Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Serpina e Pasquino.

Pasquino. Datemi quell'augello, che or ora ve lo porto.

Serpina. No, darvelo non voglio: (non gli vuo’ dir ch’è morto).
da sè
Pasquino. Datelo a me per poco, finchè Rollin lo veda,
Rollin che me non crede capace di tal preda.
Lo vuo’ smentir col fatto l’incredulo staffiere;
Datemi l’usignuolo, vuo’ farglielo vedere.
Serpina. Parlano per invidia; lor non badate un zero.
Quando vedrò Rollino, io gli dirò che è vero.
Pasquino. No, no; vuo’ andar io stesso colla mia preda in mano.
Datemi l’augelletto.

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Serpina.   Voi lo sperate invano.

Pasquino. Oh questa è bella, affé! son io, che l’ha pigliato,
Son io, che alla padrona stamane l’ha donato.
E voi me lo negate così con quest’orgoglio?
Ora sono imputato, sì lo voglio, lo voglio.
Serpina. Messer no.
Pasquino.   Messer sì. (s’accosta a Serpina con impertinenza
Serpina.   Un insolente siete.
Pasquino. Glielo dirò a mio padre, se mi strapazzerete.
Voglio l’augello mio. (gridando forte
Serpina.   Non strillate così.
Pasquino. Lo voglio. (segue a gridare
Serpina.   Ragazzaccio! tenete; eccolo qui.
(getta l’augello morto in terra
Pasquino. Ahimè. (corre per pigliarlo, credendolo vivo
Serpina.   Non vola no.
Pasquino.   Ah povero Pasquino! piange

SCENA II.

Zilia e detti.

Zilia. Che vuol dir che piangete?

Pasquino.   È morto l’augellino.
(piangendo
Colei... me l’ha ammazzato... colei... che l’ha con me,
Me l’ha ammazzato lei... fraschetta malade...
Zilia. Via, acchetatevi, caro.
Serpina.   Colui, signora, ha il torto.
Non è per colpa mia, che l’augellin sia morto:
Egli nello staccarlo, allor ch’era impanniato,
L’ha per soverchia fretta sotto un’ala spennato.
Ha ancor la cicatrice, vedrete s’è così:
Miratelo, signora... (vuol prendere l’augellino di1 terra

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Pasquino. No, lasciatelo lì.

Voglio veder s’è vivo. (lo prende di terra
Zilia. Vedetelo. Chi sa?
Pasquino. Oh poverino I il capo manda di qua e di là.
È morto... sì signora... me l’ha ammazzato lei...
Se fossi un po’ più grande... so io quel che farei.
Lo vuo’ dir a mio padre... (piangendo
Zilia. Chetatevi, pigliate
Queste belle monete.
Pasquino. Tutte me le donate? (ridendo
Zilia. Sì tutte.
Serpina. Troppe sono.
Pasquino. Tacete voi, signora, (a Serpina
Me le donate tutte? me ne darete ancora?
(a Zilia ridendo
Serpina. Sì, v’empierà le tasche!
Pasquino. Tacete, invidiosa,
Che ammazza gli augellini, fraschettola, stizzosa:
Cuore di volpe astuta; mani bugiarde e ladre.
Serpina. lo ti darò uno schiaffo.
Pasquino. Glielo dirò a mio padre.
(parte correndo

SCENA III.

Zilia e Serpina.

Serpina. Vi domando perdono. La bile m’ha acciecato.

Zilia. Voi compatir dovete fanciullo addolorato.
Serpina. Pasquino malizioso piange pel morto augello;
Ma quando si regala, Pasquin non è più quello.
Zilia. Cresce la maraviglia in me per questo appunto,
Veggendo a qual potere l’oro tra voi sia giunto;
Che fino gl’innocenti, fino i bambini istessi
L’amano, e lieti fansi quando si mostra ad essi.

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Non credo ch’ella sia magnetica possanza:

Dell’oro e dell’argento fra noi v’è l’abbondanza,
E pur la gente nostra, a calpestarlo avvezza,
Non sente la sua forza, nol cura, e lo disprezza:
Sta il pregio delle cose dell’uom nell’opinione,
L’oro fa parer bello di lui la privazione;
E apprezzasi in Europa quel lucido metallo,
Come da noi farebbesi lo splendido cristallo.
Serpina. Una ragion per altro, dirò, padrona mia,
Parmi che sia nell’oro, che nel cristal non sia.
Questo soggetto a rompersi, moltissimo non dura,
Durevole quell’altro prodotto ha la natura.
È ver, voi mi direte, durano ancora i sassi,
Ma l’oro è cosa bella, e ognor più bello fassi.
Ha un non so che di più, che dir io non saprei;
Se avessi un po’ studiato, spiegarvelo potrei.
Di ciò parlar intesi più volte, io mi ricordo;
Ma donna sono alfine, e i termini mi scordo.
Zilia. Lo studio è il mio diletto, e giunta sono in parte,
Ove apprender poss’io le scienze, e ogni bell’arte.
Per ora interamente quel che occupa il cor mio,
Sono d’Europa i riti, che apprendere vogl’io.
Aza che sa, che intente, che ha più coraggio in seno,
Li avrà appresi e abbracciati, voglio sperarlo almeno:
Per ciò con impazienza anche maggior l’aspetto.
Sì, lo vedrai fra poco, Serpina, il mio diletto.
Serpina. Signora, io son di sasso.
Zilia.   Perchè?
Serpina.   Non mi credea,
Che più quel Peruviano aveste nell’idea.
Il mio padron, meschino, tanto vi porta amore,
Che parmi, compatite, dar gli dovreste il cuore.
Zilia. Io deggio a Deterville 2 molto, è ver, lo confesso,
Ma quel che Aza mi dona, è Deterville istesso.

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Egli che la mia pace brama veder compita,

Egli è quel che me l’offre, egli è quel che l’invita3.
Serpina. Perdonate, signora, se dicovi di no:
Quando ancor lo vedessi, ancor nol crederò.
Un che v’ama e v’adora, un che sospira in vano,
Ad un rival felice vorrà fare il mezzano?
Compatite, signora, se col pensier svolazzo:
O voi siete ingannata, o Deterville è un pazzo, parte

SCENA IV.

Zilia, poi Cellina.

Zilia. Possibil ch’ei m’inganni? Sarebbe opra lontana

Dal bel stil generoso... Ecco la sua germana.
Celuna. Zilia sarà contenta. Vedrà il suo amor primiero.
Zilia. È ver che Aza s’aspetti?
Cellina.   Aza si aspetta, è vero.
Zilia. Felice me!
Celuna.   Contenta voglio che siate, amica;
Ma un po’ troppo lo siete. È forza ch’io vel dica.
In faccia di chi v’ama, e in van mercede attende,
Nascondere dovreste la gioia che l’offende.
Chi sente voi, sol Aza degn’è del vostro affetto:
Aza merita solo regnar nel vostro petto.
Zilia. Egli è il primier ch’io vidi, egli à il primier ch’amai.
Da lui, che sia l’amore, conoscere imparai;
Ed il suo sangue al mio cotanto s’avvicina,
Che dalle leggi nostre ei per me si destina.
Chiedete quant’è vago? Narrar non lo saprei.
Dirò che più d’ogni altro piacciuto 4 è agli occhi miei.
Del suo spirto vivace, del suo bel core onesto
Una prova chiedete? Posso appagarvi in questo.
Eccovi un di lui foglio, a me diretto allora

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Ch’ei perduto non si era, ch’egli regnava ancora.

“Possano le tue lacrime, Zilia, di cui mi duole,
“Possano dissiparsi, come rugiada al sole:
“Possan le tue catene, di cui soffri gli errori,
“Cadute a’ piedi tuoi, possan cangiarsi in fiori:
“E da que’ fior dipinto sia l’amor mio fecondo,
“Più vivo di quell’astro, che li ha prodotti al mondo.
“Cessi, Zilia, il tuo pianto; Aza respira ancora.
“Ciò basta, onde sii certa, che il tuo fedel ti adora.
“Ha fra i disastri il Sole il nostro amor provato;
“Rassicurati, Zilia, ei lo vuol coronato.
“Vedrò la mia diletta, vedrolla a faccia a faccia,
“Dalla prigione oscura volare alle mie braccia;
“Qual colomba innocente dal cacciator fuggita,
“Lieta ritorna al campo alla compagna unita.
“Vedrotti nel mio seno deporre i tuoi dolori,
“Cercar il tuo ristoro, riaccendere gli ardori.
“E quei che miei nemici, che tuoi tiranni or sono,
“Ti porgeran la mano a risalir5 sul trono.
“Adorabile Zilia! luce degli occhi miei,
“A rendermi la vita ti mandino gli Dei.
“Possa dell’Indie nostre l’ali prestarti il Nume,
“A me giunger tu possa, come del lampo il lume.
“Mentre il mio cor più ratto, che non è lampo istesso,
“Vola a Zilia adorata, ogni momento appresso.
Or che direte?
Celuna.   Il pianto mi traeste dal cuore.
Zilia. Parvi che da una sposa meriti fede e amore?
Celuna. Vedesi nel suo foglio l’anima sua dipinta;
Merita che l’amiate, lo veggo, e son convinta;
Ma a Deterville 6, per cui siete felice appieno,
Voi non direte, ingrata, me ne dispiace almeno?
Zilia. Ah sì, sperar nel mondo perfetto ben non lice;
S’egli mi amasse meno, sarei troppo felice.

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Ma tutto sperar posso dal suo bel cuore onesto.

Se Aza invita egli stesso...
Cellina.   Voi v’ingannate in questo.
Aza verrà, egli è vero, ad albergar fra nui,
Aza verrà fra poco, ma non verrà per lui.
Dal ministro di Spagna lo seppe il mio germano,
Che Aza per voi doveva partir dal suolo Ispano.
Nascondervi potea di palesare in vece
Dove voi dimorate; ei per virtù noi fece.
Poiché prevale in lui, non che al tenero amore,
Anche alla vita istessa, la massima d’onore.
Zilia. Sì, sua virtude è quella da cui veda s’aspetta...

SCENA V.

Pierotto e dette.

Pierotto. Riverisco, signore, l’una e poi l’altra in fretta,

Mandami Deterville 7 a dire alla signora,
Che un messo da Parigi, qui capitato or ora,
Porta l’avviso a lui esser colà arrivato
Un certo forestiere 8, Gazzera nominato.
Zilia. Aza, Aza vuol dire. Amica, Aza è venuto.
Dov’è il messo? Vogl’io sentir se l’ha veduto...
Se Deterville 9 volesse, potrebbesi andar tosto.
Una lega soltanto Parigi è a noi discosto.
Chi sa? pregarlo io voglio... Caro fattor, badate:
Aza se qui vien meco, servir non trascurate.
Anticipar potessi almen la gioia mia!
Balzami il cuor nel petto: non so dove mi sia. parte

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SCENA VI.

Madama Cellina e Pierotto.

Cellina. (Amore è una gran cosa!) da ti

Pierotto.   Cospetto! ha una gran fretta.
È forse il padre suo quello che Zilia aspetta?
Cellina. No, non aspetta il padre.
Pierotto.   Chi? suo fratel?
Cellina.   Nemmeno.
Aspetta un Peruviano, che le ha ferito il seno.
Pierotto. Brava! aspetta un amante? che modesta fanciulla!
E monsieur Deterville soffre, e non dice nulla?
Cellina. Che vuoi tu ch’egli dica, che vuoi tu ch’egli faccia?
Se Zilia ama quell’altro, forz’è ch’ei soffra, e taccia.
Pierotto. Come! ch’ei soffra e taccia, dopo che tanto ha fatto?
Or questa i’ non vorrei soffrirla a verun patto.
Direi ch’ella ha ragione, se fosse maritata;
Ma essendo ancor fanciulla, il padron l’ha comprata;
E renderla non deve: oh la sarebbe bella!
Ch’i’ avessi, per esempio, comprata una vitella,
E mi venisse dopo a dir vossignoria:
L’aveva contrattata, dunque la bestia è mia.
Risponderei: la bestia, signora, è nella stalla.
Sborsato ho il mio denaro, la mia ragion non falla.
Cellina. Fattor, parlate bene.
Pierotto.   Ho io parlato male?
Il paragon che ho fatto, vi par troppo triviale?
Se non vi piace questo, ve ne dirò un più bello.
Vado al mercato, e compro, per esempio, un cappello.
Vien un da lì ad un mese, in testa me lo vede,
Dice che gli piaceva; lo vuole, e me lo chiede.
Per cortesia gliel’offro, ma quando l’ha guardato.
Dice non esser quello, perch’io l’ho adoperato.
Or Zilia non sarebbe da un altro ricercata,
Se Deterville l’avesse per esempio sposata.

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Non so se m’intendete. Ma in pratica si vede,

Che fra due litiganti sta meglio chi possede. parte

SCENA VII.

Madama Cellina, poi Monsieur Rigadon.

Cellina. Sa costui quel che dice; poco il germano è accorto.

Dovea tosto sposarla. Ora il meschino ha il torto.
Rigadon. Deterville dov’è?
Cellina.   Noi so, non l’ho veduto.
Rigadon. Sapete voi la nuova del Peruvian venuto?
Cellina. Lo so. Non è in Parigi?
Rigadon.   Certo, signora sì;
Ma credo che a momenti lo vedrem venir qui.
Cellina. Venga. Che importa a noi?
Rigadon.   Che importa? importa assai.
A Deterville10 compagno pazzo non vidi mai.
Intesi che di Zilia sposo esser dee costui;
E questa villa e i mobili saran dunque di lui?
Se Detervill per moglie la femmina prendea,
Aver figli da quella poteva11 e non potea.
Potea sperarsi in parte da noi goderne il frutto;
Ora se d’altri è fatta, da noi si perde il tutto.
È un’ingiustizia questa, ch’ei fa ai nipoti suoi;
Nè io soffrir lo voglio, se lo soffrite voi.
Cellina. Ma in queste spese alfine l’oro di Zilia io vedo.
Rigadon. Non so, non vuo’ saperlo. Lo credo, e non lo credo.
Dov’è la vostra dote?
Cellina.   Di lei siete sicuro.
Rigadon. Non lo so, non la vedo. Vuo’ metterla al sicuro.
Deterville è onorato...; non ho temuto mai;
Ma in dote ebbi finora solo fastidi e guai.
E già che alla mia sposa amor non mi fe’ caro,
I beni non si perdano, non perdasi il denaro.

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Cellina. Di voi più assai mi dolgo, se di me vi dolete:

S’io son poco amorosa, un satiro voi siete.
Alfin voi non potete lamentarvi di me.
Bramaste dei figliuoli? Io ve ne ho dati tre.
Rigadon. Grazie alla sua bontà.
Cellina.   Farne degli altri ancora
Saprò, se non vi bastano.
Rigadon.   Troppe grazie, signora.
Ma ciò sarà difficile, continuando l’usanza
Di star io nella mia, voi nella vostra stanza.
Cellina. Chi diavolo volete che star possa con voi?
Un uom che solo ha in cuore gli argenti e gli ori suoi:
Un uomo tal, con cui ogni dì s’ha a contendere
Nelle minute cose, allor che s’ha da spendere.
Se mio fratel non fosse, farei bella figura!
Egli è, che per affetto all’onor mio procura;
E voi, cuor ingratissimo, così ricompensate
Il ben che si riceve, che voi non meritate?
Siete un uomo indiscreto; ho noia nel sentirvi
A ragionar da ingrato. No, non posso soffrirvi, parte

SCENA VIII.

Monsieur Rigadon.

Dica pur ciò che vuole, so ben quel che cerch’io.

Senza badare ad altri, vuo’ fare il fatto mio.
Questa graziosa villa, che un dì goder io spero,
Lasciar non vuo’ che vada in man d’un forastiero.
Sì, sì, voglio eseguire quel che in mente or mi viene;
Già in tre ore a Parigi si va, si sta e si viene.
Della curia un ministro meco farò venire:
Pretendo su tai beni, e li farò interdire.
Le mie ragion son certe. Le mie ragion son note
Vuo’ assicurar su questi il dritto della dote;
E pria ch’altri vedere padron di questo loco,

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Vorrei colle mie mani dare alla casa il loco;

Ch’altro ho di bene al mondo fuori della ricchezza?
La moglie non mi piace, mi sfugge, e mi disprezza.
I figli sono pesi, che giorno e notte io provo.
I parenti non curo, amici non ne trovo.
Il vino non m’alletta, mangiar mi piace poco;
Non ballo, non vo a spasso, non fo all’amor, non gioco.
L’oro sol mi diverte, l’oro mi piace solo;
Quando accrescerlo posso, mi nutro e mi consolo.
Odio chi me lo scema; odio perfin la moglie:
Non est amicus noster, chi il nostro ben ci toglie. parte

SCENA IX.

Monsieur Deterville e Zilia.

Zilia. Ah no, signor, fermate.

Deterville.   Lasciatemi partire.
Zilia. Dove andar destinate?
Deterville.   Da voi lungi a morire.
Zilia. Fermatevi un momento, prima uditemi almeno.
Deterville. Più che con voi qui resto, più mi tormento e peno.
Zilia. Questa impazienza nuova, questo novel tormento,
Come in voi a tal segno cresciuto è in un momento?
Sono diversa forse da quel che vi son stata?
Parvi che ai doni vostri sia divenuta ingrata?
No, Deterville pietoso, no, non si scorda il cuore,
Le prove generose d’un magnanimo amore.
Son per voi quel ch’io sono, lo vedo e lo confesso.
Lo dissi al mondo tutto, lo dirò ad Aza istesso.
Egli da’ labbri 12 miei saprà le grazie vostre,
Nè mai potrà vietarmi che grata a voi mi mostre.
Giuro che se lo sposo mi desse altro comando,
Mi sdegnerei con esso al vostro cuor pensando.
Ma lo conosco appieno, di ciò non è capace;

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Amerà ch’io vi stimi13 l’uom di virtù seguace.

E voi che di virtute le tracce ognor seguite,
Deh nel miglior dell’opra il cuor non avvilite.
Deterville. Zilia, al timor lontano rimedio è la speranza;
Manca la speme, e cresce il duolo in vicinanza.
Aza è a Parigi. In breve vedrollo a voi vicino.
Voi sarete sua14 sposa. Deciso è il mio destino.
Che da me più volete? che fin sugli occhi mia
Vegga il rival felice? Vederlo io non potrei.
Se ho da morir di duolo, meglio è per voi ch’io vade
Lungi a morir da queste sì barbare contrade.
Zilia. Deh per pietà restate, nulla per me faceste,
Se in sì fatal momento cuor di lasciarmi aveste.
Duolmi del dolor vostro, ah non so dirvi quanto!
Credasi il mio dolore al testimon del pianto.
Deterville. Bella, piangete?
Zilia.   È vero.
Deterville.   Per me?
Zilia.   Per voi, crudele.
Deterville. Zilia, mi amate voi?
Zilia.   Sono ad Aza fedele.
Deterville. Ah da qual fonte adunque esce quel pianto amaro?
Zilia. È da un dover spremuto, che troppo tardi imparo.
Or mi sovvien que’15 primi dolorosi momenti,
In cui fissai ne’ vostri i miei lumi innocenti.
L’ora fatal sovvienmi, in cui del vostro cuore
Bella16 pietate umana interpretai l’amore.
Ma che saper potea vergine appena nata,
Nel regal tempio al Sole a servir destinata?
Io del Perù la lingua, voi l’Europea parlando,
Coi sguardi e con i cenni ci andavamo17 spiegando;
Ma l’ignoranza mia che i sguardi mal intese,
Secondandoli forse il vostro foco accese.

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Ben me n’accora allora che appresi a mio rossore,

Quel che spiegar voleva questa parola: Amore.
Colpa fu mia, noi niego, questa passion che v’arde;
Dovean le mie pupille volgersi a voi più tarde.
Al mio signore il viso alzar dovea tremante.
Rispettar il nemico, non coltivar l’amante.
Voi chiamandomi austera, selvaggia, anima ingrata,
Prima d’innamorarvi mi avrestenota disamata.
Goduto non avrei frutti del vostro amore,
Ma della sconoscenza non proverei il rossore.
Aza perduto forse avrei senza di voi.
Il Cielo a noi mortali cela i decreti suoi.
Morta sarei fedele a lui, per cui son nata;
E a Deterville che l’ama, Zilia non fora ingrata.
Deterville. Voi vi pentite adunque di quel primier momento,
Che piacer mi sapeste?
Zilia.   Sì, Deterville, mi pento.
Quella pietade istessa che voi m’usaste, io sdegno,
S’ella v’impresse in cuore di vincermi il disegno.
L’oro e l’argento io nacqui a calpestare avvezza;
L’onore e l’innocenza forman la mia ricchezza.
Che dirà il mondo insano di me, se voi partite?
Aza di qual sospetto voi col partir fornite?
Se di mirar vi spiace questo rivale in volto,
Parmi un miglior rimedio difficile non molto.
Lungi non è Parigi, brevissima è la strada;
Senza di voi lasciate che ad incontrarlo io vada.
Tornerò collo sposo ai lidi del Perù;
Zilia da voi lontana non la vedrete più.
Grazie dei doni vostri il grato cuor vi rende.
Ma li rinunzio allora che l’onor mio s’offende, parte
Deterville. Zilia, non partirò. Deh Zilia mia, fermate.
Pietà del mio dolore, anime innamorate. parte


Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Edd. Pasquali e Zatta: da.
  2. Qui, e più sotto, è stampato Deterville in tutte le edizioni.
  3. Ed. Zatta: Egli è quel che me l’offre, è quello che l’invita.
  4. Così il testo.
  5. Ed. Pitteri: rissalir.
  6. Nel testo è stampato: Detervill.
  7. Così è stampato nelle varie edizioni.
  8. Edd. Pasquali e Zatta: forestiere.
  9. Nel testo: Detervill.
  10. Nel testo, qui e più sotto: Detervill.
  11. Edd. Pasquali e Zatta: potea.
  12. Ed. Pitteri: labri.
  13. Ed. Zatta: ch’in voi stimi.
  14. Ed. Zatta: la.
  15. Ed. Zatta: de'.
  16. Così nella ed. Pitteri e nelle ristampe di Bologna. Nelle edd.i Pasquali e Zatta e nella ristampa di Torino si legge: Della.
  17. Ed. Pitteri: s’andavamo.