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236 ATTO PRIMO
E il mondo, che pensare non sa senza malizia,

Vedrà che in me non regna vanità, ma giustizia.
Rigadon. Ora la fonte i’ vedo, donde il denar fu tratto;
Ma ancor che ben facciate, non son convinto affatto.
Alfin fu preda vostra dell’oro la ricchezza,
E parmi il rinunziarla1 un po’ di debolezza.
Deterville. Ciascuno a suo talento giudica, pensa, e parla.
Piace a me la pietade, e studiomi d’usarla.
Qual dritto avean gl’Ispani di Zilia sui tesori?
Qual dritto a me deriva da quel dei rapitori?
Così fosse a me dato porla sul patrio trono,
Come dei beni suoi posso offerirle il dono.
Rigadon. Sì, Deterville2, voi siete uom generoso e prode:
Per queste due virtudi merito avete, e lode;
Ma questa volta, amico, il vostro cuor si sente,
Il vostro cuor si vede spinto da altro movente.
Deterville. Dove piegar intende veggo il vostro pensiero;
Voi credete ch’io l’ami, e vi apponete al vero.
Rigadon. Bene, amatela pure, se amor vi punge il seno;
Ma voi potreste amarla, e spendere assai meno.
Lungi dal suo paese, schiava d’altrui, poi vostra,
Regnar non può pretendere nella provincia nostra.
Non dico ch’ella serva, se ha di signora il vanto,
Ma non è necessario per lei spender cotanto.
Deterville. Dell’amistade in grazia, poss’io parlarvi chiaro?
Voi siete un uom di garbo, ma siete un poco avaro.
E questa è la cagione, per cui la suora mia
Vi fa, per quel che dite, sì scarsa compagnia.
Alla nazion Francese, ch’è nota al mondo intero,
È quel dell’avarizia un vizio forastiero;
Siccome a noi sarebbe vizio egualmente estrano3,
Trattar donne gentili con animo villano.
Rigadon. Dite quel che volete, so la comun pazzia,

  1. Ed. Pitteri: rinonziarla.
  2. Qui anche nell’ed. Pasquali è stampato: Detervill.
  3. Ed. Zatta: strano.