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avvicinava. Era prodotto da un grosso branco di maschere che spuntato poco dopo da una contrada di fianco si avviava frettoloso verso porta Comasina.


Innanzi a tutti camminavano a lesti passi certi due figuri, camuffati in una maniera così eteroclita e strana, che non si avrebbe potuto immaginare di più.

Al primo cingeva il capo un certo negozio, che si accordava col resto del suo abbigliamento, come un elmo da crociato sulla testa di un notaio, in veste da camera, che stia prendendo la sua cioccolatta coi crostini. Era una specie di sudicio turbante, che scintillava ancora qua e là per un avanzo di orpello e di lustrini, mentre la stoffa, che un giorno doveva essere stata bianca, faceva gara di giallore colla faccia sottoposta. Indosso portava una di quelle giubbone ricamate, che i nostri progenitori usarono un dì colla borsa sulla cuticagna, e l’elsa di un inutile spadino inchiodato nel fodero; sotto a questo un gran panciotto che gli scendeva quasi fino ai ginocchi, e che tanto tanto non faceva a pugni coll’abito; un paio di pantaloni di frustagno; e finalmente due scarpe scalcagnate di marocchino per metà bianche e per metà vermiglie.

L’altro, che camminava a braccio di costui, con una faccia lercia e malvagia come il vizio in persona, vestiva una di quelle maschere che il nostro volgo, con voce di suo conio, chiama la vecchia bacucca. Quel viso maschile con tanto di baffi, raccolto