Pagina:Arrighi - La scapigliatura e il 6 febbrajo, Milano, Redaelli, 1862.djvu/203

Intorno a lui, seduti a desco, se ne stavano, parte in maschera, parte ne’ consueti panni, da trentacinque a quaranta persone, tra maschi e femmine, le quali andavano cercando alla loro maniera un po’ di quell’ente astratto di cui siamo tutti così sitibondi, e che si chiama la felicità.

Dicono certuni che la felicità sia una vana parola, e che non la si possa trovare su questa terra. A parer mio costoro dicono una minchioneria, ed hanno per avventura il torto di confondere l’idea della felicità terrena con quella che ci è promessa nell’altra vita, vale a dire una specie di estasi perenne, beata, ineffabile, della quale non c’è che una gran fede che valga a persuaderci che non ce ne dovremo annoiare mortalmente. Ma la felicità di quaggiù, per essere gustata, ha bisogno di confronti e di contrasti; e chi di sua vita non ha mai versato lagrime di sangue, non potrà dire d’essere stato qualche volta felice.

Io, per me, se, in un bel mattino d’autunno, dal cucuzzolo d’un monte del mio caro lago, m’avvien di mirare sorgere grado a grado il sole dall’opposta catena, e indorarsi all’intorno la vasta contrada, e allegrarsi del suo divino sorriso il vasto piano delle acque, e ascolto elevarsi il misterioso concento di mille armonie all’intorno, quasi un saluto di gioia, provo nell’anima non peranco inaridita un palpito sempre nuovo e spontaneo, che mi parla di felicità e di speranza, di riconoscenza e di amore.

Quella gente là dell’osteria, invece cercava la propria felicità nel fondo d’un bicchiere. E perchè no?