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in una enorme cuffiaccia tutta a trine sgualcite faceva un effetto singolare. Brandiva egli un bastone, a cui da cima era attaccata una vescica rigonfia, e con quella, volgendosi indietro, andava percuotendo or l’uno or l’altro de’ suoi compagni di sollazzo.


Emilio si tirò in disparte per lasciarli passare senza essere veduto. Ma il primo di quei due popolani, adocchiatolo, si staccò dalla vecchia, e gli si fe’ incontro.

— Signor Digliani, mio padrone, la riverisco; — diss’egli con voce arrochita — Finalmente che lo si può allumare, lo si può! Cosa vuol dire?

— Ah sei tu, Lisandro?! — sclamò Emilio dopo averlo sbirciato da tutte le parti — Chi diamine ti avrebbe riconosciuto in questi panni?

— Eh messire che vuole? Si fa come si può. Una volta l’andava un po’ migliore d’al presente. È un costume questo che ho inventato io, ho inventato. Il signor Niso, che m’incontrò anche lui prima di entrar in teatro, ne fece una sgangherata.

— E dove andate?

— Andiamo laggiù alla Foppa a soffiare un tantino nella vetriuola prima di tornar in teatro a danzar l’ultimo.

— E i compagni non t’aspettano?

— Eh! li troverò li apostoli; — rispose Lisandro — Ci siam dato il santo laggiù, dove ce n’è del buono.

— E chi sono?