La scapigliatura e il 6 febbrajo/XI
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CAPITOLO UNDECIMO.
Emilio comincia a rivelarsi.
Per poco che i miei lettori abbiano tenuto dietro con attenzione al filo del racconto, si saranno avveduti che gli avvenimenti narrati finora non occupano che lo spazio di quarantott’ore, vale a dire dalla mattina del giovedì, giorno 3 febbraio 1853 fino alla sera del 4, in cui avvenne appunto la scena descritta nell’ultimo capitolo, e il convito di Emilio all’albergo del Rebecchino.
Emilio verso le tre ore di notte — dopo aver accompagnata a casa la Gigia, che, chiusa nel suo dolore, non gli avea mossa parola lungo la strada — si fermò un momento sulla soglia della di lei porta, e si guardò intorno con un certo sospetto; poi, come se quel breve esame lo avesse rassicurato, zufolando a sordino il Guerra Guerra della Norma, si avviò.
La contrada, dove abitava la Gigia, che porta il nome della nutrice di Bacco, da un lato mette capo sulla piazzetta della Torre de’ Moriggi, dall’altro sul corso di porta Vercellina. Emilio prese da questa; attraversò il corso; tirò via per S. Giovanni sul muro, e sboccò in piazza Castello. Giunto quasi allato del vestibolo della Madonnina, si fermò, e si mise a considerare il bruno edificio del castello quasi perduto nelle tenebre, che gli sorgeva dinanzi a un tiro di fucile.
Era una bella notte, e per gli interminabili spazi del firmamento brillavano rade e lucenti le stelle, che pronosticavano, pel domani, una bella giornata. Tirava una brezza mite e imbalsamata, di quelle che sul cadere dell’inverno pare annuncino l’arrivo d’una primavera, che poi non si vede mai. Nella piazza regnava un silenzio profondo, che lasciava udire distintamente i radi rumori della notte: qualche canto di gallo mattiniero, qualche fioco allarme di scolta, qualche lontano tocco d’orologio che segnava le tre e un quarto. V’era un’oscurità uniforme di notte senza luna, rotta soltanto da certi chiarori lontani e foschi che dinotavano le finestre illuminate di qualche casa sulla corsia di porta Comasina.
Dopo essere stato un po’ di tempo immobile a gustar quel silenzio e quella solitudine, Emilio si volse per ripigliar il cammino, quando colla coda dell’occhio vide, o gli parve di vedere, un’ombra d’uomo muoversi rapida fra i pilastri dell’atrio della vicina chiesa.
— L’angelo custode! — sclamò stringendo i pugni di rabbia — Ah voleva ben dir io che stanotte non t’avessi alle spalle!
E dato intorno un rapido sguardo, per assicurarsi di non essere sorvegliato da altri, si slanciò verso il luogo dove aveva intravveduto sparire quell’ombra.
— Eccolo! — gridò scorgendo di nuovo il fantasima scivolar fuori dell’atrio, e darla a gambe giù per la piazza.
Allora, a tutta corsa, si diede a inseguirlo nell’oscurità. Cogli occhi intenti, coi denti stretti, colle dita arroncigliate e pronte a ghermire, ei volava, volava veloce, come segugio sull’orme della volpe. E già gli pareva di raggiunger quell’ombra fuggitiva, quando, accortosi a un tratto che la gli era sfumata dinanzi, si fermò a riprender fiato, a scrutar nel buio se gli venisse fatto di scoprirla di nuovo, e tese l’orecchio.
La contrada che gli si apriva dinanzi, sebbene deserta e silenziosa, era però animata da un certo vago e indistinto brulicar di rumori, che ronzavan, per così dire, nell’aere, e che si potrebbero chiamare i bisbigli notturni del carnevale. Erano fioche note di istrumenti musicali, che partivano da qualche casa dove si ballava... portate dalla brezza, e coperte di quando in quando da qualche più distinto schiamazzo di maschere ebbre ed urlanti.
Perduta ogni traccia dell’inseguito, Emilio imboccò la contrada, e, dati pochi passi, si accorse di uno strepito confuso di voci, di canti e di zufoli, che si avvicinava. Era prodotto da un grosso branco di maschere che spuntato poco dopo da una contrada di fianco si avviava frettoloso verso porta Comasina.
Innanzi a tutti camminavano a lesti passi certi due figuri, camuffati in una maniera così eteroclita e strana, che non si avrebbe potuto immaginare di più.
Al primo cingeva il capo un certo negozio, che si accordava col resto del suo abbigliamento, come un elmo da crociato sulla testa di un notaio, in veste da camera, che stia prendendo la sua cioccolatta coi crostini. Era una specie di sudicio turbante, che scintillava ancora qua e là per un avanzo di orpello e di lustrini, mentre la stoffa, che un giorno doveva essere stata bianca, faceva gara di giallore colla faccia sottoposta. Indosso portava una di quelle giubbone ricamate, che i nostri progenitori usarono un dì colla borsa sulla cuticagna, e l’elsa di un inutile spadino inchiodato nel fodero; sotto a questo un gran panciotto che gli scendeva quasi fino ai ginocchi, e che tanto tanto non faceva a pugni coll’abito; un paio di pantaloni di frustagno; e finalmente due scarpe scalcagnate di marocchino per metà bianche e per metà vermiglie.
L’altro, che camminava a braccio di costui, con una faccia lercia e malvagia come il vizio in persona, vestiva una di quelle maschere che il nostro volgo, con voce di suo conio, chiama la vecchia bacucca. Quel viso maschile con tanto di baffi, raccolto in una enorme cuffiaccia tutta a trine sgualcite faceva un effetto singolare. Brandiva egli un bastone, a cui da cima era attaccata una vescica rigonfia, e con quella, volgendosi indietro, andava percuotendo or l’uno or l’altro de’ suoi compagni di sollazzo.
Emilio si tirò in disparte per lasciarli passare senza essere veduto. Ma il primo di quei due popolani, adocchiatolo, si staccò dalla vecchia, e gli si fe’ incontro.
— Signor Digliani, mio padrone, la riverisco; — diss’egli con voce arrochita — Finalmente che lo si può allumare, lo si può! Cosa vuol dire?
— Ah sei tu, Lisandro?! — sclamò Emilio dopo averlo sbirciato da tutte le parti — Chi diamine ti avrebbe riconosciuto in questi panni?
— Eh messire che vuole? Si fa come si può. Una volta l’andava un po’ migliore d’al presente. È un costume questo che ho inventato io, ho inventato. Il signor Niso, che m’incontrò anche lui prima di entrar in teatro, ne fece una sgangherata.
— E dove andate?
— Andiamo laggiù alla Foppa a soffiare un tantino nella vetriuola prima di tornar in teatro a danzar l’ultimo.
— E i compagni non t’aspettano?
— Eh! li troverò li apostoli; — rispose Lisandro — Ci siam dato il santo laggiù, dove ce n’è del buono.
— E chi sono?
— Chi gli apostoli?
— Sì.
— Eh sa bene, i soliti. C’è lo Spadon dei dodici...
— Paolino?
— Sì; poi c’è il Disma e il Michele colle rispettive smilze; — e s’accarezzò il mento — poi c’è il Gabiola e due altri del Borgo che lei non conosce.
— Se l’avessi saputo... — sclamò Emilio, quasi fra sè, attorcigliandosi i mustacchi colla sinistra.
— Ah! c’è anche il Fanfirla che mi scordavo; — interruppe Lisandro che stava contando i suoi compagni sulle dita — e pago io.
Così dicendo aprì le braccia in atto di chi offre, e soggiunse:
— Se posso? da povero figliolo.
— Vestito così, no; — rispose Emilio sotto voce — darei troppo nell’occhio; ma giacchè mi hai detto che c’è Paolino, ci verrò, perchè debbo parlargli.
— A proposito; — sclamò Lisandro con mistero — è già una settimana che egli aspetta vossignoria per aver ordini, e che si meraviglia di non vederla venire.
— Si meravigli pure; io faccio quello che mi par meglio, e non sta da lui il giudicarmi.
— Ma la pensi che siamo sotto sotto...
— Sotto a che cosa?
— Ah! lei vuol farmi l’indiano adesso, caro signore; non va bene.
— Ti prego a credere, — proruppe Emilio aspramente, ma senza alzar la voce — ti prego a credere che io non ho menomamente bisogno di far l’indiano. Ti domando che cos’hai voluto dire?
— Ho voluto dire che per domani sera è fissato il colpo, e che gli altri hanno già ricevuto il denaro e gli stili.
— Come sai tu questo? — sclamò Emilio prendendogli il braccio.
— Me lo ha detto Paolino.
— Dunque volete proprio farvi impiccare?
— Eh impiccare! Ci dobbiamo essere anche noi! Vedremo se saranno loro che impiccheranno noi, o noi che impiccheremo loro.
— Ma, o disgraziati, non capite che è impossibile! — lo interruppe Emilio. E s’arrestò. — Basta! Quello che ti posso dire si è che di stili non ne voglio sapere... sarà un pregiudizio ma è così. Da oggi io non c’entro più per nulla con voi; cercatevi un altro capitano. Morire a me non m’importa nulla, ma quando c’è una probabilità di riuscita... Via, credilo a me; vi farete impiccar tutti... e sarete chiamati assassini...
— Venga a parlar con Paolino. A sentirlo lui la cosa è già bell’e fatta.
— Verrò, ma ti ripeto, non in questi abiti; giacchè posso travestirmi sarebbe imprudenza il farsi conoscere da tutta quell’altra gente che ci sarà laggiù...
— Questo è vero; in quanto di dire a dire sono tutti figlioli della legge; ma non si sa mai; è sempre meglio star in campana.
— Bene; in men d’un’ora capiterò anch’io. A rivederci, Lisandro.
E spiccatosi da lui si diede a lestissimi passi giù per la contrada, chè gli era sembrato di vedere nuovamente l’ombra del suo angelo custode passar poco lungi dal luogo dove stava conversando col popolano.
— Sì; bisogna finirla! — sclamò poi fra sè, quando fu lontano di là, rallentando il passo — Bisogna che io esca totalmente da questi infami lacci. Meglio essere tenuto per poltrone che per assassino. Chi mi conosce sa che non sono un vile. Degli altri che m’importa? Infine, dei miei amici non sono rimasto che io fra questi ribaldi!... Volessero almeno capir la ragione...! Ma ormai tutto è impossibile. Povera gente, come s’illudono! Saranno presi tutti e impiccati, come è vero che adesso è notte buia. È d’uopo uscirne; è d’uopo uscirne... Domani sarò libero... Era tempo che avesse fine questa vita! Però non del tutto libero! Quel Paolino mi spaventa sempre... Maledetto chi me lo mise tra i piedi. Da un momento all’altro egli può denunciarmi... Non sarei il primo... In prigione... giudizio statario... la sentenza... condotto fuori... e là dinanzi l’orribile palo...
Ma che! — sclamò rinvenendo a un tratto dalla truce fantasia — Avrei io paura? Stolido, imbecille che io sono! Che sia il sciampagna del Rebecchino che mi dà di queste debolezze? Gran che, la morte! Non l’ho io già sfidata cento volte a quest’ora? La forca!? È una morte come un’altra. Perchè averne ribrezzo più che di una palla? Una palla ti può tenere inchiodato a letto un anno fra i tormenti... la forca no;... dicono anzi che dia un certo piacere...; ha i suoi vantaggi!... E poi quel poter gridare una volta viva l’Italia sul loro mostaccio... che gioia tremenda deve essere!... più che impiccarmi non ponno fare!... poter dir loro delle parole sanguinose prima di morire... al cospetto dei miei concittadini che verranno a vedermi salire sul palco... E Noemi?
Questo nome caro e soave che si gettò a un tratto, e quasi suo malgrado, attraverso alle sue bieche fantasie, questo nome che gli ridestò tutte le splendide e belle emozioni della sua vita d’amore, lo turbò fieramente.
— Maledetta la politica! — sclamò — maledetti i Tedeschi, maledetti i tempi! Cara Noemi! Dire ch’io l’ho già fatta piangere coi miei malumori... Sì! Maledetta la politica! Che cosa mi sarebbe mancato per essere felice, se avessi voluto star lontano da queste orribili faccende? Ormai ho denaro... ho una posizione... ho quella donna che soltanto sei mesi fa mi pareva sacrilegio a pensare di poterla possedere... così bella!... così invidiata da tanti cuori!... che mi ama... ch’io amo... perchè l’amo, perchè sento che anche in mezzo a queste angoscie, che mi tocca di dissimulare a tutti..., sento che l’amo come un pazzo... Povera e cara Noemi!... Oh ma fra poco uscirò da queste strette... sarò liberato da queste paure. Paolino con un po’ di denaro e un po’ di minacce lo si rende quieto come un agnello... Gli dirò che ogni rapporto è troncato fra noi... se potrò, cercherò di distoglierlo anche lui. E allora la mia vita sarà tutta a te dedicata, angelo mio!
Così, sbalestrato da una fantasia all’altra, Emilio era giunto innanzi alla porta di casa propria in contrada del Lauro. Schiuso lo sportello, entrò; fece le scale... e dopo aver acceso un lume nell’anticamera del proprio alloggio, passò nella stanza da letto, andò ad un armadio, levò da un cassetto del denaro, se lo cacciò in tasca; ritornato quindi, in anticamera, staccò da un chiodino, che era in un’imposta dell’uscio, una chiave che trascelse fra varie che vi stavano infilate; poi, montato fino al quinto piano, schiuse con quella un usciolo ed entrò in una soffitta dov’ei teneva certe carte, certi libri e certi arnesi, che non si fidava a tenere nella sua camera.
Entrato, si cavò il soprabito, lo gettò su un lettuccio, e fattosi verso l’abbaìno, ne aprì l’imposta, posò i gomiti sul davanzale e stette un momento a mirare la sottoposta scena.
— Ecco Milano! — sclamò. Al chiarore di una luna limpida e piena che si levava in quel punto, gli si offerse dinanzi la multiforme e svariata distesa dei tetti, dei campanili e delle cupole, e gli arrivò all’orecchio, nel solenne silenzio della notte, lo strepito ignobile di gente scorrazzante per le vie.
— Va, divertiti, — continuò egli colla pertinacia ironica di chi ha le lune a rovescio — divertiti, povera città di Belloveso... forse sono gli ultimi strepiti. Fra due giorni chissà come ti hanno già conciata... se quei pazzi non desistono dalle loro idee...
Si tolse dall’apertura dell’abbaìno, andò ad una cassa, ne tirò fuori alcuni abiti da maschera, si travestì; poi, rifatta la strada, uscì nuovamente di casa, e s’avviò all’osteria della Foppa.
La Foppa era — anzi è ancora — una bettolaccia sul corso di Porta Comasina, laddove esso si allarga a formar quel crocicchio, che adesso si chiama il Largo Garibaldi. Chi passando di là, al giorno d’oggi, volgesse lo sguardo in quell’osteria, vedrebbe facilmente seduta al banco presso l’uscio una giovine donna, belloccia anzichenò, l’attuale ostessa... la quale va discretamente orgogliosa del proprio negozio. La Foppa infatti era già fin dal 1848 un’osteria storica, rammentata nelle cronache cittadine come teatro delle sanguinose gesta del 3 gennaio. La notte in cui accadevano i fatti del mio racconto l’ostessa non rallegrava colla sua presenza quell’antro immondo. Invece sedeva al suo posto un uomo di mezza età, che si avrebbe potuto chiamare il fratello carnale del famoso oste dei Promessi Sposi: “occupato in apparenza in certe figure che faceva e disfaceva colle molle... ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui.„
Intorno a lui, seduti a desco, se ne stavano, parte in maschera, parte ne’ consueti panni, da trentacinque a quaranta persone, tra maschi e femmine, le quali andavano cercando alla loro maniera un po’ di quell’ente astratto di cui siamo tutti così sitibondi, e che si chiama la felicità.
Dicono certuni che la felicità sia una vana parola, e che non la si possa trovare su questa terra. A parer mio costoro dicono una minchioneria, ed hanno per avventura il torto di confondere l’idea della felicità terrena con quella che ci è promessa nell’altra vita, vale a dire una specie di estasi perenne, beata, ineffabile, della quale non c’è che una gran fede che valga a persuaderci che non ce ne dovremo annoiare mortalmente. Ma la felicità di quaggiù, per essere gustata, ha bisogno di confronti e di contrasti; e chi di sua vita non ha mai versato lagrime di sangue, non potrà dire d’essere stato qualche volta felice.
Io, per me, se, in un bel mattino d’autunno, dal cucuzzolo d’un monte del mio caro lago, m’avvien di mirare sorgere grado a grado il sole dall’opposta catena, e indorarsi all’intorno la vasta contrada, e allegrarsi del suo divino sorriso il vasto piano delle acque, e ascolto elevarsi il misterioso concento di mille armonie all’intorno, quasi un saluto di gioia, provo nell’anima non peranco inaridita un palpito sempre nuovo e spontaneo, che mi parla di felicità e di speranza, di riconoscenza e di amore.
Quella gente là dell’osteria, invece cercava la propria felicità nel fondo d’un bicchiere. E perchè no?
Quando io vedo un ubbriaco povero, penso alla infelicità di quello sventurato, che non seppe trovar altro conforto che nel vino, e che, forse per dimenticare la propria miseria, ha perduto bevendo l’uso della memoria, della favella e delle gambe.
A destra dell’uscio d’ingresso cinque popolani stretti in circolo intorno ad un confratello cantavano in coro. Il maestro dilettante — lo Spadon dei dodici — batteva il tempo con una sicurezza ed una prosopopea degne addirittura d’un Paganini o d’uno Strauss, e lanciava fiere occhiate a destra e a sinistra sui meno intonati. La patetica melodia: un coro della Muta di Portici — dei portici, secondo lui — fluiva raucamente da quelle rozze gole, ma con mirabile accordo, tantochè se il maestro fosse stato presente non avrebbe udito falsare una nota sola della sua geniale ispirazione.
Non così accadeva, ahimè! del povero libretto, di cui facevano essi pressapoco lo strazio che i letterati francesi fanno de’ nostri poeti.
Dice il libretto:
- . . . . . . . amico
- Il piccol legno ascendi,
- È limpido il mattin;
- La preda, ecc...
E il coro cantava:
- Amic, el piccol lume accendi
- È lampito, è lampìto il mattin;
- La frega è del saccaci
- Pria che ci sfugga l’ognor
Che bisogno poi ci avessero di accender un lume mentre era già sorto il mattino, non ve lo saprei veramente dire.
Poco lungi dal filarmonico cerchio, quattro maschere curvate sul desco giuocavano fragorosamente alla morra.
Il giuoco della morra, per chi non lo conoscesse, consiste nel gridare a due voci più o meno sgarbatamente uno dei nove numeri che stanno compresi fra l’uno e l’undici, e nel mostrare al tempo istesso un numero qualunque di dita della mano destra, in modo che sommato con quello della mano avversaria, abbia a produrre appunto il numero gridato.
Chi primo arriva a una certa quantità di punti è vincitore.
Dicono volerci a giuocarla molto talento, o almeno molta prontezza; ed io lo credo benissimo, giacchè le poche volte che m’avvenne di trovarmi in partita, mi toccò sempre di pagar lo scotto. Figuratevi che ero capace di mandar giù quattro dita, o anche la mano aperta, e di gridare con tutta la forza dei polmoni: tre.
Un quinto che stava daccanto alla partita e sorvegliava i punti era il gentiluomo, quello che in fiorentino si chiama: il Signore.
Era un ragazzaccio di diciott’anni, chiamato da’ suoi compagni Fanfirla. Fanfirla in gergo vuol dir tabacchiera, chè, essendo stato l’oggetto del suo primo furto, glien’era restato per gloriosa memoria il soprannome.
— E dodici! — gridò egli ai giuocatori, portando un bicchiere alle labbra e facendo lo scoppietto colla lingua — Accidenti! che bel punto, Lisandro.
— È un pezzo che lo velettava, figliol d’una negra! — gridò questi, che aveva vinto la partita.
— Alla bella, alla bella! — grugnì l’altro che perdeva — qua, Lisandro, attacchiamo.
Il vincitore gli fe’ cenno colla mano di posare un minuto; versò da bere; levò i bicchieri un dopo l’altro dal vassoio di peltro, sporgendoli ai tre compagni; poi, col proprio, invitò Fanfirla a toccare, dicendo:
— Viva noi e crepino i signori. — Ci diè una buona tirata; si forbì colla manica la bocca; quindi la partita ricominciò con nuova lena, e confuse il suo monotono schiamazzo all’armonia del coro ed al vociare degli altri bevitori.
Fanfirla intanto, stufo di star lì a badare i punti, si era voltato a destra verso tre donne vestite da lapoff, che facevano un diavolo a quattro di risa, di grida e di urtoni colla vecchia bacucca, mentre una quarta, seduta malinconica in un cantuccio, teneva fissati gli occhi in viso ad un pompiere, che stava presso il banco aspettando il resto dall’oste.
Il monello, colse a volo un segno di intelligenza fra quella ragazza e il pompiere, e, fattosi in viso arcigno, le si accostò, e le disse a mezza voce:
— Pendolina, figlia di baldracca, sta in campana o che ti scaccio io le mosche come va.
La creatura a cui erano indirizzate queste parole volse al monello un viso di sedici anni non più, che nella mezza luce d’una lampadaccia appesa al soffitto, si sarebbe detto esser quello d’un angelo, se non fosse stato impudico e turbato come quello di una donna da conio.
— Che cosa c’è? — chiese ella strisciando sull’ultima sillaba, e allungando il collo verso Fanfirla, cogli occhi biechi — Che cosa c’è?
— C’è che, se non la finisci di ammiccare col guerrier d’acqua io comincio a sonar la solfa, io comincio.
— Sonar la solfa a me? Sonar la solfa a me? Pover’uomo!
— Te lo darò io il pover’uomo se non smetti.
— Ma pròvati un po’, se sei da tanto; pròvati un po’...
— Ch’io mi provi, scappata dalle forche? — disse Fanfirla — Volta un po’ ancora il luminoso al guerrier d’acqua; vedrai se mi provo.
La ragazza volse lentamente il capo verso il banco dell’oste, e fissò amorosamente il pompiere, che intascato il resto, stava per andarsene.
— Ah! malnata, strega, sgualdrina; — borbottò fra’ denti Fanfirla: e di simili improperii ne infilzò un’altra mezza dozzina — vedrai se mi provo... vedrai, — seguitava dimenandosi nei panni aspettando che il pompiere se ne andasse — vedrai se mi provo.
E non appena l’uscio della bettola si fu chiuso dietro a colui, che avventarsi contro la ragazza e scrosciar la tempesta fu un punto solo.
La Pendolina si curvò sotto i pugni senza far atto di difesa o di dolore. Si sarebbe anzi detto che un sorriso di intima soddisfazione le avesse allegrata la faccia al cominciare di quella dirotta. Ma come poi Fanfirla seguitava con una certa insistenza indiscreta, la ragazza pensò di spiegar anch’essa le unghie e, alzate le mani, lo graffiò sul viso.
A quel segno di rivolta il monello perdette il lume degli occhi.
— Ah sì?! — gridò ferocemente — piglia, piglia, piglia, infame, strega, assassina...
E le appoggiò tre pugni così sodi nel mezzo del seno, che la poverina con un rantolo soffocato andò a stramazzare in terra a qualche passo da lui.
Mentre Fanfirla picchiava così, il coro aveva proseguito a cantare lento, intuonato, come se nulla fosse: i giuocatori non avevano neppure voltato il capo, e le compagne, fatto circolo intorno ai litiganti, si tenevano le costole dal ridere.
Quando però videro cadere la compagna, le furono intorno pietose a soccorrerla, non senza dar sulla voce a Fanfirla. Il quale, colla testa alta, lo sguardo sicuro, come se avesse fatto una prodezza, tornò a sedersi presso i giuocatori di morra.
Lisandro, che in quel punto era muto, voltosi a lui:
— Mi pare, — disse — che tu abbia fatto giù le mosche a qualcheduno, laggiù, ehn?
— Alla Pendolina.
— Che cosa ti ha fatto?
— Ammiccava col Moretto?
— Il capo d’oro?
— Sì.
— Hai picchiato sodo?
— Eh? credo che non la si potrà lamentare.
— Così va fatto. Bravo Fanfirla! E, dico? sono le prime che le affibbii?
— Sì, sono le prime.
— E la ti vuol bene?
— Credo, ma non lo so di sicuro.
— Eh di sicuro chi può mai saperlo? Però seguita così, che in poco tempo ti vorrà bene. L’amore, vedi cittolo, viene cogli sgrugni. L’amorosa è come un can barbone; quante più gliene dai, tanto più ti lecca le mani. Picchia forte, e vedrai come la ti verrà dietro... Adesso nota sette e cinque e sta attento che attacco io.