Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Monsieur Deterville 1, Monsieur Rigadon, un Notaro, e due Servitori.

Deterville. Per or basta così, signore, andar potete; (al Notaro

La firma della donna, quand’ella giunga, avrete.
Avvisarvi farò. Pronto è il vostro denaro.
Notaro. Sono ai vostri comandi. (inchinandosi a Deterville
Deterville.   Addio, signor notaro.
(rendendo il saluto al Notaro, che parte
Rigadon. Dunque, per quel ch’io sento, questo gentil casino
E quel che lo circonda vaghissimo giardino,
E i preziosi arredi, degni d’una sovrana,

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Da voi sono acquistati per Zilia Peruviana.

Deterville. Sì amico; a voi, che avete mia germana in isposa,
Essere non dovrebbe cotal novella ascosa:
Ella vi avrà pur detto...
Rigadon.   No, non mi ha detto niente.
Della consorte mia non sono il confidente.
Poco parliamo insieme; se avvien che a lei mi appressi,
Si parla di tutt’altro, non parliam d’interessi.
Deterville. Spiacemi di sentirvi con lei sì poco in pace.
Rigadon. No, di ciò non mi lagno. Sto ben quando si tace.
Amo la solitudine; mi piace il mio riposo:
Non sono i fatti altrui di saper premuroso.
Ma questa volta in vero curiosità mi sprona.
Perchè la Peruviana far di tutto padrona?
Accordo, che abbia in lei grazia, virtù e bellezza;
Concedo ch’ella meriti di star con morbidezza;
Ma parmi troppo, amico; tra i stabili, e il lavoro,
Tra i mobili, e i serventi, voi spendete un tesoro.
Pensar dovreste ai figli, che un giorno aver potrete;
E i figli miei ci sono, se voi non ne volete.
È ver, che vostra suora molto non sta con me;
Ma in meno di quattr’anni già me ne ha fatti tre.
Deterville. Sicura è la sua dote, niun può rimproverarmi;
Pur, perchè v’amo e stimo, vogl’io giustificarmi.
Vi narrerò la storia, che pria fa di mestieri
Essere a voi palese.
Rigadon.   L’udirò volentieri
Deterville. Note saranvi, amico, le varie e varie imprese,
Che del Perù in più tempi scopersero il paese,
E che i Spagnuoli furo gli uomini fortunati,
Che han quei popoli Indiani scoperti e soggiogati.
L’ultima lor conquista fu Manco-capo, in cui
Saziò colle ricchezze ciascuno i desir sui;
Ma fra le ricche prede, la preda lor più bella,
Zilia fu, Zilia nostra, vaghissima donzella.

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Rigadon. Zilia ai Spagnuoli parve dunque sì gran tesoro.

Da preferir nell’Indie al merito dell’oro?
Lo crederei, se in Spagna vi fosse carestia
Di questa femminile graziosa mercanzia.
Empiuti i lor navigli coll’oro e coll’argento,
La donna avran condotta per lor divertimento.
Deterville. No, v’ingannate, amico. La vide il capitano.
Se ne invaghì, rapilla al popol Peruviano.
Nè valse alla donzella il dir: fermate, io sono
Una vergin del Sole nata da regal trono.
Sordo alle sue querele, colto da sua bellezza,
Seco usò per amore la militar fierezza.
Rigadon. Cosa le ha fatto?
Deterville.   Al bordo la guidò della nave,
Che di ricchezze piena iva pomposa e grave;
Ma il Ciel, che ad altra mano serbata avea tal preda,
Fa che ne’ legni nostri urti l’Ispano, e ceda.
Io che temer non soglio in terra, in mar periglio.
Salgo primier di tutti sul nemico naviglio,
E la mia forte spada, unita ad altre cento,
Portò fra gl’inimici la morte e lo spavento;
Gli ori a partir fra loro i vincitor si diero;
Zilia fu la mia preda, fu Zilia il mio pensiero.
Dal timor tramortita in mezzo ad altre schiave,
La feci chetamente condurre alla mia nave;
Posta fu a rinvenire sul mio picciolo letto.
Ove da’ miei servita, le usai tutto il rispetto.
Gli ori, le gemme, e quanto avea la donna seco,
Per lei serbar io feci, e in Francia condur meco;
Cambiar i suoi tesori, senza narrarlo a lei,
Furo, in mobili e terre, finora i studi miei.
Ella verrà a momenti, come in terreni altrui,
E rimarrà sorpresa, scoprendoli per sui;
Vedrà che l’oro vale più assai ch’ella non crede:
Vedrà dell’amor mio le prove, e di mia fede;

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E il mondo, che pensare non sa senza malizia,

Vedrà che in me non regna vanità, ma giustizia.
Rigadon. Ora la fonte i’ vedo, donde il denar fu tratto;
Ma ancor che ben facciate, non son convinto affatto.
Alfin fu preda vostra dell’oro la ricchezza,
E parmi il rinunziarla2 un po’ di debolezza.
Deterville. Ciascuno a suo talento giudica, pensa, e parla.
Piace a me la pietade, e studiomi d’usarla.
Qual dritto avean gl’Ispani di Zilia sui tesori?
Qual dritto a me deriva da quel dei rapitori?
Così fosse a me dato porla sul patrio trono,
Come dei beni suoi posso offerirle il dono.
Rigadon. Sì, Deterville3, voi siete uom generoso e prode:
Per queste due virtudi merito avete, e lode;
Ma questa volta, amico, il vostro cuor si sente,
Il vostro cuor si vede spinto da altro movente.
Deterville. Dove piegar intende veggo il vostro pensiero;
Voi credete ch’io l’ami, e vi apponete al vero.
Rigadon. Bene, amatela pure, se amor vi punge il seno;
Ma voi potreste amarla, e spendere assai meno.
Lungi dal suo paese, schiava d’altrui, poi vostra,
Regnar non può pretendere nella provincia nostra.
Non dico ch’ella serva, se ha di signora il vanto,
Ma non è necessario per lei spender cotanto.
Deterville. Dell’amistade in grazia, poss’io parlarvi chiaro?
Voi siete un uom di garbo, ma siete un poco avaro.
E questa è la cagione, per cui la suora mia
Vi fa, per quel che dite, sì scarsa compagnia.
Alla nazion Francese, ch’è nota al mondo intero,
È quel dell’avarizia un vizio forastiero;
Siccome a noi sarebbe vizio egualmente estrano4,
Trattar donne gentili con animo villano.
Rigadon. Dite quel che volete, so la comun pazzia,

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Che intitola avarìizia la bella economia;

Ma quando non ce n’è, signor prodigo caro,
Allora si conosce il prezzo del denaro.
Basta, lasciamo andare un tal discorso odioso;
Ditemi in confidenza: il vostro cuor pietoso,
Il vostro cuor con essa a profondere avvezzo,
Esige almen da lei dell’attenzione il prezzo?
Deterville. Ah no; senza mercede l’amo, la servo e onoro:
Verità è il di lei nume: schiettezza il suo tesoro.
A un Peruvian l’affetto serba, che d’Aza ha il nome;
La bella essermi grata vorrebbe, e non sa come.
Piacemi in quel bel labbro, benché m’offenda, il vero;
Seguo ad esserle fido, seguo ad amarla, e spero.
Rigadon. Ogni amatore è stolto; ma è ben peggior pazzia
Amar senza mercede, spendere, e gettar via.

SCENA II.

Rollino e detti.

Rollino. Signor, giunta è madama. (a Deterville

Ricadon.   Chi? la consorte mia?
(a Rollino
Rollino. Sì signore, è arrivata con Zilia in compagnia.
(a Rigadon
Deterville. Testè non ve lo dissi, che attendeansi a momenti?
(a Rigadon
Rigadon. Siano le benvenute, io non vuo’5 complimenti,
Addio.
Deterville.   Dove si va?
Rigadon.   Vo un poco a passeggiare.
Deterville. Veder non la volete?
Rigadon.   La vedrò a desinare. parte

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SCENA III.

Monsieur Deterville e Rollino.

Deterville. Tosto va da Pierotto, fattor qua destinato,

Digli, che ad eseguire s’accinga il concertato;
Al suo fìgliuol Pasquino dirai la cosa istessa,
Serpina cameriera sia avvisata ancor essa;
Indi il notar ritorni, sien tutti in questo loco,
Tu vi sarai con essi, tornerò anch’io fra poco.
Numi! chi sa? Col tempo della mia bella in seno
Spero, se non amore, gratitudine almeno. parte
Rollino. Povero padron mio! Piange per chi nol cura.
S’ella avesse a far meco, le direi a drittura:
O ditemi un bel sì, o ditemi un bel no;
Se voi non mi volete, anch’io vi lascio, e vo. parte

SCENA IV.

Zilia e Madama Cellina.

Cellina. Franca avanzate il passo.

Zilia.   E non si vede ancora
Di questo ameno sito la felice signora?
Nel partir da Parigi diceste pur, madama,
Condurmi a un delizioso casin di bella dama.
In ver qui tutto è ameno, tutto mi par godibile;
Ma questa dama, amica, è una dama invisibile?
Cellina. Visibile e palpabile, voi la vedrete in breve.
Sedete.
Zilia.   La padrona prima inchinar si deve.
Tra gli altri usi gentili, che in Francia vostra appresi,
Questo rispetto usarsi fra nobil gente intesi.
Cellina. È ver; ma la padrona è tanto amica mia,
Ch’io per essa supplisco. Sedete in cortesia.

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Zilia. Sediam, se ciò vi aggrada.

Cellina.   Zilia, come vi alletta
Questa graziosa villa?
Zilia.   Parmi in tutto perfetta;
Bello è il veder d’intorno gli archi, le statue, i marmi:
Bello il veder le fonti, dove potea specchiarmi.
Bellissima de’ verdi la varia architettura,
In cui fatta è dall’arte violenza alla natura;
E agli occhi di chi mira spettacolo è assai degno
De’ fiori ben disposti il variato disegno 6.
Goduto della villa il delizioso esterno,
Nuove bellezze e rare si scopron nell’interno.
Eccellenti pitture, nobili arredi e vaghi,
Chi fia che non s’alletti, chi fia che non s’appaghi?
Stupida già rimango, già sono ammiratrice,
Nò può chi vi comanda non essere felice.
Cellina. Pur non vedeste il meglio di tal delizia ancora.
Zilia. A veder che mi resta?
Cellina.   Del casin la signora.
Zilia. Veggasi; non s’asconda.
Cellina.   Vuo’ mantenervi il patto;
Vuo’ che la conosdate: mirate il suo ritratto.
(le presenta uno specchio
Zilia. Questo è uno specchio, amica; non son cotanto stolta.
Mi sorprese lo specchio, è ver, la prima volta;
Ma l’arte appresi, e in vano ora vi verrà fatto
Meco far la mia effigie passar per un ritratto.
Cellina. E pur, torno a ripetere, e pur provarvi io spero,
Esser della padrona questo il ritratto vero.
Zilia. Voi scherzate, madama.
Cellina.   No, non ischerzo, amica.
La padrona voi siete, il Ciel vi benedica.
Zilia. Io padrona? 7 di che? s’alza
Cellina.   Di quanto qui vedete,

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A ripeterlo torno, la padrona voi siete.

Zilia. Cellina, ove siam noi? Dove son io guidata?
Questo è albergo di fate? è un’isola incantata?
Siam trasportati forse, con magica possanza,
Ai regni del Perù, dov’ebbi culla e stanza?
O in seno della Francia i spirti condannati
Han del Perù dai regni gli alberghi trasportati?
Fuori dell’Indie nostre nulla di mio8 possiedo.
O un’illusione è questa, o al vostro dir non credo.
Cellina. Datevi pace; udite. Gli ori con voi rapiti
In mobili e in terreni fur per voi convertiti.
Deterville che v’adora, di cui germana io sono,
Offre a voi quel ch’è vostro, sia per giustizia, o dono.
Zilia. Anima generosa! ora v’intendo appieno.
Qual sua pietà mi desta maraviglia nel seno!
Oh Francia fortunata, poiché ne’ figli tuoi
Fioriscon le virtudi più belle degli eroi!
Cellina. Zilia, per lui che tanto pensa a recarvi 9 onore,
Sarete unqua pietosa? Gli negherete il cuore?
Zilia. Ah, Cellina, non ha ch’egli a bell’opre avvezzo,
Perda dell’opra il merto nel ricercarne il prezzo.
Se per virtù mi dona, lieta i suoi doni accetto;
Tutto accettar ricuso, se mi domanda affetto.
Celuna. Ma perchè mai sì avversa ad uom che sì v’adora?
Zilia. Già ve lo dissi, amica; ve lo ripeto ancora.
Amo colui che primo mi offrì gli affetti suoi;
Quando una volta s’ama, sempre amasi da noi.
Sia forza di natura, che in noi regna perfetta,
Sia educazion del tempio, a cui vissi soggetta,
Esser costanza appresi legge dell’uman cuore,
Ed il mancar di fede detestabile errore.
Sembranmi dell’Europa belli i costumi e gli usi;
Ma dei teneri affetti mi spiacciono gli abusi.
Cangiar sì facilmente di cuore e di pensiero,

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Son segni manifesti d’un animo leggiero.

Più spirto e più bellezza nelle Europee si vede,
Ma avrebbero più merto, se avessero più fede.
Cellina. Tra noi, per dir il vero, passar suol per usanza,
Quando ragione il chiede, un poco d’incostanza.
Lontana dall’amante, di cui non siete sposa,
Potreste a chi vi adora men essere ritrosa.
Zilia. Deh, se mi amate, o cara, vi prego in cortesia,
Meco cangiate stile.
Cellina.   Sedete, Zilia mia.
Ecco di questa villa i servi ed il fattore,
Che alla padrona loro vonno rendere onore.
Zilia. Voi mi fate arrossire.
Cellina.   Buona gente, avanzate,
E la signora vostra in Zilia rispettate.

SCENA V.

Serpina con un cestino di fiori, e detti.

Serpina. Signora, a voi s’umilia Serpina fortunata,

Che ad esser cameriera di voi fu destinata;
Prometto di servirvi con fede e con rispetto;
Vi prego compatirmi se avrò qualche difetto.
Supplirà alle mancanze la vostra cortesia;
Lasciate ch’io vi baci la man, padrona mia.
Zilia. Se all’espressioni vostre il vostro cuor somiglia,
Vi tratterò da amica, vi amerò come figlia.
Serpina. Questi odorosi fiori, che ho colti in sul mattino,
Sparsi qua e là nel vostro bellissimo giardino,
Della mia servitutole siano il segno primiero.
Vi prego di gradirli con animo sincero.
Zilia. Sì, li gradisco, o cara, col più verace affetto,
Ecco che di tai fiori ornar mi voglio il petto.
Questi a me, questi a voi, Cellina mia gentile,

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Uso facciam del dono della donzella umile.

(dà alcuni fiori a Collina
Serpina. Ah sì, la mia padrona il mio buon core accetta:
Anima generosa, che siate benedetta!
Voi meritate di essere servita come va,
Voi che solete i poveri trattar con carità.
Se avessi i fior recati a chi ha superbia in petto,
O non li avrebbe presi, o presi con dispetto;
Che noi, povere serve, siamo da certe tali
Trattate come fossimo bestiaccie irrazionali.
Chi serve si consola, se trova un po’ d’amore.
Che siate benedetta, ve lo dico di cuore. parte

SCENA VI.

Zilia, Cellina, poi Pierotto.

Zilia. Abborrisco l’orgoglio. Comanda chi ha fortuna;

Per altro siam lo stesso nel grembo e nella cuna;
E chi aggravar lo stato de’ miseri procura10,
Abusa della sorte, e insulta la natura.
Cellina. Lodo la virtù vostra... Ecco il fattor.
Pierotto.   Signora,
Pierotto vostro servo vuol inchinarvi ancora.
Il mio padrone amabile a voi mi ha destinato,
E in ver di grazia tale gli son molto obbligato;
Mentre, benché io sia rozzo, villano, antico,
So conoscere il buono, e son del bello amico.
Zilia. Non lo capisco. (a Cellina
Cellina. Ei scherza, è un uom d’antica età,
Che suole onestamente scherzar con libertà.
Goder de’ suoi concetti suole il germano mio.
Zilia. Favellate, buon vecchio, voglio godervi anch’io.

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Pierotto. Eccomi qui, godete questa figura bella,

A cui d’uomo sol resta lo spirto e la favella.
Tutto il resto, madama, tutto il restante è andato;
Ma mi consolo almeno, che mal non l’ho impiegato.
Stato son di buon gusto. Ho avuto due mogliere.
Una grassa, una magra, bellissime a vedere.
Buonissime compagne ambe mi sono state,
La grassa nell’inverno, la magra nell’estate.
Zilia. Ed or se vi doveste rimaritar con una,
Qual delle due vorreste?
Pierotto.   Non ne vorrei nessuna.
Mi piace nell’estate posto variar nel letto,
Mi basta nell’inverno goder lo scaldaletto.
Colle due mogli mie son stato in eccellenza;
Ma parmi di star meglio, ora che ne son senza.
Zilia. Piacerai il bell’umore.
Cellina.   Che avete in quel cestino?
Pierotto. Ho un non so che di bello; ho un frutto peregrino.
Madama, v’è qui un frutto nato nel terren vostro.
Un frutto estraordinario.
Zilia.   Come si chiama?
Pierotto.   Un mostro.
Zilia. Un mostro? Che mai dite?
Pierotto.   Certo, signora sì.
Ecco, se non credete, il mostro eccolo qui.
Da un lato egli è arbicocco, e prugna è l’altra parte;
Maestra la natura fu nel produrlo, e l’arte.
Zilia. Due varie spezie unite? Come si può far questo?
Pierotto. Si fa, signora mia, coll’arte dell’innesto11.
Zilia. Innesto? Questa voce intendere non so.
Cellina. Anch’io poco l’intendo.
Pierotto.   Or ve la spiegherò;
Non come far potrebbe un uomo addottrinato.

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Ma da fattor di villa, tal qual come son nato.

Sopra un tronco selvatico di pero, ovver di pruno,
Che aspri frutti produce, o non ne rende alcuno,
Spaccasi un ramo in due, poscia s’incastra in quello
D’albero più gentile un verde ramuscello,
Di cui passando il succo dell’altro per le vene,
L’albero pria selvaggio, domestico diviene.
Ma se sul tronco istesso sien due sprocchi innestati
Di frutti differenti disposti in vari lati,
Scorre l’umor d’entrambi per entro al ceppo, e spesso
Due differenti frutti produce il ramo istesso.
Resta che il giardiniere conosca la natura
Delle diverse piante, che migliorar procura;
Ed innestar non tenti pianta a pianta nemica,
Gettando inutilmente lo studio e la fatica:
Come se, per esempio, in una casa tale
Facciasi d’uomo e donna l’innesto coniugale.
Dolci, se son d’accordo, frutti averan tra poco;
Ma quando son contrari, son alberi da foco.
Il fin del mio discorso, bella padrona, è questo:
Che voi con il padrone fareste un bell’innesto.
E frutti produrriano12 gratissimi al paese
Un ramo del Perù congiunto ad un Francese, parte

SCENA VII.

Zilia, Cellina, poi Pasquino.

Celuna. Sentite s’egli è astuto?

Zilia.   Non veggo a sufficienza,
S’ei parla con malizia, ovver con innocenza.
Celuna. Ecco il di lui figliuolo.
Zilia.   Vengono ad uno ad uno?
Celuna. Con voi merito farsi oggi sospira ognuno.

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Pasquino. Signora, questa mane mi fu propizio il fato.

Vivo colle mie mani ho un usignuol13 pigliato.
D’una sì bella preda lieto e contento io sono;
Se voi non lo sdegnate, signora, io ve lo dono.
Zilia. Bella innocenza, amica! Grazioso giovinetto,
Grata vi son del dono, e l’augellino accetto.
Recatelo a Lesbina; dite che n’abbia cura.
Come da voi fu preso?
Pasquino.   Dirovvelo14 a drittura.
Pria del levar del sole, io mi levai dal 15 letto;
Andai colla civetta vicino ad un boschetto.
Stesi d’intorno a lei le verghe impanniate,
E diedi col fischietto moltissime fischiate.
Un usignuol io veggo saltar di pianta inb pianta;
Io l’usignuolo imito, ei mi risponde, e canta.
Parea che la civetta gli desse il benvenuto.
Alza ed abbassa il capo quell’animale astuto;
Ed io, che rimpiattato stavami ad osservarlo,
Coll’animo e coi gesti provavami aiutarlo.
Parte l’augel da un ramo, scende, poi vola in alto;
Ah l’impazienza allora fecemi trarre un salto;
Fischio, rifischio intorno, scuoto la bestia in vano:
Perdo l’augel di vista; poi sentolo inb lontano.
Colla civetta in spalla, e col fardello unito
Delle impanniate verghe, mi porto i altro sito.
Tendo l’orecchio, e parmi... poi fra me dico: affé,
Parmi che qui s’asconda... guardo fra i rami, e c’è.
Pianto gli ordigni in fretta; mi celo in fra le fronde;
Poi l’usignuolo imito, e l’usignuol risponde.
Va pian pian saltellando verso i rami più bassi,
Io cogli occhi accompagno, e con il cuor suoi passi;
E quando mi parea ch’egli s’alzasse un poco,
Mi palpitava il cuore, pareami esser nel foco.

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Ma finalmente il veggo toccar vicino al vischio;

Metto un ginocchio a terra, formo più dolce il fischio;
Fo giocolar16 col filo della civetta il rostro.
Ah l’usignuol s’impannia, ecco, l’augello è nostro.
Oimè, mancami ancora nel rammentarlo il fiato;
Dirvi il piacer non posso, che ho nel cuor mio provato.
Corro a staccar dal visco la cara preda in fretta.
Salto per l’allegrezza, bacio la mia civetta.
Al padre, ai cari amici, a tutti io ne ragiono:
Ecco l’augel che ho preso. Signora, io ve lo dono.
Zilia. Come il garzon dipinge il ver coi detti sui!
Scorgesi la natura, e l’innocenza in lui.
Celuna. Zilia, il german sen viene.
Zilia.   Sua dolce compagnia
Sempre mi sarà cara.
Pasquino.   Signora, io vado via.
Viene il padron.
Zilia.   Sì, caro, ti sarò grata, aspetta.
Prenditi quest’argento. (gli dà una moneta
Pasquino.   Comprerò una civetta.
Io son l’uccellatore, e in avvenir, tant’è,
Chi vorrà gli uccellini, dovrà venir da me. parte

SCENA VIII.

Zilia e Madama Cellina.

Zilia. Che fa, ch’egli non viene? Andiamo ad incontrarlo.

Celuna. No, amica; se v’aggrada, qui potete aspettarlo.
Io andrò da mio marito per dirgli una parola.
Zilia. Fate quel che vi aggrada.
Cellina.   (Meglio è lasciarla sola.
Può darsi che per lui amore il cuor le tocchi,
Con uno che l’adora trovandosi a quattr’occhi).
(da sé, e parte

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SCENA IX.

Zilia, poi Monsieur Deterville.

Zilia. Sarei felice appieno, lieto il mio cuore in petto

Avrei, se meco fosse vicino il mio diletto.
Amabile è lo stato, che m’offre il Ciel pietoso.
Aza, mio caro Aza! Tu lo rendi cruccioso.
Ah s’egli è ver, ch’io possa sperar di rivederti,
Allor gradirò i beni, ch’ora son beni incerti.
Deterville. (Sfuggir vorrei la pena... ma mi strascina il cuore).
da sè
Zilia. Bella lusinga in seno... Ah ditemi, signore,
(vedendo Deterville
Questa superba villa?...
Deterville.   Vostra è già, lo sapete.
Se a me voi ne parlate, mi sdegno, e m’offendete.
Zilia. Nè ringraziar vi posso?....
Deterville.   No, non è tempo ancora;
Grazie, quand’io lo merti, mi renderete allora.
Zilia. Per me donna infelice, che far di più potete?
Deterville. Quel che per voi ho fatto, Zilia, or or lo saprete.
Ditemi, in mezzo a questi comodi della vita
Mancavi nulla?
Zilia.   Ah mancami con Aza essere unita.
Deterville. Aza è il vostro tesoro, Aza serbate in cuore,
E Deterville non merta gratitudine e amore?
Zilia. Anima genaosa, sa il Ciel se vi son grata;
Se Aza non fosse al mondo, mi avreste a voi legata.
È ver, tempo non ebbi di maritarmi ad esso,
Ma il fatto e la parola fra noi sono lo stesso,
E morirei piuttosto che a lui mancar di fede,
A lui che mi fu tolto dal Ciel che me lo diede.
Deterville. Amabile cotanto è il mio rival felice?
Zilia. Aza è amabile, è vero; negarlo a me non lice.

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Se spiacevi ch’io ’l dica, signor, vi chiedo scusa;

Mentir da’ labbri miei per soggezion non s’usa.
Dicolo in faccia vostra, dirollo a tutto il mondo:
Aza è il premier ch’io stimo, e voi siete il secondo.
Deterville. Ma della stima vostra posso sperare il frutto?
Zilia. Se mi chiedete il cuore, d’Aza il mio cuore è tutto:
Se la mia man chiedete, questa la serbo a lui;
Quello che ad un si serba, non si divide altrui.
Restami per voi solo un altro amor nel petto
D’onestissime fiamme, di stima e di rispetto.
Se ciò vi basta, io sono grata quant’esser deggio;
S’altro da me bramate, sono infelice, il veggio;
Poiché dai benefizi, che mi faceste, oppressa,
Se comparisco ingrata, odio perfin me stessa.
Deterville. Zilia, soffrir m’è forza. So che vi adoro invano.
Deh per l’ultima volta porgetemi la mano.
Zilia. Di porgervi la destra, signore, io non ricuso.
Veggolo far da tutte; tale d’Europa è l’uso.
Eccola.
Deterville.   Oimè!
Zilia.   Signore...
Deterville.   Temo morirvi appresso.
Zilia. Deh non perdete il senno, non tradite voi stesso.
Senza sperar mercede, se vi tormenta amore,
Colpa non sarà mia la perdita del cuore.
Se Aza più non vivesse...
Deterville.   Aza ancor vive.
Zilia.   Il so.
Per me lo sventurato la patria abbandonò,
Ritogliermi sperando di mano a’ miei nemici,
Prigionier degl’Ispani fu anch’ei fra gl’infelici.
So che in Madrid ei vive, ho di sua mano un foglio.
Mi lusingai vederlo; ora sperar non voglio.
Sta in vostra man l’unirci; voi generoso siete:
Ma se l’amor contrasta, oh Dio! voi nol farete.

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Deterville. Di Deterville il cuore non conoscete ancora.

Zilia, di ringraziarmi ecco che giunta è l’ora.
A costo di mia morte bramo i vostri contenti.
Aza a noi s’avvicina: lo vedrete a momenti.
Zilia. Come, signor?
Deterville.   Vi basti ciò che per or vi dico,
Che son per amor vostro di me stesso nemico.
Che f(orza di resistere dinanzi a voi non ho.
Zilia, restate in pace.
Zilia.   Ci rivedrem?
Deterville.   Non so. parte

SCENA X.

Zilia sola.

Aza a noi s’avvicina? Presto vedrollo in viso?

Scuoter mi sento il cuore dal giubilo17 improvviso.
E chi è colui che ’l dice? Chi è che mel guida appresso?
È Deterville che mi ama, è il suo rivale istesso.
Lo crederò? Non mente chi ha la virtude in seno,
Un animo pietoso vuolmi felice appieno.
Aza verrà. Lo spero. Se m’ingannassi? Oh Dio!
Più barbaro sarebbe, più crudo il destin mio.
Fido nel cuor gentile, fido ne’ suoi costumi.
Non mi tradir, fortuna; me proteggete, o Numi. parte


Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Così nell’edizione Pasquali. Nelle edd. Pitteri e Zatta è qui stampato: Detervill.
  2. Ed. Pitteri: rinonziarla.
  3. Qui anche nell’ed. Pasquali è stampato: Detervill.
  4. Ed. Zatta: strano.
  5. Nelle edd. Pasquali e Zatta: vo'.
  6. Ed. Pitteri: dissegno.
  7. Ed. Zatta: La padrona!
  8. Ed. Zatta: ciò.
  9. Ed. Zatta: arrecarvi.
  10. Nelle edd. Pitteri e Pasquali, qui e sempre: proccura.
  11. Ed. Zatta: e coll’inneesto.
  12. Edd. Pitteri e Pasquali: produriano.
  13. Ed. Pitteri, qui e più sotto: ussignuol.
  14. Ed. Pittori: dirovelo.
  15. Ed. Pitteri: del.
  16. Ed. Pitteri: gioccolar.
  17. Edd. Pitteri e Pasquali: giubbilo.