La leggenda di Tristano (1942)/Nota
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NOTA
Si pubblica in questo volume, in grafia metodicamente ammodernata, con le necessarie correzioni e con integrazioni congetturali di frasi e di parole, la piú antica versione italiana della leggenda di Tristano, edita, in trascrizione diplomatica accurata e sagace1, dal Parodi nella magistrale opera, da gran tempo esaurita, Il Tristano riccardiano edito e illustrato da E. G. Parodi (Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1896).
Nella prima parte dell’Introduzione (pp. vii-cxvi), tuttora di fondamentale importanza (al pari dell’opera, che spesso vi si cita, di E. Löseth, Le roman de Tristan, le roman de Palamède et la compilation de Rusticien de Pise, Parigi, 1891) il compianto Maestro fermò la sua attenzione su quattro manoscritti rappresentanti una tradizione della leggenda che ha caratteri ben delineati, per l’ordine delle varie narrazioni, per alcuni particolari degni di nota, per la forma semplice e rozza ed anche per alcuni nomi proprii.
I mss. sono2:
1) Il Riccardiano 2543 (R), eseguito sulla fine del sec. XIII, di 180 carte, di chiara scrittura calligrafica (nonostante la somiglianza di certe lettere fra loro, cioè del K e del r, del t e del c), mutilo e «ridotto in pessimo stato, per una macchia, che a poco a poco, quanto piú si procede verso il fine, si va allargando e facendo piú intensa, in modo da corrodere anche e lacerare la pergamena. Le lacerature cominciano coll’odierno foglio 144; dal 160 in poi si va di male in peggio».
2) Il Riccardiano 1729 (F), appartenente alla fine del sec. XV. È miscellaneo, tutto d’una mano: il primo testo è un Fior di virtú, seguono vari trattati morali di minore importanza, e finalmente, al f. 93 a, comincia il Tristano, con cui il ms. termina.
Fino al f. 180, il testo, pur con abbreviazioni ed omissioni, è affine a quello di R (fino al I. 69); poi il copista lascia in asso il racconto, saltando all’ultima parte di esso, cioè alla morte di Tristano (la quale, invece, in R non si trova, perché, ripeto, esso è mutilo).
3) Il Panciatichiano 33 (P), bel membranaceo del sec. XIV, «che contiene una raccolta, in gran parte frammentaria, di narrazioni del ciclo di Artú, messa insieme da un unico e laborioso compilatore». Al f. 39 b comincia il nostro Tristano, fedele, nel fondo e nella forma (nonostante certi arbitrii e molte abbreviazioni), alla tradizione di R fino all’andata di Tristano nella Piccola Brettagna. La guerra del conte d’Agippi e le nozze con Isotta dalle bianche mani sono invece appena indicate, e da quel punto in poi le tracce di R non si trovano piú.
Notevole, fra i tratti non comuni, quello relativo al ritorno di Tristano in Cornovaglia e alla sua morte (f. 271 e sgg.) che il Parodi, da noi seguilo, pubblica a mo’ d’appendice, come utile complemento della tradizione R.
4) Il Palatino E. 5. 4. 47 (L), bellissimo codice membranaceo scritto nel 1446. Attinge (con aggiunte ed arbitrii del rifacitore) ora alla tradizione R, ora a quella della Tavola Ritonda edita dal Polidori; i due testi «sono contaminati in modo molto curioso, compenetrati, quasi direi, l’uno nell’altro».
Come il Parodi dimostra, il cod. R «è il piú compiuto, e il solo che fornisca un testo accettabile; gli altri, per quanto ci è dato giudicare, non vanno piú oltre che esso non vada, e sono alterati in mille modi».
Il piú importante ms. dopo R (non il piú fedele, che, in complesso, è F) è P, che in qualche tratto si conserva vicinissimo a R, ma spesso presenta un colorito piú moderno, abbreviazioni ed arbitrii. Per quanto si riferisce alla fine del romanzo (che, ripeto, non è in R quale ora lo abbiamo), il Parodi giustamente opina che F risalga alla stessa fonte che il resto, mentre è da escludere che ad essa si colleghi P (soprattutto per il nome del traditore, che è Andrel anziché Ghedin).
A ogni modo, non si può dubitare che i quattro codici «s’aggruppano a due a due: R P, F L. L’accordo dei primi è evidente nella seconda parte, ove hanno spesso comuni anche le espressioni piú insolite e particolaritá dialettali, che non sono proprie né dell’uno né dell’altro».
⁂
Molto lacunose (e di scarsa importanza per quanto riguarda il protagonista della nostra leggenda) sono le pagine dell’edizione Parodi qui non accolte.
Esse sono:
1) gli ultimi 5 paragrafi del cod. R, che costituiscono come l’appendice e il commento della liberazione di re Artú fatta da Tristano;
2) i primi tre periodetti (poco chiari) e l’ultima carta (per metá lacerata) del tratto di P pubblicato dal Parodi a mo’ d’appendice3. Questo tratto segue, in questa nostra edizione, con numerazione da noi aggiunta, all’ultimo paragrafo di R, da noi riprodotto nei suoi periodi essenziali (relativi a Tristano), per fortuna non lacunosi.
Prima di dare particolari indicazioni sulle correzioni da me introdotte e sulle integrazioni congetturali, voglio esporre brevemente i criteri secondo i quali ho proceduto nell’attenta e paziente revisione del testo, fatta col desiderio di rendere agevole e piana la lettura dell’interessante leggenda.
Anzitutto ho, con prudenza e metodo, ammodernata la grafia, confortato dall’esempio dato, nel 1922, dal Parodi stesso nell’insuperabile edizione del Fiore, e tenendo presente P, la cui grafia è, evidentemente, meno arcaica e meno incoerente.
Non ho mancato di ricorrere, per sicure nozioni sulla morfologia e sulla lingua del tempo, alle ben note trattazioni del Barbi e dello Schiaffini4; ma ho fatto tesoro, com’è ovvio, soprattutto del mirabile, compiuto studio del Parodi (pp. cxxix-ccx). Ed ho cercato di rappresentare con fedeltá, non le abitudini grafiche, talvolta capricciose e mutevoli, dei mss. tenuti a fondamento (e cioè R per i primi 213 paragrafi e P per il resto), ma i reali fenomeni fonetici e morfologici.
Perciò, oltre a trascrivere in tondo le numerose lettere e parole dallo scrupoloso editore trascritte in corsivo5, ed oltre a seguire, per l’uso dell’h nelle voci del verbo avere e degli accenti, le norme a cui è fedele questa Collezione, io ho:
1) ridotto alla grafia moderna i frequenti: tenpo, inperciò, dicie, diciea, igli, damisciella, cierto, piacierdá, figluolo, singnore, vergongna, risspuose, dolcie, ciercare, ecc. ecc.;
2) soppresso la frequente desinenza bisdrucciola nella 3a plurale del perfetto indicativo e dell’imperfetto congiuntivo dei verbi forti (sepperono, fecierono, disserono, preserono, ecc.; fosserono, sapesserono, ecc.);
3) scritto di seguito gli avverbi in mente6, il numerale ambo due, l’avverbio a ttanto ecc.;
4) di rado conservata (e cioè quando presumibili ragioni di eufonia la giustificavano) la e aggiunta spessissimo agli ossitoni (vae, ee, farae, parloe, ree, giae, sie, see, issee, impercioe, ecc.);
5) sciolto i nessi nelle scrizioni irre, derre, collui, ecc.;
6) ridotto i raddoppiamenti sintattici assai frequenti ( infra ssé, sopra ccioe, d nnome, á ffatto, e’ ffosse, inn uno, ititi isconfitta, e ppreserono, andiamo a llui, e ssi gli risguardiamo, ecc. ecc.);
7) uniformato la grafia7 di alcune parole.
Mi preme notare, a questo proposito, che R, nel quale in gran prevalenza si osservano i fatti sopraelencati (e che del resto è il ms. che ha fornito, per nove decimi, la materia per l’ediz. Parodi e per la nostra), spesso, e talvolta nella stessa pagina e a distanza di poche frasi, alterna le forme meno corrette a quelle da noi sostituite8 (p. es., noe e non, ree e re, sie e si, cioe e ciò, fee e fe, ecc.).
Per quanto concerne le correzioni concettuali e le integrazioni (di cui sará dato conto piú oltre), mi sono giovato, anzitutto, di elementi e rilievi sparsi dal Parodi nell’introduzione, in calce al testo e nel lessico; ma non di rado il suggerimento mi è venuto da altri testi di leggende cavalleresche (p. es. dalla Tavola ritonda, che attinse anche al nostro R, dal Tristano veneto9 e talvolta anche dal Tristano Corsini10 e dai testi vari editi11 dal De Bartholomaeis, dal Gardner e dal Bertoni), e da brani della versione spagnuola (affine12 a R) e del testo francese.
⁂
Cap. I. «lo fecero seppellire a grande onore.» La frase avverbiale, mancante nel cod. R, è stata da me aggiunta di sul ms. affine P.
— «lo re Marco... e vide.» In questa e in molte altre proposizioni temporali, «e» ha il noto significato di «ecco che». Talora, si tratta solo di congiunzione pleonastica.
Cap. II. «E vide venire un uomo a cavallo inverso de lei, e cavalcando inverso de lei.» Il Monaci (nella Crestomazia) espunse le ultime tre parole.
Cap. II. «lo dolore del suo ventre»; il ms. aggiunge «ciò è nel suo ventre»; ho espunto, seguendo il Parodi.
— «non odano mai [parola]»; ho integrato, in conformitá della chiusa del precedente capoverso.
— «e prendete lo re Meliadus.» Cosí il cod. P, Il Parodi, con R, e prendere (il discorso lo fa cominciare con: e uccidete).
Cap. III. «[e parleranno] dela bestia salvaggia.» L’integrazione, che mi sembra indispensabile, la si ricava dal testo francese (cfr. l’opera del Löseth, p. 17).
— «molto oro e molto argento d’assai.» Il Parodi «ed assai»; il cod. P assai. L’avverbio «d’assai» è qui, come in altri casi, di rafforzamento all’aggettivo «molto».
— Non mi pare abbia senso il testo del Parodi, basato, al solito, sui mss. «E dappoi che l’ebe menata nella corte delo re Meliadus e vide»; delo è certo una svista per lo.
— Accolgo (dalle Aggiunte e correzioni del Parodi, p. 462) «[né] sí bello».
— «Vae prendi quella coppa e dami bere.» Ho soppresso la virgola dopo Vae (trattasi di una caratteristica forma di duplice imperativo, in uso anche ora in qualche dialetto) e, col conforto di un ms., «a» dopo «dami».
— «rendute cotale cagione.» Cosí il Parodi, con R (cioè col ms. base). Ma gli affini hanno «ragione».
— «Ma la reina la quale è diliverata per amore [di T. non pensa...].» Ho integrato, seguendo P (potrei citare parecchi esempi di confusione tra «amore» e «morte» negli antichi mss., confusione che giustifica il salto del nostro codice).
— «vide che la reina, [per] quello che sovra li era detto, ch’iera incolpata.» Colla mia integrazione, si rimedia al guasto dei mss. che il Parodi non volle (perché non era suo compito) correggere (né qui nè in molti altri passi). È ovvio il pleonasmo della congiunzione in «ch’iera»; gli esempi antichi abbondano.
— «dissero: E non verae T.? E Governale disse che non sapea.» Le ultime sette parole mancano nell’ediz. Parodi; ma si traggono con tanta sicurezza dai mss. affini che non ho creduto chiuderle in parentesi.
Cap. VII. «delo re Ferramonte di folle amore.» Il Parodi, col ms., «fello». Gli affini e l’ultimo inciso del capitolo giustificano la nostra correzione (e poi, fello amore significò «amore traditoresco»).
Cap. VIII. Anche a giudizio del Parodi, il primo periodo è piú regolare e meno tautologico negli affini; ed io li ho seguiti.
Cap. X. «lo convenentre ch’è stato intra la figliuola»: cosí gli affini (il Parodi, con R, ch’è intra).
Cap. XIV. «Allora rimase T. in sua compagnia.» Seguo F (che solo ha en); il Parodi (sempre, s’intende, con R) e.
— «Mare, perché non vieni aguale»; vieni è 3a persona (aguale — ora).
Cap. XVII. «se voi non foste [cavaliere] di legnaggio.» Dal corrispondente passo della Tavola ritonda traggo la sicura integrazione.
Cap XXVII. «nella quera delo Sangradale.» Il Parodi stampa «questa», ma a p. 462 pensa che quera del ms. debba accogliersi (è dall’ant. franc. esquerre).
Cap. XXX. «s’iera partito e andato via», con F; il Parodi, con R, andava.
Cap. XXXVIII. «non temea ch’alcuno colpo [di donna]». Un affine, di femena; il corrispondente passo della Tav. Rit. mi ha suggerito la esatta integrazione.
— «Cavaliere, per tre cose le quali io ti diroe sono quelle»: per è un forte anacoluto o un pleonasmo, e lo si ha anche nel seguente periodo, in cui perciò si deve leggere «sono quelle» (e non «quello»).
— Ho integrato «ti trovai nella navicella morto»; la Tav. Rit. «in caso di morte».
Cap. XL. «lo comandamento fue andato»: questa ritenne la forma piú probabile il Parodi stesso (p. 464) che nel testo pose «fu mandato». Da frase da noi accolta ricorre anche in altri capitoli.
Cap. XLII. «e tavia gli die che vegna armato» — e tuttavia digli.
Cap. XLIII. «Re Marco, non m’uccidere, ch’io vi diroe.» Qui e altrove si ha l’uso promiscuo del voi e del tu, non raro in antico.
Cap. XLIV. «Leva suso, che eco mio sire.» Il Parodi avverte che forse nel ms. è da leggere ecco, col primo c abraso.
— «queste parole non ci afe mestiere.» Strana e unica questa forma (afe) che sta per «ave». O è da correggere «fae»?
Cap. XLV. Col Parodi, non credo si debba correggere l’ultimo periodo (che certo non è l’unica prova dello scarso senso dell’organismo sintattico del nostro anonimo).
Cap. XLVI. «Cavaliere, dimanda ciò che ti piace.» Il Parodi, che stampa «d. ora che t. p.», osserva in nota che «non è impossibile che invece di ora s’abbia a leggere ciò».
Cap. XLVII. «non se’ bene cortese [né savio].» Accolgo la lezione di due affini; al nostro non dispiaceva la ricchezza di aggettivi.
Cap. LI. «in che modo egli potesse dislungare T. da sé.» Il Parodi stampa distruggere (col ms. solito) ma lo ritiene «forse scorretto». Io mi sono giovato di delonguare di F, che spesso, pur con lezioni alterate, si rivela meno infedele.
— «Ed io voglio la figliuola delo re L. d’I. [cioè I. la b.].» Data la tendenza del nostro alla precisione minuziosa ed alla ridondanza, mi sembra necessaria l’integrazione, che deduco da due affini.
— «T. fae mettere le targie di fuori da’ padiglioni.» Il Parodi, col ms., dentro; ma si confronti il periodo precedente, che giustifica la mia correzione.
Cap. LIII. «che voi ala morte del cavaliere.» Il Parodi, fedele trascrittore di R, «ala morte nè nela morte del c.».
Cap. LIV. «ed egli sí si divisa, imperciò che pare ben re.» Il Parodi «para buono ree» e annota: «forse parea». Noi seguiamo i due affini.
Cap. LV. «Ciò che mene prende non m’è disinore.» Piú esplicito è F: perche eo remagna perdente no m e d.
Cap. LVI. «e cola ispada [nuda in mano]», da F e P.
Cap. LVII. «non si pensava follia neuna di folle amore.» Correggo, con P, la lezione (fallia) seguita dal Parodi.
— «Adesso cambioe T. lo suo coraggio!» Il nostro ms., con evidente incongruenza, reca: «E incontanente che l’ebe leccata la cagnuola, adesso c. T. lo s. c.». Ho perciò espunto la mala zeppa.
— Coll’ausilio degli affini, ho corretto «in tutta loro vita lo giucarono volontieri» e «cambiando il tempo per grande fortuna» le due frasi del testo Parodi «insino a loro vita» e «di grande fortuna».
Cap. LVIII. Giustamente, al solito, annota il Parodi a proposito della frase «La notte istando lá entro»: non mi par necessario, pensando ad altre costruzioni simili, frequenti in R, correggere istanno.
Cap. LIX. «ma non si potea aparegiare ale bellezze di madonna.» Sicuramente errata la lez. di R che il Parodi esempla «non si puote apparechiare né paregiare ale b.». Noi seguiamo P.
— «or si danno del campo Blanor, il sire dela lontana isola e padre del C. G. lo B. e T.». Il Parodi stampa «è padre» e, col ms., omette «e T.». Com’è evidente, le nostre correzioni sono necessarie.
Cap. LXI. «si chiama Galeotto lo Bruno, [figliuolo del] principe sire.» Accolgo da P la sicura integrazione; invero, nel terzo periodo di questo capitolo è detto che il sire era Brunor.
Cap. LXII. «Ora dice [lo conto di] Galeotto ched egli.» Il Parodi, «o. dice G.», ma in nota avverte che il ms. legge dicie lo chonto G. L’inizio del quinto periodo giustifica la nostra lezione (di—intorno a).
Cap. LXIII. «compiangendosi di tanto sollazzo» (—dolendosi). Il Parodi, con R, «compagandosi» (cioè, com’egli spiega, appagandosi), Ma non c’è dubbio che la lezione di P, da noi seguita, è la vera; superfluo ricordare il noto verso del 2° canto dell’Inf. Il lungo tratto che va da «E tanto durò lo primo assalto che madonna Isotta» a «si conosce bene del’aventure» è cosí imbrogliato che il Parodi non s’attenta a correggerlo (del resto, egli non ne aveva il dovere). Noi abbiamo soppresso alcune «e» e un verbo «ee»; abbiamo corretto «vide» in «vede»; abbiamo iniziato l’ultimo periodetto con «E pensa bene» anziché con «e sí come si muta lo suo colore»; abbiamo inserito la preposizione dopo «si puote vedere» («lo suo» è pleonasmo frequente in simili costrutti). Contribuiscono, mi pare, a dar luce al passo, l’espunzione di «si» prima di «porá» e l’integrazione di «sofferire» giustificata da una frase consimile che ricorre poco piú oltre.
— L’altro inciso, in parentesi quadra, di questo lungo capitolo LXIII [ma io di ciò non temo] è in P.
Cap. LXVI. Costrutto piú genuino (non sto a darne esempio) è quello da noi tratto da P «Laonde ne fue grande damaggio nel suo reame di sí alto principe morire» che non quello dato dal Parodi «nel suo reame di lui. Sí alto p. morio».
Cap. LXVII. Evidente mi sembra la svista di R (seguito dal Parodi) e di P «per queste cose la reina si la farae distruggere». Abbiamo corretto francamente «lo re», come abbiamo integrato con «a» la frase «lo faranno tutto loro podere».
— Abbiamo poi espunto «v’» nella frase «Noi non v’andiamo bene», e «di fiore» nella frase «si avea uno fiore di fiore di lis» (nell’ultima parte di questo stesso cap. abbiamo la frase esatta).
Cap. LXXIII. «Ed io non prendendo guardia al dono dar lui.» Il Parodi, con R, al dono da llui (P, a llui); credo di aver (—non guardandomi dal fargli il d.).
Cap. LXXIV. «e T. che molta ira hae trapassata quella notte con grande doglia.» Forse è da correggere «che ’n molta i... nott’e» (oppure: «che molt’aira[to]»).
Cap. LXXIV. «che altra volta l’avea isvegliato e trattolo di d. p.», da P (il Parodi «isv. e allora sí gli disse tantosto i d. p.»).
Cap. LXXV. «e Ghedin [sí] si chiama damigello di suo amore». Credo di aver ben restaurato il passo che nei mss. è errato (il Parodi «e Gh. si la chiama damigiella di suo a.»).
— «ma coloro che vegnono ’n dela camera, que’.» Cosí giustamente il nostro ms.; il Parodi questa volta segue P (che).
— «quando tu mandi incontra a uno cav. e. se non un a. c.»; il passo non è chiarissimo: forse è da integrare «quando tu [non] mandi».
Cap. LXXVI. «sí le sparge lo vino tutto per lo petto giuso.» Ho inserito le ed ho espunto, attenendomi ad F P l’inciso «a quella cotale c’avrae fatto fallo a suo segnore».
— Anche nell’altro passo «Ora fa dare bere lo re all’altre donne» ho seguito P (il Parodi E diede bere all’a. d.).
Cap. LXXVIII. «ciò iera Sagrimon e Oddinello.» Ho integrato con P (Parodi ciò iera l’uno O. ).
Cap. LXXIX. «Ghedin che di male pensare non cessa, cola damigella m. e’ disse.» (Parodi «[parla] c. d. m. e d.»; integrazione non necessaria, perché dire con fu in uso anticamente invece di dire a).
— Piú genuino mi pare il testo che si trae da P «bene [lo dovere’ io avere veduto]» che quello di R (seguito, com’è ovvio, dal Parodi) bene l’avremo noi sentito.
— Lo stesso dico dell’altro passo [e prende uno suo mantello... braccio].
Cap. LXXXI. «in altra parte lá [ove] nostra compagnia non p. e.». Cosi P; certo, meglio di Parodi (— R) «in a. parte [e] la n. comp. non p. essere ora piú con voi».
Cap. LXXXVII. Con P, leggo «In queste parti e in q. dis. tornerebbe uno cav.». (Parodi, sempre con R, In quella parte colae si torna, cioè in q. dis. uno cav.).
Cap. XCIX. Sempre con P, leggo «lo quale è [nello intrare] del bosco» (lezione preferibile a quella seguita dal Parodi ce indelo diserto d. b.).
Cap. CII «traditori li quali t’hanno aunito per tutto tempo.» Il Parodi trascrive fedelmente punto e propone in nota dubitativamente punito. Migliore la nostra congettura; aunito — disonorato.
Cap. CXIII. — La esatta interpunzione del passo «cole l. ab. e alo fedire d. sproni. E Ghedin» è data, nelle Aggiunte, del Parodi stesso; una frase consimile è nel cap. CXIX.
Cap. CXXIX. «Molto parloe lo re.» Il Parodi ha parole e annota: «francese? O parloe?».
Cap. CXXXIX. «si come aviano fatte t. l’a. s. terre». Il Parodi corregge in «fatto» l’unico ms,; ma la sintassi antica, come ha piú volte dimostrato il Barbi, consentiva questi ed anche piú liberi costrutti.
Cap. CXLIX. «isperando io, sí come Ghedin mio frate.» Notevole questa accezione di «sí come» (—poiché).
Cap. CLX. «voi a lui siete d’uno uguale od anche maggiore.» La restituzione è del Parodi, che la giudica non buona. Forse, d’uno uguale significa «di pari grado». O è da correggere «siete d’in tutto uguale»?.
Cap. CLXI. Notevoli le forme dimoreste (—dimorereste) e traudita (—molto udita).
Cap. CLXIII. «lo mio cavallo abbia a patto di cadere.» Il Parodi, con l’unico ms., a ppato. A ogni modo, è frase di cui non conosco altri esempi. Ben nota, invece, è la forma «astetteroe», che in un primo momento il Parodi corresse nella piú comune.
Cap. CLXVIII. Verso la fine, si può leggere «consappiendo» (—essendo consapevole) o, col Parodi, «con sappiendo» («con» pleonastico, come altre volte «in», sempre col gerundio, alla francese).
Cap. CLXIX. «lo quale iera stato p. t. la notte [in] cosí gr. p.». Potrebbe anche essere «p. t. la notte co’ sí gr. p.».
Cap. CLXXVI. «per passare questo fiume, per andare dall’altra parte di questo diserto.» Il Parodi, coll’unico ms. reca invertiti «fiume» e «diserto».
Cap. CLXXXVI. Nell’ulti ma frase, è forse da inserire non prima di «è di Cornovaglia».
Cap. CLXXXVIII. Dato lo stile stereotipato del nostro, mi sembra sicura l’integrazione [sí come si convenía]: la frase ricorre piú volte (p. es., tre periodi prima).
Cap. CXCVI. L’ultima parola nel ms. è «maniera». Il Parodi (p. 425) pensa che sia forse un errore per «materia». Noi siamo con lui, adottando la forma, non ignota, matiera che spiega meglio la svista dell’amanuense.
Cap. CXCIX. Il passo lacunoso è stato da me restaurato tenendo presente soprattutto il seguente periodo della Tav. Rit. (p. 226) «m’intramise quella donzella che voi vedeste, che vi menò; e allora mi scontrò dinanzi la porta del palagio».
Cap. CCV. Per il sicuro restauro della lacuna dell’unico ms. della tradizione riccardiana, cfr. il seguente passo del cod. Palatino E 5. 4. 47 (foglio 63 b), «E lo re dise sí como eso portava lo campo azuro e lo lione d’oro.»
Cap. CCIX. Nell’ediz. Parodi questo capitolo (che vi ha il n. CCXIV, perchè noi, come è detto nella prima parte di questa Nota, abbiamo soppressi cinque capitoli, lacunosi e non necessari per la comprensione dei fatti di Tristano) ha dopo il 4° rigo una lacuna di quattro righe, ma noi non l’abbiamo indicata nel testo, perché, togliendo, come abbiamo fatto, le ultime tre parole del primo periodo (ond’egli avea), il senso corre benissimo.
Cap. CCXI. (ed. Parodi, CCXVI). L’ultimo periodo è preceduto da un passo quasi tutto lacunoso e ridondante di minuzie che noi abbiamo soppresso, perchè tutt’altro che necessario o utile.
Cap. CCXII. (Parodi, CCXVII). Ho soppresso l’ultima riga, prima di sei illeggibili; non indico la lacuna.
Cap. CCXIII. (Parodi, CCXVIII). Le prime quattro righe sono lacunose; ho integrato parte della lacuna, tenendo conto delle forme stereotipate del nostro. Ho soppresso l’ultimo periodetto, che rimane sospeso nel ms. e perciò inutile.
Cap. CCXIV. Da qui comincia il tratto (relativo alle ultime vicende e alla morte di Tristano) che il Parodi esemplò di sul cod. Panciatichiano 33. Per questo tratto, giova alla correzione del testo il cod. V (—3325 della Biblioteca di Corte di Vienna)13. Avverto che la numerazione dei capitoli è mia; e che i fatti narrati in questa parte, si devono supporre avvenuti parecchio tempo dopo quelli narrati nei capitoli CCIX-CCXIII.
Cap. CCXV. «e tutta buona gente en la magione»; Parodi, col ms., e (la frase da noi restaurata ricorre anche altrove).
Cap. CCXVIII. Ho integrato la lacuna piú lunga giovandomi di V, che è in dialetto veneto (lo qual se ha cusí prouadho incontra de nui deuerie plui volontiera romagmr insenbre con nui cha apruovo ad altri).
Cap. CCXXIV. Traggo da V l’integrazione (Parodi, col ms. base, «parlamento. Cavalcavano tanto»).
Cap. CCXXVI. Cod. Panciat. nulla, Parodi nulla d, cod. V nogia. Credo che la mia congettura sia persuasiva.
Cap. CCXXVII. L’integrazione della preposizione (è de la morte di T.) si giustifica da sé, al pari dell’altra [come elli] che deduco da V, certo migliore della lez. Parodi: «nel m., cosí buona come la sua era».
— Per la fine del capítolo, mi sono giovato soprattutto del seguente tratto del c. d. Ricc. 1729 (foglio 1816) «l’omo non lo potrea tropo pregiare, sobre tuti li autri cavalieri del mondo».
Cap. CCXXXI. Il Parodi, col ms. da lui esemplato, «verá ancora a certo, e voi». Noi, tenendo presente una simile frase del cap. preced. «anco [ms. ancora] será ora che voi vorreste», abbiamo corretto «será anc’ora a certo, che voi» (—verrá per certo un giorno in cui).
Cap. CCXXXII. Ho soppresso chella dopo «amava e».
Cap. CCXXXIII. «Omè» disse elli «che posso io fare?». Il ms. che disse; il Parodi annota: che è forse da sopprimere.
— «Palamides,.... qui rimane tutto nostro innodio.» Il Parodi, col ms., tutto mostro di odio (V, lo nostro animo et la nostra discordia). La mia correzione mi sembra plausibile ( innodio, rafforzativo di odio; cfr. innoioso ecc.). Notisi, poco dopo, il crudo francesismo strifo (estrif).
Cap. CCXXXIV. «m’avete voi messo [al punto] el quale.» (V, me metese vui ala morte): la frase da me congetturata ha qualche riscontro nell’antica poesia e nel Tristano Corsiniano.
Cap. CCXXXVI. Ho integrato la lacuna giovandomi di V. Nel periodo seguente, il Parodi ha «poi ch’ella è in tale maniera»; di «elli» pleonastico si ha un altro esempio subito dopo.
— «fae una mine sí dolorosa»; il ms., seguito dal Parodi, ha fine, ma con qual significato? Non conosco altri esempi di questo francesismo (mine— volto, faccia) che io attribuisco al nostro; si usò però mena.
Cap. CCXXXVIII. Integro con V la breve lacuna di Panc. (Si che Y. morí); sopprimo, perché di evidente inutilitá, «La reina Y. morí per amore di T. e».
Cap. CCXL. Con V, ho corretto «che passa tutti amori»; Panc. e pazzo amore!
Cap. CCXLII. Da V, oltre qualche altro ritocco, traggo l’aggiunta, che era quasi di prammatica, «con grande onore».
Cap. CCXLIII. Da V, la correz. di «metallo» in «marmo bianco» e l’aggiunta «e lavorate m. s.».
⁂
Piú breve sará il discorso per quanto riguarda l’appendice.
La costituiscono: a) episodi della Tavola Ritonda, alcuni derivanti dalla tradizione riccardiana, altri indipendenti14; b) due episodi del Tristano Corsiniano, in dialetto veneto, indipendenti dalla nostra Leggenda, tradotti direttamente15 dal francese; c) un cantare in ottave, del sec. XIV, sulla morte di Tristano.
Questa triplice appendice giova non poco a dare una piú precisa immagine di tutto il vasto romanzo fiorito intorno al leggendario eroe.
Ho tratto gli episodi della Tav. Rit. dalla buona ediz. Polidori (1864), che si serví, tranne che per i primissimi capitoli (dovuti a un copista senese), del cod. Laurenziano pi. XLIV, n. 27.
Per gran parte dell’episodio n. 11, mi son giovato anche della lezione (riprodotta dal Bertoni) del cod. Urbinate Lat. 953.
Il Tristano Corsiniano è stato edito di recente (Cassino, 1937) dal dott. Galasso; la sua è trascrizione diplomatica, senza, quindi, proposte di ritocchi e senza, per ora, uno studio sulla lingua; la nostra per i due episodi (corrispondenti alle pp. 45-54 e 93-98) è la prima edizione interpetrativa, con parecchie correzioni e note di lingua.
Nostra è anche la costituzione del testo del cantare sulla morte di Tristano di cui il Bertoni ha editi fedelmente16 i due mss. noti: l’ambrosiano n. 95 sup. (in cui il cantare ha subito un forte colorito linguistico lombardo;, e il magliabechiano cl. VIII, 1272.
Nel riprodurre quasi tutto17 l’episodio, ho tenuto a fondamento il secondo ms., ricorrendo non di rado al primo, che offre, pur sotto la patina dialettale, lezioni evidentemente genuine.
Spero che il mio tentativo non sia disapprovato dall’insigne e cortese Maestro, al quale si deve, oltre al prezioso volumetto, un’approfondita monografia18sulla morte di Tristano.
⁂
Rimandando alla prima parte di questa Nota per i criteri generali, seguiti anche nell’edizione di questa appendice, faccio seguire brevi cenni sui principali ritocchi e qualche chiosa di grammatica e di lingua.
a) Dalla Tavola Ritonda.
n. 1. È facile riconoscere i senesismi di questo cap. (il solo, nella nostra scelta, tra i primi editi dal Polidori):èssare, dicano, dipartano, ecc.
n. 2 «se ne va al diserto per sapere s’ella potesse trovare del s. s. novella»: «trovare» è nostra congettura; il ms. sapere. Com’è ovvio, trasegna = indizio, traccia.
n. 3 «come non si difende per battaglia?» significa: «perchè da parte nostra non si difende il nostro diritto con una battaglia?».
— Superfluo giustificare: tanti vili, enterresii, venendo al mattino, gliele presento, cuffia del ferro, ecc.
— Noterò solo che «in istante» — in piedi.
n. 4. È chiaro che «con dicendo» — «col dire». Si sa che nell’antico italiano si usò anche, col gerundio, «in» alla francese; meno noto, ma pur certissimo, è l’antico uso del gerundio per l’infinito e anche per l’indicativo presente: nei testi da noi editi in tutto questo vol. gli esempi son tutt’altro che scarsi.
n. 5. Non conosco altri esempi di «napuro»; credo significhi: gromma, crosta.
n. 6: Per «bacalaria» che il Polidori confessa di non capir bene, rimando alla prefaz. di L. Russo alla scelta delle opere del Boccaccio (p. viii).
— È risaputo che «tenére» significò «elsa» e che «cernises» (n. 7, ultime righe) significò «cervogia, birra».
n. 8. «Seggio minus proides»: meno prode.
n. 11. Nel «sonetto» Amore, chi ti serve ho corretto in tormento l’evidente svista dei codici (talento). Ricordo su questo passo il citato bel saggio di F. Neri.
n. 12. (fine) «nenua maniera»: frase che ricorre non di rado: la mancanza della preposizione è dovuta anche a ragioni di eufonia.
— Credo che «astrisse» significhi: «le si strinse il fiato».
n. 13. Non inutile rilevare che «sentendosi» = in modo che si sentiva.
— Ben nota l’accezione di «per» (ult. rigo), e quella di «lasciavano» e simili voci di «lasciare» (n. 14).
b) Dal Tristano Corsini.
p. 344. Due sicure accezioni di con: «come» (piú volte, p. es. con la fareme nu?) e «che» (con lo brando).
p. 346. «ma più tosto vui non si fuora de qui». Può essere che si voglia dire siate. Ma forse è da correggere «no’ ’nsi» (non uscite).
p. 347. Ben nota l’accezione, anche nei testi non dialettali, del verbo «fare» in frasi come «Certo che non fase» (con riferimento a «caia»). E chiaro altresi che «ve ’n caçe ben con s’el ve ’n caçe male» = ve ne venga (accada, caggia) bene, come se ve ne venga male.
p. 348. Non inutile dichiarare che «parevelle» (dal franc.pareil, con irregolare geminazione della liquida; in Guittone abbiamo due esempi di parevole ma con altro significato) vuol dire «pari, simile» e che «somiente» — somigliante.
p. 349. Altro francesismo «al mio siente»: a mia saputa (lat. me sciente), a parer mio, secondo me.
— Il ms. credo per svista, «fatu aguro» e, con evidente errore, «ch’elo afere più a mi»; sicura la mia corr. ferae (=fará bene; in qualche altro passo è aggiunto mestieri).
— Quanto a «se coreçe», noto che questa forma si ha, men di frequente, accanto a «se coroçe» (e simili).
p. 350. «ad altro, ma che io sia tegnu» «ma che» = fuorché.
— È ovvio che «ver disant» — dicente il vero, «vegnisi» = venisti, «desiente» — desideroso.
p. 351. «Tristano lo prende a l’elmo»; il ms. e l’elmo (la frase ricorre anche altrove, in forma corretta, con a o con per).
— «aveno l’aventura» — hanno; «se a ciò ven meio»; se da (=con) ciò me ne vien meglio.
p. 352. «quando vene al çonçer»; questo verbo è piú usato con «delle spade».
p. 353. «acatasse caramente le vostre druarie» = pagasse a caro prezzo le vostre civetterie (druderie, moine).
— Si notino tre nostre correzioni: «sí se ’n ride» (ms. si ne ’n r.); «çadentro» (— qua dentro; il ms. ça centro); «i’ lo tengno» (ms. e lot.; forse, bisognava correggere: «e io lot.»). Evidente francesismo, di cui si hanno altri esempi antichi, «aquitarme del sagramento» = liberarmi, sciogliermi.
p. 356. Sicuro errore «Or podeso l’on veder». La forma da me corretta («podese» — potrebbe) ricorre anche altrove, p. es. a p. 355. Altrove ricorre anche il verbo «recreder» (— recedere).
— «atanto brocha»; ho lasciato qui e altrove l’h (cfr. brocciare del Fiore), perché, sempre nel Trist. Corsini, ricorre anche la forma «broça». Ma in antico si usò anche broccare. La fonetica del ms. in parola è spesso varia e talora capricciosa; ma non si poteva qui uniformarla troppo assolutamente; cfr. chace e çasante (— giace, giacente).
p. 357. «vede che lo campo si è inguale». Anche in altri dialetti settentrionali si ha ingual nel senso di eguale. Qui vorrá dire «campo libero, franco».
— «per suo grado, el non li serave piú trovado» — con suo gradimento, Palamides pensa che Tristano non sará piú trovato lí (nel torneo).
p. 358. La bizzarra frase «eli’ha pasado un P. de lui» vorrá dire: ella ha tagliato (staccato) un P. da lui.
— Superfluo rilevare l’errore del ms. «cridano sopra lui ch’el venco el tuto» e il significato di «preso del tornero».
c) La morte di Tristano.
1a ott. Il primo verso di questa che è la 2a ottava del magliabechiano, la terza nell’ambrosiano, ha il verbo al plurale (con falsa rima) perché si riferisce, oltreché a Tristano, anche a Sagramoro. Ma dato che poi si parla solo di Tristano, ho creduto bene restaurare la rima e il senso.
— Nel v. 3., l’inciso «senza Y. veder» è stato da me ricavato integrando tra loro i mss. (magl. stato vedere Y. ambros. stato senza Y).
3a ott. Prendo dall’ambros. per (v. 5) e Ixotta (v. 7); il magl. in e la reina.
4a ott. Nei 2 codici il v. è ipermetro (molto fu gr. l’al. e il s.); trattandosi di componimento di carattere popolare, si poteva anche lasciare.
7a ott., v. 6: magl. sbigottito; ambr. e sbigotito.
10a ott. L’ult. v., errato nel magl. (non l’abandona se non come io dico) è stato da me corretto coll’ambr. «che no l’abandonò, come ve digo».
11a ott. Errato è anche il magl. al principio del v. 5. e come prima (l’ambros. e may piú aldirò novella). Intendo: né piú mi giungerá la notizia delle tue infedeltá.
Superfluo giustificare le correzioni ai vv. 4 dell’ott. 13a, 2 dell’ott. 21a e 5 dell’ott. 23a; il magl., rispettivamente, ha: pentendo si dicie che facto avea; sí grande lamento che ella facea; infino a l’altro giorno non parlò T.
24a ott. Errato o lacunoso è il magl.; né l’ambr. aiuta. Tra l’altro ho corretto l’ultima parola del v. 4 (dottava) e ho integrato congetturalmente il v. 6 (se dovunque io ti portai...).
Note
- ↑ Dell’esattezza della trascrizione, di cui giá ero persuaso anche per la notizia, dataci dal Parodi, che i testi furono piú d’una volta collazionati di sulle bozze da Enrico Rostagtio e da Vittorio Rossi, ebbi materiale certezza anni or sono, consultando in numerosi passi cruciali il piú importante dei mss. (R)
- ↑ Riassumo, e talvolta cito fra virgolette, la dotta e complessa disamina fatta dal Parodi, che dá le prove delle sue asserzioni circa le relazioni che passano tra i mss.
- ↑ Dei 3 periodetti ecco il piú notevole: «Messer T è ora indiricto assai piú a disagio e di male: e andava morendo di dolore; ma ora li va dicendo messer Hestor tante parole di gioie e di soliamo ch’elli l’ha tutto riconfortato».
L’ultima carta reca, a quel che si può capire, oltre ad uu lunghissimo explicit, un cenno sui lamenti fatti per la morte di Tristano (sui quali è da vedere la bella e interessante ricerca di F. Neri, La voce «lai» nei testi italiani; Torino, R. Accad, d. Scienze, 1937). - ↑ Mi riferisco precipuamente, per il Barbi, alla introduzione all’ed. naz. della Vita Nuova, per lo Schiaffíni, ai Testi fiorentini del dugento.
- ↑ «Ho reso in corsivo tutto ciò che per congettura ho sostituito alle lettere scomparse affatto; non ho invece contrassegnato in alcun modo ie molte lettere o linee, appena appena percettibili, di cui abbia potuto, anche con grande stento e dopo ripetute prove, accertar la lettura.» Aggiungo io qui che, sempre allo scopo di render piú spedita la lettura, ho soppresso i richiami marginali alle carte dei mss. e i relativi asterischi che a volte spezzavano in due una parola. Ed invero io ho voluto dare una riproduzioue, per quanto possibile fedele e genuina, non di R (e, per l’ultimo tratto, di P), ma di tutta la tradizione (che ben può dirsi riccardiana) a cui i vari mss. risalgono. Ciò sia detto anche per le altre innovazioni grafiche e concettuali.
- ↑ Ciò, per quanto non ignori che la scrizione in due parole rispecchia meglio l’origine di detti avverbi.
- ↑ Cito ad esempio: viata (piú spesso, fiata), brive (brieve), prigo (prego e priego) ecc. Trattasi, secondo me, non di doppioni, ma di svarioni del copista di R, che spesso si distrae.
- ↑ Non senza, di frequente, il conforto dei mss. affini.
- ↑ Esso è utile soprattutto per l’ultimo tratto del romanzo (la morte di Tristano), per il quale si accorda (tranne che nel colorito linguistico, molto diverso) con P (esemplato per tale episodio dal Parodi, come piú volte ho detto).
- ↑ Edito di recente da un allievo del Bertoni, esso è traduzione diretta del Roman de Tristan e non ha attinenze (se non, talvolta, per il tipico fraseggio) coi nostri codici.
- ↑ Cfr. Tristano, gli episodi principati della leggenda... a cura di V. De Barth. (1922); E. G. Gardner, The Arthurian Legend in italian Literature (1930); G. Bertoni, Cantari di Tristano (1937).
- ↑ Cfr., oltre al volumetto del De Barth., Coronedi in Archiv. romanicum, XVIII, 1933.
- ↑ Ne pubblicò un lungo brano il Parodi, in una miscellanea nuziale (1894); per la lingua, cfr. il 4° vol. degli Studi romanzi.
- ↑ Il sagace lettore li rileverá agevolmente da sé.
- ↑ L’asserzione, fatta prima dal Bertoni, è stata dimostrata dal dott. Galasso; al Bertoni spetta anche il merito della breve ma persuasiva precisazione del dialetto (il Parodi ritenne che fosse il pavano).
- ↑ A p. 94 egli scrive: «Non si interviene con piú o meno facili emendamenti per ristabilire la misura dei versi e si lasciano come stanno nei mss. i passi che sembrano piú corrotti». (Cantari di Tristano, Modena, 1937).
- ↑ Ho soppresso, perché superflue o di lezione poco sicura o di scarsa importanza per il nostro eroe, le prime due ottave, le ultime tre e quella mala zeppa che è la 5a ott. del magliabechiano, la quale non ha riscontro nell’ambrosiano (ediz. Bertoni, p. 49).
- ↑ È nel vol. Poesie leggende costumanze del medio evo (Modena, 1917), pagine 233-270.