La gelosia di Lindoro/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera con armerone1 nel fondo. Da una parte tavolino da scrivere ad uso di segretario, dall’altra un altro tavolino con sopra della biancheria, cioè sei o sette camiscie proprie e pulite, ed una cestella col bisogno per lavorare di bianco, ed una sedia a ciaschedun tavolino.
Zelinda a sedere lavorando, Lindoro a sedere scrivendo.
Zelinda. Lindoro. (chiamandolo, dopo essere stati un poco senza dir niente)
Lindoro. Cosa volete? (scrivendo)
Zelinda. Avete molto da lavorare questa mattina? (lavorando)
Lindoro. Sì, molto.
Zelinda. Caro marito, non vorrei che il troppo applicare vi facesse del male.
Lindoro. Quando bisogna, non mi risparmio. (scrivendo)
Zelinda. Ma sollevatevi un poco: respirate un momento, parlate un poco con me.
Lindoro. Lasciatemi scrivere, non ho volontà di parlare.
Zelinda. In verità, Lindoro, voi mi date non poca pena. E qualche giorno che vi vedo taciturno, inquieto. Cos’avete mai che vi turba, che vi molesta? In un mese che siamo marito e moglie, pare che la vostra tenerezza per me si sia raffreddata.
Lindoro. No, Zelinda, v’ingannate, vi amo sempre più, e non non cesso di ringraziare il Cielo che siate mia.
Zelinda. Ma da che proviene questa vostra tristezza?
Lindoro. Non so, ho qualche cosa che mi dà pena... Vedete bene, mio padre non ha voluto approvare il mio matrimonio. Malgrado le lettere e le preghiere del signor don Roberto, non ha voluto riconoscervi ancora per nuora, non mi ha ancora assegnato niente per vivere, e siamo tuttavia obbligati a servire.
Zelinda. Sì, è, vero, ma la servitù è sì dolce, e per voi, e per me! Questo nostro padrone amabile, che ci ha sempre dolcemente trattati, ora che2 siamo sposati ci ama sempre più, e ci tiene in casa come figliuoli. Ringraziamo la provvidenza, e non ci affliggiamo fuor di proposito.
Lindoro. Ah Zelinda mia, voi non mi parlate che delle rose, ed io sento al cuore le spine.
Zelinda. Oh si sa che non si possono aver le rose senza le spine. Ma vi sono dei sfortunati che hanno le spine senza le rose.
Lindoro. (S’ella sapesse il tormento ch’io provo, non parlerebbe così). (da sè, scrive)
Zelinda. V’assicuro ch’io non posso desiderarmi maggior contentezza. Vi ricordate quanto abbiamo sofferto, quante lacrime abbiamo sparse? Finalmente siamo arrivati al colmo della nostra felicità. Che bel piacere per me, l’essere qui con voi, senza timore3senza soggezione, e lavorare con voi, e lavorare per voi;4 ecco qui, mirate le belle camiscie ch’io sto facendo. Sono per il mio caro marito.
Lindoro. Vi ringrazio, la mia Zelinda, vi ringrazio di cuore, ma sarei più contento se ci fosse permesso di vivere altrove, e di poter uscire di questa casa.
Zelinda. Scusatemi, Lindoro mio, io non capisco come possiate odiare una casa in cui abbiamo avuto tanto bene, e dalla quale ne possiamo sperare d’avvantaggio. Il signor don Roberto5 ci ha promesso beneficarci col suo testamento, ed è uomo da farlo, e son sicura che lo farà.
Lindoro. (Tutto il bene ch’egli può farmi non vale l’inquietudine ch’io soffro. Quant’amo il padre, odio altrettanto il di lui figliuolo). (da sè, scrivendo)
Zelinda. Questa è veramente una casa adorabile: è vero che la padrona è al solito un poco inquieta, che non mi vede ancor di buon occhio, ma non mi tormenta più come faceva una volta: don Flaminio poi ha per me una bontà, e posso dire un rispetto che non si può desiderar d’avvantaggio.
Lindoro. (Ah, questo è quello che mi tormenta). Vi pare dunque che don Flaminio abbia della bontà per voi?
Zelinda. Sì, certo, moltissima.
Lindoro. Aveva per voi la stessa bontà prima che diveniste mia moglie. (con un po’ d’ironia)
Zelinda. Oh sì, è vero. Ma la cosa è assai differente. Allora mi amava con un’altra intenzione. Ora è totalmente cangiato. E’ veramente un giovane savio, civile, onorato. Si unisce al padre nel desiderio di farmi del bene, e dopo ch’io son maritata, tutto l’amore ch’aveva per me, l’ha cangiato in vera e perfetta stima.
Lindoro. (Questo è quello ch’io non credo). (da sè, scrive)
Zelinda. Io vi conosco assai ragionevole, e son certa che non vi resterà alcun sospetto sopra di lui.
Lindoro. (Ah pur troppo ho dei sospetti che mi tormentano!) (scrive)
Zelinda. Tanto più che quest’è un torto che fareste a me.
Lindoro. (È vero, ma non me ne posso ancor liberare!) (scrive)
Zelinda. Non dite niente? non rispondete? Sareste mai per avventura dubbioso?...
Lindoro. Sono occupato a scrivere, quest’è la ragione per cui non parlo.
Zelinda. Non credo mai che il mio caro Lindoro...
Lindoro. Lasciatemi terminar questa lettera.
Zelinda. Fate pure, non vi voglio sturbar d’avvantaggio. (No, no, non v’è pericolo. Lindoro mi ama, mi conosce perfettamente, non può sospettare di me). (da sè)
SCENA II.
Fabrizio e detti.
Fabrizio. Lindoro, il padrone vi domanda.
Lindoro. Qual padrone?
Fabrizio. Il signor don Roberto. Non sapete che il signor don Flaminio è in campagna? Che il padre lo ha mandato a vendere il grano ed il vino della raccolta?
Lindoro. Sì, è vero, non me ne ricordava.
Fabrizio. Andate dunque...
Lindoro. Non mi mancano che due righe a terminar questa lettera. (sarive)
Fabrizio. Finitela, e andate. Il padrone ha bisogno di voi.
Lindoro. (Ho gran sospetto sopra costui). ( da sè, scrivendo)
Fabrizio. (Ho un affar di premura da comunicarvi). (piano a Zelinda)
Zelinda. (Ditelo...) (piano a Fabrizio)
Fabrizio. (Ora non posso). (piano a Zelinda) Bellissima questa tela. Sono camiscie per il padrone?
Zelinda. No, sono per mio marito.
Fabrizio. Brava. Gran donnetta di garbo! Gran buona moglie! In verità, Lindoro, non posso cessare di consolarmi con voi. Non si può dare un matrimonio meglio assortito di questo.
Lindoro. (Così parlava costui anche quando m’insidiava Zelinda.) (da sè)
Zelinda. (Son curiosa d’intendere che cosa ha da comunicarmi). (da sè)
Fabrizio. Ma via, Lindoro, spicciatevi. Sapete che il padrone è buono, ma l’aspettare l’inquieta.
Lindoro. Vi preme molto ch’io vada. Ci avete voi qualche parte in questa premura?
Fabrizio. Io non ho altra parte, che quella del desiderio che vi facciate sempre più ben volere.
Lindoro. (Se non lo conoscessi, forse, forse mi fiderei). (da sè)
Fabrizio. Via, vedo che la lettera è finita.
Lindoro. È finita. Ma il padrone mi ha ordinato di fare un conto, e vorrei portarglielo fatto.
Fabrizio. Che conto è? Andate, lo farò io, e ve lo porterò.
Lindoro. (Sempre più mi mette in sospetto). (da sè)
Zelinda. Ma via, caro Lindoro, andate. Se il padrone vi domanda, non è dovere che lo facciate aspettare.
Lindoro. Ma se deggio far questo conto... (con forza)
Zelinda. Ma se Fabrizio s’esibisce farlo per voi... (con vivacità)
Fabrizio. Sì, col maggior piacere del mondo. Date qui, ve lo porto immediatamente. (s'accosta al tavolino)
Lindoro. Dirà il padrone ch’io non sono capace...
Zelinda. Ma quante difficoltà inutili per non andare! Io non so.... In verità, Lindoro, voi mi fareste pensar delle cose... (con del calore)
Lindoro. Via via, non v’inquietate. Vi preme ch’io vada? anderò. (s’alza)
Zelinda. Mi preme che facciate il vostro debito.
Lindoro. Il mio debito? lo farò. (si stacca dal tavolino)
Fabrizio. Dov’è questo conto?
Lindoro. Eccolo qui.
Fabrizio. Volete ch’io lo faccia?
Lindoro. Tutto quel che vi piace. (Convien dissimulare fino ch’io giunga ad assicurarmi di qualche cosa). (da sè, parte)
SCENA III.
Zelinda sempre a sedere e lavorando, e Fabrizio.
Fabrizio. Che ha Lindoro che mi pare confuso e agitato?
Zelinda. Poverino! lo compatisco. Gli sta sul cuore suo padre... Ma dite, che cos’avete da comunicarmi?
Fabrizio. Un affare di conseguenza.
Zelinda. Che riguarda me, o mio marito?
Fabrizio. No, che riguarda il signor don Flaminio, e tutta questa famiglia.
Zelinda. Credeva, in verità, fosse qualche cosa che c’interessasse, e che voleste avvertirmi segretamente prima di farlo sapere a Lindoro. Ma se la cosa è diversa, perchè non dirmela alla presenza di mio marito?
Fabrizio. Vi dirò. Io ho tutta la stima per lui, ma trattandosi d’una cosa importante che dimanda rigorosamente il segreto, scusatemi, io non mi voglio fidar che di voi.
Zelinda. Lindoro non è capace...
Fabrizio. Lo so benissimo, ma alle volte... Per accidente... Si parla...
Zelinda. Bene, ch’è dunque questo grand’affare?
Fabrizio. Datemi parola di non parlare.
Zelinda. Credo che mi conosciate abbastanza...
Fabrizio. Sì, ma datemi la vostra parola d’onore.
Zelinda. In parola d’onore, non parlerò.
Fabrizio. Ora sono contento. Voi sapete, Zelinda, che la signora donna Eleonora ama pochissimo il signor don Flaminio.
Zelinda. L’ama, come le matrigne sogliono amare i figliastri.
Fabrizio. Sapete ancora, che per allontanarselo dagli occhi ha proposto un matrimonio per lui d’una vedova ricca, e che sposandola, andrà egli ad abitare in casa della consorte.
Zelinda. Lo so benissimo, e so che questo trattato è passato per le mani di don Filiberto, antico amico di donna Eleonora. (con un po’ di caricatura)
Fabrizio. E il padron v’acconsente...
Zelinda. Per l’importunità della moglie.
Fabrizio. Ora sappiate che il signor don Flaminio ha un amore segreto che non lo lascierà aderir certamente al matrimonio che gli propongono.
Zelinda. È naturale. Un giovane non può non avere qualche amoretto, e non vorrà sposare una vecchia.
Fabrizio. Ma il male si è, che quest’amore non è degno di noi, e guai se il padre lo venisse a scoprire.
Zelinda. Tanto peggio, me ne dispiace infinitamente.
Fabrizio. Non potreste mai immaginarvi di chi egli si sia innamorato.
Zelinda. Di chi mai? La conosco io?
Fabrizio. La conoscete sicuro.
Zelinda. E chi è?
Fabrizio. La signora Barbara.
Zelinda. La virtuosa di musica?
Fabrizio. Quella appunto.
Zelinda. Come mai? non si è ella chiamata affrontata, allora quando io era da lei in figura di cameriera, e don Flaminio è venuto per me, fingendo venire per lei?
Fabrizio. È verissimo, ma appunto da quest’accidente...
Zelinda. E non l’ha ella licenziato di casa sua con rimproveri e villanie?
Fabrizio. Appunto da quest’accidente, vi dico, è derivata la loro amicizia, ed all’amicizia l’amore. In somma le cose sono arrivate a segno ch’io credo assolutamente ch’ei la voglia sposare.
Zelinda. Oh, questa è una cosa che mi dispiace infinitamente. Se lo sa don Roberto, se lo penetra donna Eleonora, io prevedo tutta la famiglia in disordine, in iscompiglio.
Fabrizio. Vedete, se la cosa merita il segreto.
Zelinda. Io l’osserverò certo gelosamente. Ma con qual fondamento credete voi ch’ei la voglia sposare?
Fabrizio. Lo credo perchè lo conosco, e so che quando ama, lo fa con tutt’i sentimenti del corpo, e poi... mi ha scritto una lettera di campagna, con una inclusa per consegnare alla cantatrice.
Zelinda. Gliel’avete portata?
Fabrizio. No, ma spinto dalla curiosità, da una curiosità per altro onestissima, perchè prodotta da zelo di buon servitore, ho aperto la lettera...
Zelinda. Bravissimo, e che cosa dice?
Fabrizio. Non l’ho capita perfettamente, perchè è scritta in francese.
Zelinda. Datela a me, datela a me, che capisco bene il francese.
Fabrizio. Lo so, e per questo ho voluto communicarvela. Eccola qui, questa è la lettera che scrive a me, e questa è l’inclusa che doveva consegnare...
Zelinda. E che avete aperto.
Fabrizio. Sì, se il padrone lo sapesse, povero me; ecco un altro motivo per cui mi preme che non si sappia.
Zelinda. Avete ragione. Il padrone per lo meno vi licenziarebbe6 dal suo servigio.
Fabrizio. Vedete un poco s’io m’inganno, se vi sono nella lettera delle cose forti che dimostrano la loro intenzione.
Zelinda. La lettera non ha soprascritta.
Fabrizio. L’ho levata io quando l’ho dissigillata. Eccola qui nella mia. (le fa vedere7 )
Zelinda. Osservo che non l’ha nemmen sottoscritta.
Fabrizio. In questo ha fatto bene, se la lettera si perdesse...
Zelinda. E non mi pare nemmeno il di lui carattere.
Fabrizio. No certamente, non è il suo. O l’ha alterato, o ha fatto scrivere da un’altra.
Zelinda. E non potrebbe la signora Barbara avere qualch’altro amante?...
Fabrizio. Lo potrebbe avere, ma la lettera che scrive a me, parla chiaro. V’incarico, e vi prego di portare subito questa mia lettera inclusa alla signora Barbara, e consegnarla in proprie sue mani. (leggendo la sua lettera) Questo è carattere suo. (la fa vedere)
Zelinda. È verissimo. Vediamo un poco che cosa scrive. Guardate che non venisse qualcuno8 a sorprendermi.
Fabrizio. Sì, avete ragione. (guarda da diverse parti, e intanto Zelinda legge piano, e mostra qualche maraviglia) (Se il padrone lo sapesse... eppure io lo faccio per bene. Ma il bene se non comoda, non si gradisce). Non vi è nessuno, (forte a Zelinda)
Zelinda. Ho letto. Avete ragione. Si conosce che l’amore è molto avanzato, e conoscendo il carattere onesto della virtuosa, non si può credere che il disegno d’un matrimonio.
Fabrizio. Come mai si potrebbe fare per rimediarvi?
Zelinda. Lasciate operare a me; lasciate a me questa lettera. Parlerò io a don Flaminio. (la mette sul tavolino sotto la cestella)
Fabrizio. Mi pare, se male non ho capito, ch’egli prometta alla cantatrice di venire segretamente in città.
Zelinda. Sì, è vero; quando avete ricevuto la lettera?
Fabrizio. Ieri sera.
Zelinda. Promette di venir oggi.
Fabrizio. E se viene, e se va da lei...
Zelinda. State attento, e avvisatemi. Non avrò alcun riguardo d’andar io stessa a trovarlo, a sorprenderlo, a parlar a lui, a parlar a lei, a disingannarli, a convincerli. Sono troppo interessata per questa famiglia. Lasciatemi operare, e ne vedrete l’effetto.
SCENA IV.
Lindoro e detti.
Lindoro. (Eccoli qui in conferenza ancora. Cospetto, hanno de’ gran segreti). (da sè, e resta in disparte)
Fabrizio. Non ci vuol meno della vostra condotta, della vostra politica, per condurre questa faccenda.
Zelinda. Spero che all’ultimo il signor don Flaminio sarà contento di me.
Lindoro. (Sarà contento di lei?) (da sè)
Fabrizio. Ma sopratutto che don Roberto non sappia niente.
Zelinda. Non saprà niente.
Fabrizio. E che non sappia niente Lindoro.
Zelinda. Vi ho data la parola d’onore, non lo saprà.
Lindoro. (Oh cieli! sono in un mare di confusioni). (si ritira)
Zelinda. Orsù, andate, prima che arrivi qui qualcheduno.
Fabrizio. Vado, e mi raccomando alla vostra prudenza... Ma io aveva promesso a Lindoro di far per lui questo conto. Presto, presto mi spiccierò. (va a sedere al tavolino)
Lindoro. (La conferenza è finita, o per amore o per forza. Zelinda me ne dirà il risultato). (da sè, s’avanza)
Fabrizio. (Eccolo qui, abbiamo finito a tempo). (da sè, scrivendo e mostrando di non vederlo)
Zelinda. (Manco male che non è venuto a sorprenderci nel calor del discorso). (da sè, mostrando di non vederlo)
Lindoro. (Avrei bisogno anch’io di politica in quest’incontro, ma non ne sono troppo capace). (da sè) E bene, avete finito il conto? (a Fabrizio, seriosamente)
Fabrizio. Ci sono dietro. (scrivendo e conteggiando presto)
Zelinda. Cosa voleva il signor don Roberto? (a Lindoro, lavorando)
Lindoro. Aveva una lettera da mostrarmi. (a Zelinda, con serietà) Come? un uomo d’affari come voi. in tanto tempo che siete qui, non avete ancora finito un conto di nulla? (a Fabrizio, un poco forte)
Fabrizio. L’ho fatto, ma non va bene.
Lindoro. Ho capito, lasciate, lasciate, lo farò io. (con dispetto)
Fabrizio. Or ora ve lo do terminato.
Lindoro. Vi dico che lo voglio far io. (bruscamente)
Fabrizio. E bene, fatelo, se volete. Io non credo di meritarmi per questo... (s’alza)
Lindoro. Scusatemi, ma in materia di conti, ci ho anch’io la mia pretensione. (pacificamente) (Mi sforzo a dissimulare, ma non ci riesco). (da sè)
Fabrizio. So che siete abile in tutto, lo lo faceva solamente per sollevarvi...
Lindoro. Sì, vi sono obbligato. (siede ed osserva) (Indegno, non l’ha nemmen principiato). (da sè)
Fabrizio. (E sospettoso all’eccesso. Manco male che non sa niente). (da sè, parte)
SCENA V.
Lindoro al tavolino che conteggia, Zelinda lavora.
Zelinda. Che lettera vi ha fatto vedere il signor don Roberto?
Lindoro. Voi volete sapere che cos’ha voluto il signor don Roberto; mi domandate che lettera m’ha egli dato, ed io all’incontro non vi domando cosa voleva da voi Fabrizio, e quali discorsi v’ha tenuti mentre io non c’era.
Zelinda. Fabrizio?... da me non voleva niente... Non mi ha tenuto alcun discorso che meriti d’essere riportato.
Lindoro. Zelinda mia, non mi fate mistero di quelle cose che mi possono dar sospetto. (s’alza)
Zelinda. Mistero? di che? di che potete voi sospettare? (mette giù il lavoro)
Lindoro. Non crediate ch’io parli a caso; sono arrivato in tempo che Fabrizio vi parlava segretamente, e grazie al cielo, ho buon orecchio per intendere qualche cosa. (avanzandosi)
Zelinda. Voi non potete aver inteso alcuna cosa che vaglia ad offendervi, e nemmeno a porvi in sospetto. (s’alza)
Lindoro. Ditemi un poco, signora mia, qual è quell’affare che non dee esser saputo nè da me, nè dal signor don Roberto?
Zelinda. Lindoro, credo che voi mi conosciate abbastanza.
Lindoro. Sì, ma vi domando...
Zelinda. Credo che vi possiate fidare di me.
Lindoro. Rispondetemi a tuono. Cosa sono questi segreti?
Zelinda. Non v’è niente che v’interessi, non v’è niente che vi appartenga. Sono una donna d’onore, e mi fate torto se dubitate.
Lindoro. Sarà vero tutto quello che voi mi dite, ma non mi potrete negare che Fabrizio non v’abbia confidato qualche segreto.
Zelinda. Sì, è vero, non ve lo nego.
Lindoro. E perchè la moglie non lo può confidare al marito?
Zelinda. Perchè ho dato la mia parola d’onore di non parlare con chi che sia.
Lindoro. E nè meno con me?
Zelinda. Con chi che sia.
Lindoro. Orsù, questa non è la maniera di procedere d’una moglie saggia ed onesta.
Zelinda. Lindoro, voi m’offendete.
Lindoro. È maggiore di molto l’offesa che mi fate voi.
Zelinda. Che offesa? che parlate d’offesa? Non sarebbe niente se non aveste contro di me del sospetto, e il vostro sospetto è parte di poco amore, e sono parecchi giorni che m’accorgo della vostra freddezza. Povera me! chi l’avrebbe mai preveduto? Dopo un mese di matrimonio...
Lindoro. Non v’è bisogno di tante smanie. Con due parole voi mi potete render tranquillo.
Zelinda. Che non farei per il mio caro marito?
Lindoro. Ditemi quel che vi ha detto Fabrizio.
Zelinda. Credete voi che sia una donna d’onore?
Lindoro. Lo credo.
Zelinda. Credete voi che una donna d’onore possa mancare alla sua parola?
Lindoro. Queste sono delicatezze...
Zelinda. Sì, sono delicatezze, necessarie, immancabili a chi ha stima di sè e della propria riputazione. Son sicura di non offendervi, son sicura dell’onesto modo mio di pensare e di agire, e non parlerò. Voi m’insultate, ma pazienza. Un giorno verrete in chiaro della verità, e vi pentirete d’avermi insultata.
Lindoro. Quanto più vi difendete, tanto più mi date adito di dubitare.
Zelinda. Dubitare di me?
Lindoro. Dubitare di voi.
Zelinda. Ingrato.
Lindoro. E non crediate di mettermi in soggezione perchè siete protetta dal padrone di questa casa... (scaldandosi)
Zelinda. Lindoro, voi eccedete ne’ termini.
Lindoro. Non ho bisogno ne di voi, ne di lui. (si scalda ancora più)
Zelinda. Per amor del cielo, Lindoro...
Lindoro. E voglio ad ogni costo di qua sortire. (più caldo)
Zelinda. Quietatevi, che maniera è questa?
Lindoro. Son padrone di dirlo, di farlo, e non ci starò.
SCENA VI.
Don Roberto e detti.
Roberto. Cos’è questo strepito? Cosa sono questi gridori?9
Zelinda. Niente, signore, niente.
Lindoro. Niente, ella dice, ed io dicovi che v’è qualche cosa, e qualche cosa di conseguenza.
Roberto. Ed in qual proposito? (con agitazione)
Zelinda. Signore, son disperata: Lindoro non ha più per me nè amore, nè stima, nè carità.
Roberto. Vostro danno: l’avete voluto a forza. L’ho preveduto che ve ne sareste pentita.
Zelinda. Ah non signore, non sono pentita; se non l’avessi sposato, lo sposarei10. (con tenerezza)
Roberto. Sentite, ingrato, sentite? (a Lindoro)
Lindoro. Ella non ha motivo d’essere di me scontenta.
Roberto. E voi qual ragione avete per esserne11 malcontento di lei?
Lindoro. Ne ho più di quello che voi pensate.
Roberto. Zelinda non è capace...
Lindoro. Di che non è ella capace? Signore, voi non la conoscete.
Zelinda. Ah Lindoro, volete voi farmi perdere la grazia e la protezione di quest’amabile mio padrone?
Lindoro. Voglio uscire di questa casa.
Zelinda. Povera me! (1) (2) (3)
Roberto. Uscire di questa casa? Per qual motivo?
Lindoro. Perchè Zelinda e Fabrizio hanno de’ segreti fra loro che non devono penetrarsi nè da voi, nè da me.
Roberto. Nè da lui, nè da me? (a Zelinda)
Zelinda. Signore...
Lindoro. E siamo entrambi traditi. (a don Roberto)
Roberto. Da chi? (a Lindow)
Lindoro. Da questa femina che voi credete sì virtuosa.
Roberto. Zelinda... (voltandosi verso di lei)
Zelinda. Ah signore, sono innocente, ve l’assicuro.
Lindoro. Domandatele se ha de’ segreti con l’amico Fabrizio. (a don Roberto)
Roberto. Zelinda... (verso di lei con affanno)
Lindoro. Domandatele per qual ragione non si hanno a sapere questi segreti nè da voi, nè da me. (a don Roberto)
Roberto. Ah Zelinda, è tutto vero quello ch’ei dice?
Zelinda. Sì signore, è la verità. Fabrizio mi ha confidato qualche cosa, e m’ha raccomandato il segreto, ed io ho giurato di non parlare. Volete voi ch’io manchi al mio giuramento? Ch’io tradisca la parola di onore? Mi consigliate voi ch’io lo faccia? Mi assolverete voi da una taccia villana, indegna, condannabile in chi che sia? Sareste voi per avventura di que’ che dicono che le donne non son in obbligo di mantener la parola? Non vi credo di ciò capace, ma quando mai la curiosità o la passione vi facesse così pensare a riguardo mio, permettetemi ch’io vi dica, che l’onore è comune a tutti, che chi manca, manca per debolezza, per viltà, per difetto, e che le donne di spirito non sono meno scecrete, e meno delicate degli uomini.
Roberto. Sentite le sue ragioni?
Lindoro. Ne siete voi persuaso?
Roberto. Io sì.
Lindoro. Ed io no. I segreti si devono custodire quando non recano danno, o pregiudizio, o inquietudine alle persone, alle quali siamo attaccati per debito e per giustizia. Zelinda non poteva impegnarsi alla segretezza per una terza persona, in pregiudizio del suo padrone, e di suo marito.
Roberto. Lindoro in questo non dice male. (a Zelinda)
Zelinda. Vi dico, vi giuro, e vi protesto, che ciò non reca alcun danno nè a voi, nè a lui. (a don Roberto)
Lindoro. Ella lo dice, ed io nol credo, e voi non dovete crederlo, e dovete obbligarla a parlare. (a don Roberto)
Roberto. Via, Zelinda, vostro marito lo vuole, il vostro padrone vi prega. Siamo due persone discrete, promettiamo a voi la medesima segretezza che voi prometteste a Fabrizio. Diffiderete voi di due persone che vi amano?
Zelinda. (Oh cieli, se parlo, semino la discordia in questa famiglia. Se taccio, sono in pericolo d’essere maltrattata. Non so che fare, non so che risolvere... sì, il ripiego non è cattivo). Fate così, signore, parlatene voi con Fabrizio; s’ei mi dispensa, s’egli l’accorda, sono pronta a dirvi la verità. (Son sicura che Fabrizio non parlerà). (da sè)
Roberto. Dice bene Zelinda, dice benissimo. Fabrizio è fuori di casa, subito ch’ei sarà ritornato, gli parlerò. (a Lindoro)
Lindoro. Una moglie non ha da dipendere da chi che sia per obbedire al marito.
Zelinda. Nè un marito può obbligare la moglie a mancare alle leggi dell’onore, dell’urbanità, della convenienza.
Lindoro. Eccola l’ostinata, la perfida, la menzognera.
Roberto. Portatele rispetto. La conosco, e non son persuaso ch’ella sia capace di pensar male. (a Lindoro)
Lindoro. Io sono persuaso diversamente, e la farò parlar suo malgrado.
Roberto. Come! ardireste minacciarla?
Lindoro. Ella è mia moglie, ed io solo ho sopra di lei l’autorità ed il potere.
Roberto. Mi maraviglio di voi...
Zelinda. Ah signore, per questa parte Lindoro ha tutte le ragioni del mondo. Egli è12 mio marito, egli è padrone di mortificarmi.
Roberto. Povera sfortunata!
Lindoro. Sono io più sfortunato di lei. lo che ho rinunziato alla casa paterna, che mi sono assoggettato alla dipendenza per una perfida, per un’indegna...
Zelinda. Ah Lindoro, per carità...
Roberto. Non posso più tollerarlo. Venite meco. (a Zelinda, prendendola per la mano)
Lindoro. Servitevi come vi piace. Non mi usarete13 più lungamente simili soverchierie.
Roberto. Temerario! Andiamo. (tira a sè Zelinda)
Zelinda. Ah no, signore... (a forza per non andare)
Roberto. Andiamo, vi dico. (tirandola)
Lindoro. Andate, andate. Ci parleremo.
Zelinda. Un momento di tempo. (a don Roberto, tentando di liberarsi)
Roberto. No, non vi lascio in balia d’un furioso. Andiamo.
Zelinda. (Oh Dio! Vorrei ricuperare la lettera). Permettetemi. Sono con voi. (tenta di liberarsi)
Roberto. Eh non mi fate perdere la pazienza. (la tira con forza, e parte con Zelinda)
SCENA VII.
Lindoro solo.
Ecco qui, in questa casa non son padrone di comandare a mia moglie: a poco a poco ella mi perderà il rispetto e l’amore. Ma che dico io dell’amore? Questo me l’ha perduto del tutto. S’ella m’amasse, non trattarebbe14 meco così. Ha dei segreti con uno ch’è stato il mio più fiero nemico, con uno che doppiamente m’ha offeso, tentando di levarmela per farla sua, e secondando apparentemente l’inclinazione di don Flaminio! Ah sì, nessuno mi leverà dalla testa che don Flaminio non l’ami ancora, ch’egli non seguiti15 ad insidiarla come faceva, e che Fabrizio non sia il mezzano di questa tresca. Ed io resterò in questa casa a fronte di due nemici dell’onor mio? Soggetto ad un padrone che si burla di me, e mi vieta d’usare quell’autorità ch’ogni legge m’accorda? No assolutamente, non lo vuo’ più soffrire. Voglio sortire di16 questa casa, Zelinda è mia: mi dovrà seguitare. L’amo ancora questa perfida, questa ingrata, sì, l’amo ancora, e l’amo sempre a dispetto mio. Ma sia di me quel che piace al destino, voglio andarmene immediatamente. Son giovane, non manco d’abilità; mio padre non mi potrà negar gli alimenti. La provvidenza non manca a nessuno: nasca quel che sa nascere, si ha da partire. Unirò le mie poche robe17... Ha detto che queste camiscie sono mie, non le lascierò. (va mettendo la biancheria nella cesta) Con quant’amore mostrava ella di lavorare per me! quanta tenerezza pareva ch’ell’avesse per suo marito! Ecco cosa sono le donne! Sanno fingere a questo segno (levando l' ultima camiscia, trova la lettera) Che cos’è questa carta? Pare una lettera: ma non v’è soprascritta, e non ci vedo sottoscrizione. Vediamo. Non la capisco. Pare scritta in francese. Sfortunatamente per me, non capisco il francese. Ma chere a mie. (legge all’italiana) Non comprendo cosa voglia dire questo ma chere. Oh quanto pagherei di poter capire! Scommetto che in questa carta si contiene il segreto che le ha comunicato Fabrizio. Scommetto ch’è una lettera di don Flaminio. Zelinda intende il francese perfettamente, sa ch’io non l’intendo, e si fida di potermi meglio deludere ed ingannare, altrimenti non l’avrebbe lasciata qui. Ma non potrei io ingannarmi? Non potrebbe essere una carta semplice ed indifferente? Che mai vuol dire? Ma chere a mie? cercherò un dizionario. Verrò in chiaro della verità. Sono in sospetto, ho ragione di esserlo, e vo’ tentar di chiarirmi. (continua a mettere nella cesta, e si mette la lettera in saccoccia)
SCENA VIII.
Don Filiberto ed il suddetto.
Filiberto. Oh signor Lindoro, buon giorno a vossignoria.
Lindoro. La riverisco divotamente. (badandogli poco)
Filiberto. State ben di salute?
Lindoro. Per servirla. (come sopra)
Filiberto. Come sta la vostra sposa?
Lindoro. Per obbedirla. (come sopra)
Filiberto. (Ha qualche cosa per il capo). (da sè)
Lindoro. (Non posso più soffrire nessuno). (da sè)
Filiberto. Scusatemi. La signora donna Eleonora è in casa?
Lindoro. Non lo so, signore; so ch’ell’era sortita. Non so se sia ritornata. (come sopra)
Filiberto. Avrei bisogno di vederla. Se ci fosse qualcheduno che mi sapesse dire se c’è...
Lindoro. (Mi viene in mente una cosa. Se il signor Filiberto intendesse il francese, gli potrei far leggere questa carta... Ma se vi fossero cose che m’offendessero...) (da sè)
Filiberto. Ditemi almeno dove posso trovare un servitore, o una serva.
Lindoro. (Sia quello ch’esser si voglia, la mia curiosità supera ogni altro riguardo). (da sè)
Filiberto. (Ha più del villano che del galantuomo). (da sè, in atto di partire)
Lindoro. Signore.
Filiberto. Vedo che non mi badate.
Lindoro. Vi domando perdono. Scusate la mia distrazione. Ho qualche cosa che mi molesta.
Filiberto. Me ne sono avveduto. Vorrei solamente sapere se la signora donna Eleonora sia ritornata. Non vorrei andare inutilmente al suo appartamento.
Lindoro. Andrò io medesimo a vedere se c’è.
Filiberto. Vi sarò obbligato.
Lindoro. Ma vorrei supplicarvi d’una finezza.
Filiberto. Comandatemi. In quello ch’io posso, vi servirò.
Lindoro. Scusatemi. Sapete legger francese?
Filiberto. Sì certo. Un negoziante ha bisogno di conoscere questa lingua.
Lindoro. Mi fareste la grazia di leggermi una carta scritta in francese?
Filiberto. Volentieri.
Lindoro. Ma di leggerla in italiano?
Filiberto. Voi non lo capite il francese?
Lindoro. Non signore, non lo capisco.
Filiberto. Quest’è male, figliuolo mio. Un giovane come voi, ch’esercita l’impiego di segretario...
Lindoro. Signore, io non sono fatto per tale impiego: spero di liberarmi quanto prima.
Filiberto. Non importa. Sapete che in oggi la lingua francese è la lingua del mondo, la lingua delle grazie, delle bellezze. Imparatela, che vi farà onore, e ne sarete contento.
Lindoro. Sì signore, l’imparerò, ma intanto vi prego di leggermi questa carta. (gliela dà)
Filiberto. E’ una lettera?
Lindoro. Mi pare di sì.
Filiberto. Ma chere amie. (pronunzia il c e l’h alla francese)
Lindoro. Dice ma scere amie?
Filiberto. Ma chere amie. (come sopra)
Lindoro. Io leggeva diversamente.
Filiberto. Il ch in francese si pronuncia sce.
Lindoro. E in italiano vuol dire?
Filiberto. Mia cara amica.
Lindoro. Mia cara amica! (con maraviglia)
Filiberto. Sapete voi a chi è diretta la lettera?
Lindoro. (Mia cara amica!) (da sè)
Filiberto. (Scorre la lettera coll'occhio leggendo piano qualche parola.)
Lindoro. Se dice mia cara amica, sarà diretta a qualche donna.
Filiberto. Non v’è dubbio nessuno.
Lindoro. E... sarà probabilmente una donna quella che scrive.
Filiberto. Vi dirò; ho scorso coll’occhio per rilevare il contesto, e capisco che un uomo che scrive, e che la lettera è tenera ed amorosa.
Lindoro. È un uomo che scrive? E la lettera è tenera ed amorosa? Favorite di leggere, vi prego, ma di leggerla in italiano. (con ansietà)
Filiberto. Non vorrei che mi faceste fare mal’opera.
Lindoro. Signore, son galantuomo, e non son capace di compromettervi in cosa alcuna.
Filiberto. Io non so di che si tratti. Non so chi scrive, sono indifferente, e vi servirò. Non posso vivere da voi lontano... (legge)
Lindoro. È lontano chi scrive?
Filiberto. Così dice.
Lindoro. (Ecco il segreto). Leggete. (Ah è don Flaminio senz’altro).
Filiberto. Verrò domani segretamente per abbracciarvi...
Lindoro. Verrà domani? quando è datata la lettera?
Filiberto. Vediamo: il giorno 10 di questo mese.
Lindoro. (Oggi ne abbiamo 11; oggi è la giornata appuntata. Ecco il segreto, ecco l’infedeltà, ecco verificato il sospetto).
Filiberto. Volete altro?
Lindoro. C’è altro?
Filiberto. Ce n’è ancora.
Lindoro. Favorite di seguitare. (agitato)
Filiberto. Vi prego di concertare col portator di questa lettera il modo di trovarsi insieme in luogo sicuro per non dar sospetto...
Lindoro. (Ecco se il mio sospetto è ragionevole e giusto. Fabrizio è il portator della lettera, questo è il segreto, ne son sicuro. Povero me! L’onor mio, l’amor mio, la mia pace... tutto è finito, tutto è perduto). (da sè)
Filiberto. Amico, vedo che questa lettera v’inquieta infinitamente. Saprete chi la scrive, ed a chi è diretta.
Lindoro. Signore... Vi supplico di terminarla.
Filiberto. Ci siamo: finiamola. V’assicuro del costante amor mio...
Lindoro. Benissimo. (ironicamente)
Filiberto. Son pronto a darvene le prove le più convicenti...
Lindoro. A maraviglia.
Filiberto. Voi siete l’unica mia speranza, e da voi dipende la mia felicità, e la mia vita.
Lindoro. Ah perfidi, me la pagherete.
Filiberto. Ma questa lettera a chi è diretta?
Lindoro. A chi è diretta? Sì, lo dirò. Chi non ha cura dell’onor suo, non merita che si risparmi. Questa lettera è diretta a mia moglie, (con sdegno, e strappa di mano la lettera a don Filiberto)
Filiberto. A vostra moglie? (con maraviglia)
Lindoro. A mia moglie. (sospirando)
Filiberto. Ma ne siete sicuro?
Lindoro. Ah pur troppo, tutte le combinazioni, tutte le circostanze me ne assicurano.
Filiberto. Questa è una cosa che mi sorprende. E chi pensate voi che le scriva?
Lindoro. Non può essere che don Flaminio.
Filiberto. Oh, non posso crederlo.
Lindoro. Ed io lo credo, e ne sono quasi sicuro.
Filiberto. Don Flaminio è in contratto di sposare una vedova.
Lindoro. Che importa questo? Chi è capace di amare una femmina maritata...
Filiberto. Via, via, Lindoro, non parlate così, non pensate sì male, non vi lasciate trasportare dalla passione, dalla gelosia. Vostra moglie, per quello che dicono, è stata sempre una giovine saggia ed onesta. Don Flaminio è un uomo d’onore.
Lindoro. Tant’è, signore, penso così, ho fissato così, e senza una dimostrazione in contrario, senza una chiara e convincente prova che mi disinganni, non lascierò di credere che Zelinda m’inganna, che don Flaminio m’insulta, che Fabrizio n’è il mediatore, e ch’io sono il più infelice degli uomini18, il più tradito, il più offeso, il più disgraziato marito.
Filiberto. Non so che dire. Mi dispiace infinitamente di vedervi in tali inquietudini. Volete voi ch’io ne parli? Volete ch’io m’interessi per voi?
Lindoro. Quando volete graziarmi, di questo solo vi prego. Fatemi ottenere la mia licenza. Non voglio più restare in una casa, ove pericola l’onor mio.
Filiberto. Bene, parlerò, e ci rivedremo. Vorrei vedere donna Eleonora.
Lindoro. Scusatemi, signore, s’io non monto le scale; sono sì agitato, sì afflitto...
Filiberto. Restate, restate; se non troverò nessuno, salirò io. Povero giovane! vi compatisco. (Ecco quanto durano le gioie, e le consolazioni del matrimonio). (da sè, parte)
SCENA IX.
Lindoro solo.
Ah sì, merito bene d’essere compatito e compianto. Chi l’avrebbe mai detto? Una giovane ch’ho amato posso dir dall’infanzia. Obbligata dalle disgrazie della sua casa ad abbandonare la patria, la lascio io pure, e l’abbandono per lei. Costretta ella a servire, mi assoggetto io medesimo alla servitù. Sono per sua cagione villanamente scacciato, m’espongo a de’ nuovi insulti, soffro per lei l’indigenza, il rossore, i pericoli. Arrischio la vita, sono posto in prigione, tutto soffro pazientemente, e finalmente la sposo, e finalmente mi credo al colmo della contentezza, del piacere, della felicità. Misera condizion de’ mortali! Sparì la mia contentezza come il chiaro d’un lampo, perì il piacere come un fiore di primavera. La mia felicità non fu che un’ombra fugace, che un’illusione, un fantasma, un sogno. Zelinda infedele? Oh cielo, in qual’abisso di pene mi getta un’immagine sì dolorosa? Ecco, ecco le spine senza rose. Le rose sono sparite, e le spine mi trafiggono il core.
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Forma dialettale. Nelle edizioni posteriori si legge: grand’armadio.
- ↑ Nell’ed. Zatta è stampato: Ora siamo sposati. Correggiamo seguendo tutte le edd. posteriori.
- ↑ Ed. Zatta: timor.
- ↑ Nell’ed. Zatta c’è una semplice virgola.
- ↑ Avverto che nella ed. Zatta si stampa Don Roberto, più spesso D. Roberto, ma sempre donna Eleonora. Noi preferiamo stampare don e donna, come nelle commedie precedenti.
- ↑ Forma dialettale. Le edd. posteriori correggono: licenzierebbe.
- ↑ Altre edd.: la fa ecc.
- ↑ Ed. Zatta: qualc’uno.
- ↑ In qualche ed. posteriore si legge: gridi.
- ↑ Forma dialettale. Le edizioni posteriori correggono; sposerei.
- ↑ Le edizioni posteriori correggono: essere.
- ↑ Ed. Zatta: Egl’è.
- ↑ Forma dialettale. Le edizioni posteriori correggono: userete.
- ↑ Forma dialettale. Le edizioni posteriori correggono: tratterebbe.
- ↑ Ed. Zatta: seguita.
- ↑ Altre edizioni posteriori: da.
- ↑ Ed. Zatta: robbe.
- ↑ Ed. Zatta: degl’uomini.