch’io vo’ seguir de la mia diva i passi;
dov’ella volge il piè, convien ch’io vada,
e quei di voi, ch’ella abbandona, lassi.
Per lei combatte questa invitta spada
e questa destra; ed or per lei vedrassi
il Panaro gonfiarsi, e in atto strano
portar soccorso al Po di sangue umano. —
53
     Sorrise Palla, ma con occhio bieco
rimirollo Vulcan ch’era in disparte;
e disse: — Empio sicario, adunque meco
comune il letto avrai per ricrearte?
E Giove stesso accorderassi teco
nel vituperio di sua figlia a parte?
Per Stige, ch’io non so chi mi s’arresta
ch’io non ti do di questo in su la testa. —
54
     E strignendo un martel ch’al fianco avea,
sollevò il braccio, e di menar fece atto.
La manopola allor, ch’in man tenea,
lanciògli Marte, e balzò in piedi ratto,
sgangherato gridando: — Anima rea,
t’insegnerò ben io di starti quatto. —
Giove che vide accesa una battaglia,
stese lo scettro, e disse: — Olá, canaglia!

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55
     Dove credete star? giuro a Macone
ch’io vi gastigherò di tanto ardire:
venga il fulmine tosto. — E l’Aquilone
il fulmine arrecògli in questo dire.
Vulcan tratto a’ suoi piedi in ginocchione
chiedea mercede e intiepidiva l’ire,
lagrimando i suoi casi e l’empia sorte,
ma piú l’infedeltá de la consorte.
56
     Citerea, che si vide a mal partito,
per una porticella di nascosto
da lo sdegno del padre e del marito,
mentre questi piagnea, s’involò tosto:
e dietro a lei, senza aspettar invito,
corsero il dio de l’armi e ’l dio del mosto:
ella in terra con lor prese la via,
e in mezzo a lor dormí su l’osteria.
57
     Gli abbracciamenti, i baci e i colpi lieti
tace la casta Musa e vergognosa;
da la congiunzion di que’ pianeti
ritorce il plettro, e di cantar non osa;
mormora sol fra sé detti segreti,
ch’al fuggir de la notte umida ombrosa
fatto avean Marte e ’l giovane tebano
trenta volte cornuto il dio Vulcano.
58
     L’oste di Castelfranco un gran pollaio
con uova fresche avea quanto la rena:
ne bebbero i due amanti un centinaio,
che smidollata si sentian la schiena;
ma la diva ne volle solo un paio,
che d’altro forse avea pancia piena.
La diva, per non dar di sé sospetto,
presa la forma avea d’un giovinetto.

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59
     Di candido ermesin tutto trinciato
sopra seta vermiglia, era vestita,
con un colletto bianco e profumato,
calzetta bianca, e cinta colorita:
di bianco il piè leggiadro era calzato:
non si potea veder piú bella vita:
un pugnaletto d’or cingeva al fianco,
e nel cappello un pennacchietto bianco.
60
     Ma l’oste ch’era guercio e bolognese,
tanto peggio stimò ne’ suoi concetti,
quando corcarsi in terzo egli comprese
l’amoroso garzon fra tanti letti.
Sgombrarono gli dèi tosto il paese,
che di colui conobbero i sospetti;
temendo che ’l fellon con falso indizio
non gli accusasse quivi al Malefizio.
61
     A Modana passâr quella mattina,
e ritrovâr che vi si fea gran festa:
un palio di teletta cremesina
correasi, a fiori d’or tutta contesta.
Vedendo quella gente pellegrina,
ognuno a gara ne facea richiesta;
e molti li tenean per recitanti
venuti a preparar comedie inanti.
62
     Dicean che Marte il capitan Cardone,
e Bacco esser dovea l’innamorato,
e quel vago leggiadro e bel garzone
esser a far da donna ammaestrato.
Cosí a le volte ancor fuor di ragione
si tocca il punto; e molti han profetato,
che si credean di favellare a caso:
la sorte ed il saper stanno in un vaso.

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63
     Poscia che passeggiata a parte a parte
ebber gli dèi quella cittá fetente,
e ben considerato il sito e l’arte
del guerreggiare e ’l cor di quella gente,
a un’osteria si trassero in disparte,
ch’avea un trebbian di Dio dolce e rodente;
e con capponi e starne e quel buon vino
cenaron tutti e tre da paladino.
64
     Mentre questi godean, da l’altro canto
Pallade e Febo eran discesi in terra;
e concitando gían Bologna intanto
e le cittá de la Romagna, in guerra.
Quanto è dal Reno al Rubicone, e quanto
tra ’l monte e ’l mar quivi s’estende e serra,
s’unisce con Bologna, e s’apparecchia
di gir con l’armi a racquistar la secchia.
65
     L’intesero gli amanti, e a la difesa
prepararono anch’essi i lor vassalli.
Bacco chiamò i tedeschi a quell’impresa,
e andò fin in Germania ad invitalli.
Essi, quand’ebber la sua voglia intesa,
in un momento armâr fanti e cavalli,
benedicendo ottobre e San Martino,
e sperando notar tutti nel vino.
66
     Marte restò in Italia a preparare
la milizia di Parma e di Cremona:
Venere disse che volea tentare
di far venir un re quivi in persona;
e passando dov’Arno ha foce in mare,
si fe’ da le Nereidi a la Gorgona
portar, e quindi a l’isola de’ Sardi,
ricca di cacio e d’uomini bugiardi.