La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo VI
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CAPITOLO VI
Sino al 21 ottobre 1856, la storica giornata in cui i ministri di Francia e d’Inghilterra, abbassati gli stemmi, lasciarono Napoli, il Regno stette in rapporti diplomatici con quasi tutti gli Stati d’Europa. A Vienna, a Parigi, a Pietroburgo, a Londra, a Berlino, a Madrid e a Roma c’erano inviati straordinarii e ministri plenipotenziarii; negli Stati minori, incaricati di affari, e così pure negli Stati Uniti e nel Brasile, sole potenze non europee nelle quali il Regno avesse rappresentanza diplomatica. Il ministro napolitano a Madrid era accreditato anche presso la Corte portoghese; e l’incaricato d’affari di Torino presso la repubblica Elvetioa. In Baviera fa istituita la legazione nel 1856, quando s’imbastiva il matrimonio fra il duca di Calabria e l’arciduchessa Maria Sofia: matrimonio la cui origine rimonta a quell’anno, e la cui iniziativa fu tutta della regina Maria Teresa. Decisa la cosa in massima, venne creata la legazione e affidata al conte Guglielmo Ludolf, che ebbe per aggiunto Emilio Cavacece, sostituito l’anno dopo da Domenico Bianchini. Il Ludolf è morto quasi novantenne in questo anno. Ministro plenipotenziario a Londra era il principe di Carini, succeduto al Castelcicala; il marchese Antonini era ministro a Parigi; e a Vienna, il principe di Petrulla, uno dei pochi patrizii siciliani che nel 1848 rimanesse devoto ai Borboni, onde venne dichiarato dal parlamento dell’Isola traditore della patria. Si chiamava Giovanni Gioeni Cavaniglia ed aveva anche il titolo di duca d’Angiò. Era piccolo e brutto, e sul suo conto si narravano storie losche, non ultima quella che Giacomo Tofano, fra lo stupore generale, raccontò alla Camera dei deputati nella seduta del 16 gennaio 1862: storia la quale venne alla luce per una querela che presentò contro di lui, per frode e falsità, donna Caterina dei Medici, figlia del principe d’Ottajano e moglie del marchese Cavalcante. Petrulla fu difeso da Roberto Savarese e da Giuseppe Pisanelli, e nella memoria defensionale stampata a Napoli nel 1839, sono narrati i particolari di quei fatti che procurarono all’imputato il carcere preventivo, dal quale uscì in libertà provvisoria, per deliberazione del 3 novembre 1835 della camera di Consiglio. Proseguiti gli atti istruttorii nel 1839, grazie al valore dei suoi avvocati, venne assolto; ma con stupore generale, dieci anni dopo, fu nominato inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Vienna! Uno dei capricci di Ferdinando II. Il Petrulla non aveva finito di pagare gli avvocati, e il Pisanelli, esule a Torino, dovè tribolare parecchio, per ottenere il resto del compenso.
Il Petrulla sostituiva alla scarsa cultura una dissimulazione perfetta. Parlava poco e si circondava di un’aria di mistero; benchè principe e ministro del Re di Napoli, non in tutt’i saloni di Vienna era ricevuto. Uno dei più eleganti e ricercati era quello della principessa di Schönborn, congiunta del defunto cardinal di Praga. I diplomatici facevano a gara per esservi ammessi, nè il penetrarvi era facile, perchè la principessa teneva a non ricevere persone di dubbia fama, e il Petrulla non vi ebbe mai invito. Egli viveva quasi appartato dalla vita sociale e si levava di buonissima ora, e poichè era un grande sportmann, faceva lunghe passeggiate a cavallo, o guidava al Prater il suo elegante stage-coach, al quale erano attaccati dodici superbi cavalli inglesi; dava frequenti pranzi, serviti secondo il costume inglese con profusione di vini eccellenti. Aveva la smania di mostrarsi inglese in tutto, dalle scuderie e dagli equipaggi ricchissimi, alle profumerie, che largamente adoperava, ai mobili e alle argenterie. Sposò una vedova principessa di Partanna, che aveva una figlia, la marchesa Sessa e un figlio, Salvatore Grifeo, il quale come incaricato d'affari succedette nel 1859 al conte Ludolf in Baviera. Ma la Petrulla non andò mai a Vienna.
Il Petrulla corrispondeva direttamente col Re in questo modo curioso: ai rapporti univa lettere riservate, imponendo al Carafa, col quale aveva vecchie ruggini, di consegnarle al sovrano. Così egli era sicuro che tutto il carteggio sarebbe caduto sotto gli occhi del re, il quale, pur non dandogli sempre retta, mostrava di aver fiducia in lui. Il Petrulla avrebbe voluta un'unione concludente fra il regno di Napoli, l'Austria la Russia, a garenzia del domani. Quasi tutti i lavori della legazione, anche i più intimi, erano da lui affidati a certo Visslonek, giornalista polacco d’incerta fama. Petrulla mutò varii aggiunti di legazione; ebbe, tra gli altri, Giorgio di Brocchetti, Ulisse di Barbolani e il duca di San Martino di Montalbo.
Giorgio di Brocchetti, fratello del comandante di marina, era uno dei più eleganti giovani diplomatici. Ballerino famoso e famoso direttore di cotillons, invano si riconoscerebbe oggi sotto l’umile veste di prete dell’Oratorio. Dopo il suo ritorno da Vienna, entrò a prestar servizio nel ministero degli affari esteri e vi stette fino al gennaio del 1859. Il primo febbraio di quell’anno, si fece frate, ed oggi onora, con la pietà e gli studii, l’ordine di San Filippo. Ricorda, non senza compiacenza, che in una delle brevi assenze del Petrulla da Vienna, egli, il Di Broochetti, annunziò pel primo al governo napoletano il fidanzamento dell’Imperatore d’Austria che aveva ventitre anni, con la sua cugina Elisabetta di Baviera che ne contava appena sedici, ed era di maravigliosa bellezza. Fu un matrimonio di passione. In una festa ad Ischl, l’Imperatore ballò con lei tutta la sera e le offrì dei fiori; e l'indomani la condusse innanzi al prete che ufficiava nella cappella della villa, e inginocchiatosi all'altare, disse: Mon père, voici ma fiancée, benissez nous.1 Pochi giorni dopo si fidanzarono ufficialmente. La bellissima creatura, che doveva poi essere tanto infelice, fu chiamata "la piccola rosa di Baviera„. Le nozze si celebrarono nell’aprile del 1854, ed ebbero una nota romantica che era cominciata nel parco di Possenhofen qualche mese prima, quando il giovane imperatore vi era andato per conoscere la principessa Sofia, sorella maggiore di Elisabetta, perchè doveva fidanzarsi a lei, che sposò poi il principe di Thurn et Tsxis, un omaccione ordinario, ma straricco. Sofia, non interessante come le sorelle, rivelò per alcuni anni la sua tristezza. Domenico Bianchini ricorda di averla veduta al matrimonio di Maria Sofia a Monnco, con grande aria malinconica, che tutti attribuivano al mancato matrimonio con l’imperatore.
Il Di Brocchetti non rivide più il Petrulla; anzi, incontratisi nel 1860 a Napoli, per le scale del ministero degli esteri, essendo il Di Brocchetti già divenuto prete dell’Oratorio, non si salutarono neppure. Il Petrulla, benchè vecchio, era impetuoso, superbo, odiatore del mondo e avido di danaro, ma non privo di una certa acutezza diplomatica. Se le lettere scritte da Vienna a Paolo Versace nel 1856 e pubblicate da Giuseppe Carignani, nella vita del Versace, furono scritte da lui, come tutto lascia supporre, il Petrulla non s’ingannava nel falso indirizzo della politica del re di Napoli, e non a torto ne prevedeva i tristi effetti. Restò ministro di Napoli a Vienna anche dopo il 1860, come restò il San Martino a Madrid. È noto che l’Austria e la Spagna non riconobbero il Regno d’Italia che dopo la guerra del 1866. Francesco II, non più re, non poteva corrispondere alcun assegno a questi suoi ministri, e il duca di San Martino, generoso e leale uomo, vi si rassegnò; non così il Petrulla il quale, dovendo inviare a Francesco II alcune migliaia di fiorini, che l’Imperatore e gli arciduchi mandavano al detronizzato sovrano, ne ritenne quelle che credeva essere sue competenze, e la minor parte della somma inviò a Roma. Il Re ne fu così offeso, che immediatamente gli ordinò di dare la consegna della legazione al regio incaricato di affari a Dresda, Ernesto Merolla, che la resse sino all’arrivo del nuovo ministro, Antonio Winspeare. Il Petrulla si ritirò più tardi a Trieste, lasciando erede della sua cospicua sostanza il principe Vincenzo Pignatelli Denti, suo parente per parte di madre. E il Pignatelli, sia detto a sua lode, sentì il dovere di restituire a Francesco II la somma indebitamente ritenuta.
Il Capece Galeota, dei duchi della Regina, era ministro a Pietroburgo; il conte Luigi Grifeo, a Berlino; il principe di Carini a Londra, il marchese Riario Sforza a Madrid, e il conte Giuseppe Ludolf, a Roma. Segretario di legazione a Londra era Raffaele Ulisse, che pochi oggi ricordano con questo nome, ma molti rammentano col nome di Ulisse di Barbolani, anzi, con quello più recente, di Barbolani di Cesapiana: da Londra il Barbolani fu destinato al Brasile, dove si trovava nel 1860. Tornò in Italia e fu per poco tempo al ministero degli esteri; poi, andato in America col grado di ministro, vi stette sino al 1867, e fu poi segretario generale del Menabrea, ministro al Giappone e in Baviera, e infine con mal garbo venne messo in riposo dal Crispi. Morì a Colle di Macine sua patria, il 13 ottobre 1900, neppur senatore, anzi indegnamente obliato dal governo. Tra i principali incaricati di affari, ricordo Guglielmo Ludolf a Monaco di Baviera; l’aquilano Canofari, a Torino; Augusto Milano, dei duchi di Santo Paolo, a Firenze, e Giacomo de Martino, destinato a Roma da Rio Janeiro, dove non era mai andato. Tranne quest’ultimo, che molta parte ebbe nel 1860 e anche dopo, tutti gli altri copre un malinconico oblio. Il principe di Carini, Antonio La Grua e il conte Luigi Grifeo erano siciliani come Petrulla; e il Capece Galeota aveva sposata nel 1856 la bellissima vedova del principe Pignatelli Cerchiara, la quale assai brillò, per lo spirito e il talento, alla Corte di Pietroburgo ed era figliuola di Emilio Capomazza. A Roma fungeva da incaricato d’affari il marchese di Sangiuliano, da non oonfondere coi Sangiuliano di Sicilia, perchè nasceva Severino Longo. Faceva le veci del conte Ludolf, che seguitò ad avere il titolo di ministro. Il Sangiuliano era segretario di legazione; e quando la moglie nell’ottobre del 1855, trovandosi a Napoli, chiese al re la promozione del marito a incaricato d’affari effettivo e l’ottenne, giunse da Roma la notizia per telegrafo che il Sangiuliano vi sta morto di colera. A lui successe il De Martino, che vi restò sino quando fu nominato ministro degli esteri nel ministero costituzionale di Francesco II. Giacomo de Martino, che i suoi amici chiamavano Giacometto, aveva fin d’allora fama di scaltro e d’irrequieto, e il re non aveva molta simpatia per lui, benchè gli avesse reso buoni servizii nella quistione degli zolfi. Il De Martino era allora nella carriera consolare.
Il principe di Carini dipingeva discretamente, ma non godeva alcun credito come diplomatico; scriveva dei rapporti in un linguaggio da caffè, come si vedrà più innanzi, ed aveva in moglie una figlia del generale Kellermann, signora di molto garbo. I diplomatici napoletani, privi di autorità e di ogni iniziativa, si sfogavano in lettere intime con persone di fiducia, o quando andavano in permesso a Napoli. "Sono anni che prego, che insisto, che prevedo, che guardo attentamente l’avvenire, scriveva il Petrulla al Versaoe, ma non si è creduto darmi ascolto; speriamo che mi sono ingannato e che m’inganno ancora adesso„. Paolo Versace, uffiziale di ripartimento al ministero degli esteri, e più volte adoperato in missioni diplomatiche, aveva fama di negoziatore avveduto, ma i malevoli, facendo dello spirito, lo chiamavano versatile. A lui scriveva pare il Petrulla, nell’ottobre del 1856: “ricordiamoci che noi siamo soli, e che nessuno ci aiuterà„, mentre il Milano, noto per la sua inettitudine, aveva per intercalare: Sono occupatissimo e non posso dir nulla; così come un altro suo collega, assumendo un’aria comica di mistero, diceva: io taccio na cosa, ma no a posso dì:2 un misto di drammatico e di faceto. A Ferdinando II bastava che i suoi diplomatici eseguissero senza discutere i suoi ordini. E poi aveva degli apriorismi curiosi. Era persuaso che, nonostante la rottura dei rapporti con la Francia e l’Inghilterra, non potesse mancargli l’appoggio della prima, per paralizzare le influenze inglesi nel Regno, e lo fece dire a Napoleone dai due delegati che mandò a Parigi, dopo l’attentato di Orsini, e che furono il principe di Ottajano e il Versace stesso, che condussero come segretario Eugenio Bonquai, già ufficiale di cavalleria, e ufficiale nel ministero degli esteri, ritenuto il più capace fra i segretarii di quel ministero. Ad essi il re diè istruzioni categoriche in questo senso, anzi le dettò egli al Versace, in Gaeta, la sera del 23 gennaio 1858. Infatuato della sua potenza, che non temeva pericoli. Fu in quell’occasione che mise fuori il suo motto: "essere il Regno protetto, per tre quarti, dall’acqua salata, e per un quarto dalla scomunica„. Era poi convinto di dover vivere eternamente, e questa convinzione contribuiva a non dargli nessuna coscienza o visione dei pericoli. In sostanza, il suo governo, sordo ad ogni voce amica, aveva perduta ogni simpatia, nel mondo civile.
Questi diplomatici provenivano da famiglie nobili e borghesi, nelle quali le tradizioni degl’impieghi politici e consolari erano piuttosto antiche, e che il re concedeva per benevolenza o di capriccio. Il ministero degli affari esteri non ebbe alcun organico fino al 1848, onde vi si entrava, vi si rimaneva, o se n’era mandati vie per volontà del sovrano. Più tardi il ministro Fortunato lo pareggiò agli altri ministeri, nel senso che furono banditi i primi concorsi e fissate alcune norme di carriera; ma nessuno dei giovani riusciti nei primi concorsi pervenne al grado di ministro, durante il regno dei Borboni; lo furono, nel regno d’Italia, Fava, Barbolani, Martuscelli, Bianchini, Curtopassi, Anfore di Licignano, De Luca, primo ministro d’Italia a Pechino, e Renato de Martino, figlio di Giacomo. Il Fava, l’Anfora e il de Luca provenivano dalla carriera consolare. Dei ministri plenipotenziari degli ultimi anni, quasi tutti vecchi, nessuno fu mutato sino al 1860. E v’ha di più: il ministero degli esteri seguitò a rimanere alla immediazione del re, nella oui segreteria particolare prestavano servizio due ufficiali di quel ministero, uno dei quali, adoperato qualche volta come corriere di gabinetto, era Gioacchino Falcon. Per effetto del nuovo ordinamento, il Versace divenne capo del ripartimento politico, ma sempre per eseguire quanto veniva ordinato dal re, o direttamente con le sue decretazioni concise e spesso capziose, o per mezzo del Carafa, per il quale i1 Versace non moriva di tenerezza. Se per Ferdinando II la diplomazia era l’arte d’ingannare la gente, quando la indipendenza dal suo regno era in giuooo, o egli credesse minacciata o insidiata 1 autorità sua, la voce di questa diplomazia diveniva grossa e imprudente, come si rivelò in occasione del Congresso di Parigi.
Il ministro degli esteri nel regno delle Due Sicilie era dunque il re. Le istruzioni ai suoi agenti le dava lui, in quegli ampii fogli dagli orli dorati: e in cima ai fogli, seguendosi il costume spagnolo, si leggeva: Il Re, a grosse lettere; e alla fine, la firma autografa in chiara calligrafia: Ferdinando. Sono in mio potere le istruzioni originati mandate al ministro Antonini, quando l’accreditò nel 1834 a Berlino, e nel gennaio del 1849 a Parigi. Non si leggono senza una certa ammirazione. Dalle prime si rivela che Ferdinando II aveva l’intuito che il regno di Luigi Filippo non sarebbe di lunga durata; e che, nato dalla rivolurione, capitanata da borghesi dottrinarii e turbolenti, sarebbe stato travolto da una rivoluzione più radicale. Egli giudica quel governo dal suo punto di vista di re di diritto divino, che non riconosce alcuna dottrina che lo limiti; e quella nota sottoscritta da un principe di ventiquattro anni, imbevuto di principii così rigorosamente legittimisti, è in sostanza un trattato di governo assoluto. La stessa logica per la Spagna, dove il ramo legittimo dei Borboni, dopo la morte di Ferdinando VII, era per lui quello di don Carlos. E quando si pensi che Luigi Filippo era suo stretto congiunto, e la regina Cristina di Spagna sua sorella, e la minorenne Isabella, sostenuta dai liberali, sua nipote, si deve riconoscere che in Ferdinando II gli stessi vincoli di sangue erano men forti dei doveri a lui imposti dalla regalità di diritto divino. Il suo ministro degli affari esteri, il principe di Cassero, Antonio Statella, era assolutista rigido, il quale scriveva in una asmatica forma di purista, e con una punteggiatura stravagante; ma dall’insieme di quelle istruzioni traspare la mente del re, con quella fatale coerenza che l’accompagnò sino alla morte.
Non meno importanti sono le istruzioni inviate allo stesso Antonini nel gennaio del 1849. Lo accreditò ministro presso la repubblica francese, dopo l’elezione a presidente del principe Luigi Napoleone Bonaparte, nel quale se non vedeva in quei giorni il faturo imperatore, riconosceva un’efficace garanzia di ordine politico e sociale; e perciò nutriva fiducia, che il governo francese avrebbe cooperato potentemente a ristabilire l’autorità del re di Napoli in Sicilia. E alla fine delle istruzioni incarica l’Antonini di far valere i diritti legittimi della Corona di Napoli sul Ducato di Parma e di Piacenza, se mai nel congresso di Bruxelles, del quale allora si parlava, si fosse proposto di concedere quel Duoato al Piemonte “in oompenso delie spese della guerra sinora sostenuta„. Ma quando, tre anni dopo, si trattò di riconoscere Luigi Napoleone imperatore, Ferdinando non inviò istruzioni, ma chiamò l’Antonini a Napoli, ed ebbe con lui i colloqui caratteristici, che l’Antonini registrò nel suo diario inedito, il quale insieme alle su riferite istruzioni, è da me per la prima volta pubblicato.3
Con un re, come Ferdinando II, la sua diplomazia non poteva vere alcuna iniziativa, ma solo limitarsi ad osservare, a riferire; ma, occorrendo, a prevenire. Si sapeva che nel 1851 il re non volle accettare una proposta di confederazione a comune difesa, fattagli dalla Toscana, dal Papa, da Parma e da Modena, e neppure un’alleanza con l’Austria propostagli nei primi giorni del 1859, quando la burrasca si veniva addensando. Non riteneva utile alcuna alleanza, reputandola come una limitazione di quella indipendenza, della quale si dimostrava superlativamente geloso. Diffidava per motivi diversi della Francia e dell’Inghilterra, tentando di giuocar d’abilità fra loro due, benchè fosse stato il primo a riconoscere Napoleone III imperatore, ma dopo il Congresso di Parigi ne diffidò sempre, perdendo ogni visione della politica e degli interessi veri del Regno. Nella guerra di Crimea non aveva celate le sue simpatie per la Russia, accresciute dal fatto di vedere il Piemonte alleato delle potenze occidentali; e più vivaci simpatie nutriva per la Prussia. Erano in sostanza simpatie platoniche, o meglio di tendenze, perchè nulla poteva sperare da quegli Stati, e nulla poteva fare per essi. Limitandoli ad essere un principe essenzialmente municipale, credeva potersi sottrarre ad ogni dovere di comunanza civile, e quindi ad ogni responsabilità circa i suoi metodi di governo innanzi al mondo. Pur mostrando tanta amicizia alla Russia, non volle consentire che questa nel 1857 stabilisse una stazione di carboni a Brindisi.
L’Antonini era di nobile famiglia originaria di Penne; il re gli aveva dato il titolo di barone di Torano e poi quello di marchese; ara scapolo e sordo. Vantava una lunga carriera diplomatioa, passata tra il Brasile, la Spagna, la Prussia e la Sardegna. Piccolo di statura ed assai accurato nelle forme, somigliava a Thiers. Il suo cornetto acustico diveniva all’occorrenza una risorsa diplomatica: aveva spirito ed alcuni suoi motti gli sopravvivono. Alla vigilia della rottura delle relazioni fra Napoli e l’impero francese, prevedendo, in una pubblica cerimonia, qualche sfogo vivace da parte dell’Imperatore, pose il cornetto in saccoccia. Lo sfogo ci fu, anzi credo che Napoleone III parlasse un po’ forte; ma quando finì di parlare, Antonini, senza scomporsi, rispose: “ Sire, je vous demande pardon; je n’ai pas entendu un seul mot de ce que Votre Majesté m’a dit; j’ ai oublié mon cornet acustique„. Rise l’Imperatore e parve rabbonito. Egli aveva simpatia personale per il ministro di Napoli, nè mai dimenticò che il primo diplomatico straniero, che lo riconobbe imperatore a nome del suo sovrano, fu l’Antonini, al quale in tutta confidenza, tirandolo nel vano di una finestra, dopo averlo incaricato di ringraziare il re, Napoleone III disse: “Votre roi et moi avons seuls le droit de mitrailler le peuple: lui comme principe du droit divin; moi du vote populaire.... Et savez-vous pourquoi Louis-Philipps est tombé comme un cochon? — Parce qu’il ne représentait ni l’un, ni l’autre de ces deux principes„. Antonini riferì questo incidente il giorno stesso a Domenico Bianchini, che trova vasi a Parigi. Da principio furono piuttosto vive le simpatie fra l’imperatore Napoleone e Ferdinando II, e il diario dell’Antonini rivela la premura del re di riconoscere il principe Luigi Napoleone a imperatore, dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851: eventualità desiderata ed affrettata veramente da quasi tutta l’Europa monarchica e conservatrice. Nè lo preoccupava il timore di velleità murattiste, che non credeva cosa seria. Per riconoscere l’Impero appena proclamato, egli dava perfino all’Antonini una nota con la data in bianco, da riempirsi da lui, tenendo conto del tempo necessario per l’invio di una lettera da Napoli a Parigi. Si leggono con grandissimo interesse i ricordi dell’Antonini circa il suo soggiorno a Napoli nel settembre del 1852, le udienze avute dal re a Caserta e a Napoli, e i colloqui intimi, nei quali Ferdinando II rivela tutto il suo animo, e rivela altresì la piena fiducia che riponeva nel suo ministro, il quale, alla sua volta, penetrando il pensiero del sovrano, confessa nel suo diario di aver aiutato, per quanto aveva potuto, l’avvento dell’Impero.4
Antonini apparteneva alla vecchia scuola diplomatica, ne possedeva le malizie e anche le risorse. Parlava poco, ma sempre a voce alta come i sordi. Avendo poca cultura moderna, si faceva delle illusioni circa le cose d’Italia. Nei primi giorni del 1859, stando a Bruxelles e passeggiando nel Parc Royai con l’aggiunto Ernesto Martuscelli, incontrò il duca di Brabante, allora principe ereditario, oggi re del Belgio. Il duoa lo fermò e salutò con molta deferenza, e caduto il discorso sulle cose d’Italia e sulla guerra che si credeva inevitabile, dopo le parole di Napoleone all’ambasciatore d’Austria, Antonini disse e vooe alta: “Elles sont dee utopies de Balbo et de Cavour„. E il duoa dì Brabante, a voce bassa, rivolgendosi al Martuscelli esclamò: “C’est drôle! il appelle ça des utopies„! Quando, morto Ferdinando II, Antonini tornò a Parigi, preferiva a tutt’i divertimenti il giuooo del whist in sua casa, rue d’Angouleme, Saint Honorè, col nunzio pontificio monsignor Sacconi, suo intimo, il quale andava in furore quando perdeva poche lire, estendo avaro e rozzo. Nel luglio di quello stesso anno 1859, Antonini aveva invitato a pranzo tre ufficiali superiori dell’esercito napoletano reduci da Liège, dove erano andati per acquisto di anni. Questi uffiziali giunsero con un’ora di ritardo, perchè sbagliarono l’indirizzo. Stanco di attendere, il vecchio diplomatico brontolava con qualche vivacità e arguzia: “Voilà ces militaires, ne sont pas civiles!„. La sua sordità era spesso cagione di equivoci umoristici. Tornando una volta da Napoli, Napoleone gli chiese come stesse il re; e lui, credendo che gli chiedesse come era stato il mare dorante il viaggio, rispose: affreux, e l’imperatore non si potè tenere dal ridere. Mori a settantacinque anni a Parigi, il 10 settembre 1862 ed è sepolto a Roma.5
Dall’ottobre del 1856 al giugno del 1859, a Parigi stette un agente officioso, che fu il barone Zezza, cara persona a quanti lo conobbero. La legazione uffioiale, che era a Bruxelles, come ho detto, aveva per segretario il conte Cito di Torrecuso e per aggiunto, Ernesto Martusoelli, che divenne poi ministro plenipotenziario e fu, ancora valido, messo in riposo, come il Barbolani, dallo stesso Crispi. Col Bianchini e col Fava egli è il superstite di quella diplomazia. Vi era impiegato un certo Navarro, fratello del famoso magistrato: vecchio piacevole ed erudito che, in gioventù, era stato filippino e poi bibliotecario della regina Amelia di Francia. Aveva un meschino assegno e viveva perciò con curiosa parsimonia.
Un altro diplomatico, nel quale Ferdinando II mostrava di avere fiducia, era Giuseppe Canofari, che nel 1853 mandò incaricato d’affari a Torino. Era angoloso, sprezzante, di discreta penetrazione, e di molta prosunzione. Spendeva molto, ed entrò nell’alta società torinese, organizzando conviti e feste, e dandosi bel tempo. Non capì nulla di quanto si maturava, nè assai meno penetrò il pensiero di Cavour. Egli si limitava a fare un lavoro di spionaggio, spesso vendendo fumo, e basterebbe a provarlo il doloroso incidente di Giacomo Tofano. I suoi rapporti più che politici erano polizieschi, e ne mandava in gran copie ad ogni arrivo di vapore; e, dopo letti, erano trasmessi dal ministero degli esteri all’archivio di polizia. Accadeva altrettanto per i rapporti non meno copiosi, che mandava da Genova il console Ippolito Garrou, già console generale in Algeria, dove tornò dopo il 1860, e dove morì. A Torino e a Genova dimoravano numerosi esali napoletani e siciliani; e tranne pochi, ricchi o agiati o che esercitavano professione, la povertà era patrimonio comune onde non era difficile rinvenire, nei bassi strati di quell’emigrazione, gente che si prestava a ogni officio, anche abietto. Emigrati, che contavano fra i maggiori, avevano fatto pratiche per tornare, vinti dalla nostalgia o da necessità di famiglia; e se alcuni tornarono, come Camillo Caracciolo e Francesco Proto fra i napoletani, e il duca di Serradifaloo, già presidente della Camera dei Pari in Sicilia ed uno dei quarantatre esclusi dall’amnistia, per altri il re oppose un divieto assolato, come per Imbriani e Tofano, e si disse anche per Crispi. Il Canofari era inviso a tutta l’emigrazione per i suoi modi burbanzosi, e più volte venne fatto segno di oltraggi da parte di qualcuno, che poi ne menò vanto sguaiatamente; ma a misura che i tempi maturavano, la sua posizione si rendeva più difficile e anche pericolosa. Non era uomo da aver paura; ma dopo la guerra del 1859 e fino al luglio del 1860, quando lasciò Torino, egli non dormì sonni molto tranquilli. Anche il Garrou fu trasferito a Trieste.
Nell’interessantissimo diario della baronessa Olimpia Savio, ancora inedito, e che riordina con grande cura e pari intelligenza il mio valoroso amico Raffaello Ricci, si legge:
2 novembre 1869.
Un’ultima considerazione sulla diplomazia napoletana, quale appare dai documenti che si conoscono, nonchè dai ricordi dei superstiti. Appare dunque, e con bastevole evidenza, ch’essa mirava a nascondere il sentimento della propria impotenza, dibattendosi fra uno scetticismo convenzionale, ed una certa aria fra la spavalderia e la petulanza, che faceva più male che bene. Tutto lo studio suo era di penetrare l’animo del re, e andare ai suoi versi, meno per evitargli fastidii, quanto per non incorrere nelle disgrazie di lui, che sapeva impulsivo e collerico, e che non si lasciava fermare da alcun riguardo di passato o di carriera. Quei diplomatici attenuavano le difficoltà o le giudicavano con inverosimile leggerezza, adoperando un linguaggio convenzionale, che si scorge nei loro dispacci. Sapevano Ferdinando II ossessionato da una idea fissa: le insidie del Piemonte; e perciò essi non trascuravano alcuna occasione od avvenimento anche minimo, che potesse riguardare il Piemonte, per gettar luce sinistra sopra la sua politica, screditandola e facendola segno di ogni volgare sospetto.
Dal carteggio del marchese Antonini ancora inedito, ed esistente nel grande archivio di stato di Napoli, si rileva come te una lettera del 24 novembre 1866 quel diplomatico scriveva: “i signori del seguito del Re di Sardegna non nascondono il disappunto trovato pel freddo ricevimento avuto in Parigi„; e poi: “il governo francese, che non vuole dare ombra all’Austria, nè si cura che l’Inghilterra crei nel Piemonte uno stato a lei ligio nella penisola Italiana, non ha fatto al re Vittorio Emanuele l’accoglienza politica, che pretendevano gli utopisti che volevano fare l’influenza savoiarda sovrana di tutta Italia„. Ciò allo scopo di distruggere l’effetto di un telegramma dell’agenzia Havas, che si era affrettato a decantare quelle accoglienze, prima ancora che il re Vittorio Emanuele arrivasse a Parigi. E in altro rapporto del giugno 1856: “il Piemonte si mostra molto malcontento dell’attitudine della Francia e dei consigli di moderazione, che fa dare a Torino. E in una lettera nel marzo del 1857 da Bruxelles faceva cenno del memorandum di Cavour, che qualificava il rivoluzionario ministro piemontese; e nel luglio dello stesso anno accennava agli avvenimenti demagogici del Piemonte. E infine, in una nota del novembre del 1858: “l’Inghilterra per procurare di conciliare la Francia con l’Austria, ha domandato in Parigi che l’Imperatore, anche con un semplice articolo del "Monitore„ smentisce i progetti, che gli si attribuiscono di cambiare lo stato politico riconosciuto dai trattati in Italia, e smentire le intenzioni di appoggiare le intraprese del Piemonte„. E nel dicembre dello stesso anno: "si parla di voci in una prossima lotta del Piemonte sostenuto dalla Francia„. Pochi giorni dopo, in seguito alle parole rivolte da Napoleone III all’ambasciatore austriaco, le voci di guerra prendevano consistenza, e quattro mesi dopo scoppiavano le ostilità. E sembra perciò inverosimile, come l’Antonini, che era fra i più solleciti nell’informare il suo governo di ogni piccola cosa, che concernesse anche lontanamente il Piemonte, mostrasse d’ignorare quanto era avvenuto nella storica seduta degli otto aprile del Congresso di Parigi. Appena nove giorni dopo, secondo risalta dai documenti pubblicati da Nicomede Bianchi, egli ne avrebbe informato il suo governo. Nè risulta punto che egli avesse avnto alcun sentore delle inquietudini e dei maneggi di Cavour, fin troppo palesi, secondo mi diceva Costantino Nigra, e diretti a far entrare nel Congresso quella che allora dicevasi "quistione
nota 6 italiana„. Non prima del 17 aprile, secondo il Bianchi, l’Antonini avrebbe scritto il primo rapporto, dal quale si rileva, come egli non avesse avuto neppure un lontano sospetto dell’azione del primo plenipotenziario di Sardegna con Clarendon, con Walewski e con Napoleone III, vecchio ribelle del 1831, non amico dei Borboni, alleato del re di Sardegna in Crimea, e che aveva rivolta a Cavour, in occasione del viaggio di Vittorio Emanuele a Parigi, la famosa domanda: “Que peut on faire pour l’Italie?„ — E quando l’Antonini andò a lamentarsi con Walewski, che ai plenipotenziari sardi fosse stato permesso di aggredire aspramente il governo di Napoli, senza che vi fosse presente un suo plenipotenziario e soggiunse: “la cosa è tanto più deplorabile, in quanto che la fonte vera dell’agitazione rivoluzionaria, onde l’Italia è di nuovo tormentata, è la politica del Piemonte„, Walewski gli rispose: badate, marchese, che non è stato Cavour; non vi posso dire di più, perchè tutti i plenipotenziari si sono impegnati a serbare il silenzio intorno alle cose dette. Ma il vostro governo ha una via aperta per trarsi d’impaccio; si ponga subito di accordo con noi tulle riforme che vuole adottare.
L’Antonini, quel ch’è peggio, non sarebbe stato nemmeno esattamente informato di come andarono le cose. Certo in quel rapporto mostra di ignorare che contro la politica di Ferdinando II avevano parlato violentemente Clarendon, vivacemente Walewski, e moderatamente Cavour, al quale, più che le cose di Napoli, importava richiamare l’attenzione del Congresso sul prolungamento dell’occupazione austriaca in tanta parte d’Italia, e la prevalenza della sua politica in quasi tutta la Penisola, tutte cose che istituivano per la Sardegna un vero pericolo. Se queste parole di Cavour provocarono le proteste dei diplomatici austriaci e prussiani, gli attacchi contro il governo di Napoli non trovarono una sola parola di difesa da parte di quei diplomatici, e neppure dei russi, Più tardi si seppe come per Napoli il Congresso era venuto ad una conclusione meno anodina, non avendo quasi tutti i plenipotenziari contesté l’efficacité qu’auraient des mesures de clémence prises d’une manière opportune par les gouvernements de le Péninsule italienne, et surtout par celui des Deux Sieiles, secondo si legge nel protocollo. Misure di clemenza volevano dire amnistie e riforme, e queste Ferdinando non voleva e assai meno voleva che gli fossero imposte dai subdoli intrighi del Piemonte, com’era sua convinzione.
Quegli attacchi gli giunsero inaspettati come le famose lettere di Gladstone; e se non avesse riposta una grande fiducia nell’Antonini, questi avrebbe avuto lo stesso trattamento del Castelcicala e del Fortunato, non potendosi concepire tanta negligenza da parte sua. Cercò di rifarsi quando andò a riferire il Walewski le risposte imprudenti e inconsiderate di Ferdinando II, aggiungendovi che “il re di Napoli aveva la coscienza di governare i suoi popoli conforme ai dettami della giustizia e del dovere; che nè gli assalti sfrenati della stampa quotidiana, nè lo dichiarazioni del Congresso lo indurrebbero a far mutazione di governo, disposto com’era a sopportare con rassegnazione qualunque abuso di forza, amichi scendere a patti con la rivoluzione„. Le risposte dei re furono comunicate inoltre e con poca ponderazione a tutte le legazioni napoletane, con l’incarico di rendere palesi gli intendimenti rivoluzionari di Cavour, perchè tutto si attribuiva a lui! Ferdinando non distinse, e nella furia delle sue ire non ebbe altro scopo che far intendere come, anzichè riconoscere il diritto delle potenze di cacciare il naso nelle cose del suo Regno; e piuttosto che unirsi al Piemonte, del cui doppio giuoco credeva di possedere quotidiane ed evidentissime prove, egli preferiva portar le cose agli estremi. Nè si afflisse quando i ministri di Francia e di Inghilterra lasciarono Napoli, festeggiati dai liberali. A quei ministri, per mezzo del Carata, Ferdinando II aveva tenuto lo stesso linguaggio, come si rileva da un interessante articolo di Loreto Pasqualucci, che trasse le informazioni dalla corrispondenza diplomatica del governo inglese con quello di Napoli, dal 19 maggio al 16 novembre 1866.7
Il linguaggio del re doveva montare le teste dei suoi agenti più zelanti, onde il Carini, in data 13 maggio di quell’anno, sempre riferentesi al Congresso di Parigi, scriveva queste testuali parole: “non scuserò Walewski, ma è il men cattivo della canaglia innumerevole e imprudente (sic) che compone la corte e il governo dell’imperatore, dalla cui cupa mente solo dipende la politica e ogni dettaglio della Francia„. E in un altro balordo e quasi inverosimile dispaccio del 31: “Mi sono trovato a corte. Lord Palmerston mi domandò: e «come sta Poerio?» «Meglio di voi e di me, risposi, perchè sta sotto un bel cielo e può vivere senza pensieri». «E il suo compagno di catene è sempre un galantuomo! soggiunse egli ed io replicai: «non credo ne abbia alcuno collegato, ma se mai, certamente non sarebbe men pertinace e men vendicativo di quell’antico rivoluzionario». — Palmerston — Badate, questo affare non è uno scherzo, ma un affar serio e grave, di cui il vostro governo conoscerà fra breve l’importanza. — Carini — Ma lo scherzo l’avete cominciato voi, ed io l’ho seguito: voi ben sapete che mi piacciono gli scherzi senza temere le serie e più gravi conversazioni. Cosi opero che, senza andare a sturbare a Napoli il mio Governo, potete averle in Londra a vostro piacere, e ad ogni vostro comando sempre per me gratissimo„.
Con questo linguaggio garbato ed energico (!) sto dissipando le mitissime dicerie fatte sul mio ritorno. Il mio linguaggio si limita a far intendere che nè il mio Governo nè io sappiamo capire perchè il magistrato europeo è occupato delle nostre faccende, e si è dato la pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi, senza bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell’ottima salute nostra. (!) È poi strano il pensiero di volere scrivere ad uno per uno tutti i capitoli di medicina, che si supponessero opportuni per perfezionare il regno dolio Due Sicilie, la Santa Sede e quegli altri Stati, i quali, secondo le opinioni della canaglia (!), non vanno bene e fanno onta alla civilizzazione. Queste or facete or più gravi risposte mi hanno sortito a schermirmi tutta la serata di ieri, nella grande unione del concerto della Regina. Nello stesso modo conto condurmi quest’oggi da lord Clarendon nel solito pranzo ufficiale, per celebrare la nascita di quest’augusta sovrana„
Più tardi l’Antonini scriveva al Carata che “nel Belgio e nella Francia era universale l’ammirazione per l’eroica resistenza del re, e che negli ultimi giorni in cui era rimasto a Parigi aveva provato un vero trionfo per le ricevute attestazioni di simpatia da tutti i ceti„. E Canofari da Torino: “La nobile figura del nostro augusto padrone diviene maestosa e imponente al di sopra di quelle di tutti i monarchi suoi contemporanei„. E Carini: “tempo verrà in cui l’imperatore Napoleone ringrazierà il re di Napoli d’acere salvata l’indipendenza del monarcato„.
Questi poveri cortigiani cooperavano, forse inconsapevolmente, a determinare la resistenza folle del sovrano, che portò alla rottura dei rapporti diplomatioi, seminando i germi di quelle avversioni, che non furono più dileguate da parte delle potenze occidentali; che dette buon giuoco a Cavour e al Piemonte; che pose tutto il partito liberale di Europa contro i Borboni di Napoli; che ridestò le speranze liberali nel Regno, ed ebbe infine un effetto tragico nell’attentato di Agesilao Milano, avvenuto quarantasette giorni dopo la partenza da Napoli dei ministri di Francia e d’Inghilterra!
Così dai documenti pubblicati dal Bianchi appare la diplomazia napoletana in occasione del Congresso di Parigi, che segnò il principio della catastrofe finale. Ma quei documenti son tutti? È lecito dubitarne. Nicomede Bianchi, preside del liceo del Carmine di Torino, nell’autunno del 1861 ebbe dal barone Ricasoli una calda commendatizia per il generale Cialdini, luogotenente a Napoli, con l’incarico di recarsi colà, per ricavare, secondo egli confessa, “da quegli archivii diplomatici le notizie e i documenti meglio atti a ringagliardire il buon diritto d’Italia ed a meglio perdere (sic) nella reputazione dell’Europa diplomatica la scacciata dinastia borbonica„. Vi andò, è chiarissimo, con partito preso. I documenti pubblicati nel settimo volume della sua storia sono perciò quelli che più gli convenivano, e forse per questo alcuni si leggono integralmente, altri mozzati o riassunti. Ma pur non elevando dubbii sull’autenticità loro, nulla esclude che non ve ne siano altri, i quali attenuino l’impressione penosa che si prova, leggendo quei documenti, che cioè la diplomazia napoletana sia stata così balorda. Il Bianchi non solo scriveva la storia con partito preso, ma portava via i documenti da consultare, molti dei quali furono rinvenuti dopo la sua morte; e nominato direttore dell’archivio di Stato di Torino nel 1870, vi fece d’ogni erba fascio, a giudizio di ohi lo conobbe.8 Io ricordo che Costantino Nigra, col quale ebbi occasione di parlare più volte dei numerosi lavori del Bianchi, non ne aveva un gran concetto, anzi... Sarebbe stato mio desiderio collazionare non solo i documenti pubblicati da lui, ma indagare in quei numerosi fasci delle corrispondenze diplomatiche del 1859 e 1860 dell’archivio di Napoli, ma non mi è stato possibile, richiedendosi permessi, che a me non sarebbero stati mai accordati, tanta è la miseria morale che infesta le regioni ufficiali nel presente triste periodo della vita italiana! Lascio al faturo storico questo compito, non senza però notare, che se una parte della volumitosa corrispondenza del Canofari fu malamente resa di ragion pubblioa, appena dopo il 1860, a scopo di scandali politici, e altra andò distratta per ragioni facili a intendere, vi è nondimeno, secondo le notizie che io ne ho, e delle quali non sarebbe permesso dubitare, molta roba assolutamente ignota, perohè nessuno vi ha cacciato ancora gli occhi. E v’è di più. Quando Francesco II decise ii abbandonare Napoli, ordinò che le carte dell’archivio segreto di Corte fossero chiuse in sette casse, e caricate a bordo del Messaggero, sul quale egli prese imbarco. E finito l’assedio, quelle carte furono tutte portate a Roma? La circostanza che il Bianchi, nel dicembre del 1861 e nel novembre 1862, pubblioò alcuni documenti sulla quistione romana, che da Francesco II erano stati dimenticati a Gaeta, lascerebbe ritenere il contrario. La circostanza che i documenti più gelosi furono chiusi in tante casse, per essere trasportati a Gaeta, fu a me riferita la prima volta da Domenico Gallotti, e poi confermata da Domenico Bianchini, il quale tornò a Napoli due giorni dopo la partenza di Francesco II. Il Bianchini aveva accompagnato il duca di Caianiello nella ma missione a Chambery presso Napoleone III, nella seconda metà di agosto: missione, della quale si parlerà a suo tempo.
Austria, Francia, Inghilterra, Prussia, Russia e Spagna avevano ministri plenipotenziarii a Napoli; le altre potenze, incaricati d’affari. Ministro d’Austria fu il cavalier De Martini, ungherese, tenente maresciallo e consigliere intimo dell’Imperatore, vecchio quasi ottantenne la cui moglie, men vecchia di lui, sposò in seconde nozze il poeta calabrese Giuseppe Campagna. Gli successe il conte Szèchèni, ungherese egli pure. Ministro di Francia sino ai primi giorni del 1856 fu il De la Tour, cui successe il barone Brenier; Guglielmo Temple, dell’Inghilterra con quel Giorgio Fagan, tanto utile alla causa liberale, segretario di legazione. Ministri russi, il cavalier De Karoschkine che i napoletani pronunziavano nel modo più curioso, e poi il conte Volkonsky, i quali passarono senza infamia e senza lode. Molto noto nella società napoletana, invece, fu il primo segretario della legazione russa, il barone d’Uzkull de Gyllenbrand, bel giovane, elegante, che cavalcava bene e ferì molti cuori. Il barone d’Uxkull fu, dopo il 1870, ambasciatore a Roma ed è morto da pochi anni. Ministro di Prussia, il barone De Canitz; e di Spagna, don Salvatore Bermudez de Castro che rappresentava anche il duca di Parma, ed era uno dei tipi più antipatici, più uggiosi e vanitosi, che la nazione spagnola abbia mai prodotto. Francesco II, con decreto dell’8 ottobre 1869, gli dette il titolo di duca di Ripalta; a Gaeta, con altro decreto dell’8 settembre 1860, quello di principe di Santa Lucia, e la Regina di Spagna, il titolo di marchese di Lerma. Segretario della legazione era un carissimo giovane, Domingo Ruiz de Arana, amico intimo di Alfonso Casanova, che di lui parla enfaticamente nelle sue lettere a Carlo Morelli a Rogliano, e a Giuseppe Antonacci a Trani, anzi a quest’ultimo narra la pietosa fine in una lunga e commovente epistola. Arana morì di colera nel novembre del 1855 e fu uno degli ultimi oasi il suo, per oui si dubitò che fosse morto di quel morbo. Era l’amante preferito e appassionato di un’insigne attrice drammatica. Alfonso scriveva al Morelli: "Povero Arana! già nelle poche adunanze che io pratico, non pare quasi più memoria di lui, tanto buono, d’un’altissima anima„ . 9 e all’Antonacci più copiosamente nella lettera innanzi accennata e che pubblico nel terzo volume. L’Antonacci era prediletto di quello sfortunatissimo giovane.10
Il Bermudez seguì Francesco II a Gaeta e poi a Roma, dove si fece regalare dall’ex Re il famoso quadro di Raffaello: la Madonna della Reggia di Napoli, e censì la Farnesina con un canone di trecento scudi romani, di cui per trent’anni Francesco II generosamente gli rilasciò quietanza. E quando Roma divenne capitale d’Italia, la sola espropriazione d’una parte del giardino, per i nuovi e grandiosi lavori del Tevere, fruttò al Bermudez settecento mila lire. Morì a Roma nel maggio del 1883 quasi improvvisamente, e parve misteriosa la sua morte e strana l’esistenza d’una figlia naturale, la quale, con testamento del 31 luglio 1864, egli aveva istituita erede del suo patrimonio. Con altro testamento del 26 agosto 1879, riconobbe e legittimò questa sua figlia, Maria Salvatore Bermudez, raccomandando all’esecutore testamentario di “procurare che la detta Signora non soffra nel suo amor proprio per la preoccupazione della illegittimità della sua nascita, essendo sua madre sommamente nobile ed illustre per lignaggio, posizione, qualità e bellezza, mancando disgraziatamente solo il requisito del matrimonio„. Molte furono le congetture, alle quali dettero alimento queste parole, e più ancora i sospetti, poiché il Bermudez ebbe, o meglio lasciava credere di aver avute avventure galanti con belle e auguste dame. Era così insopportabilmente sciocco, da non essere inverosimile che quelle parole rivelassero un’ultima vanità di lui, quella di lasciar credere di avere avuta la figliuola da sovrana, o da qualche principessa di sangue reale. I testamenti furono depositati presso il consolato di Spagna in Roma, e ne fu rilasciata dal console copia autentica alla nostra Consulta araldica in data 3 luglio 1886, perchè il Bermudez lasciò alla figliuola, che era in educazione in Inghilterra, oltre alla sostanza, il titolo di principessa di Santa Lucia, che le fu riconosciuto dal governo italiano con decreto reale del 19 dicembre 1886. Donna Maria Salvatore Bermudez, la quale sposò un cadetto di una nobile famiglia spagnola, possiede oggi la Farnesina.
Rappresentava la Santa Sede il nunzio Innocenzo Ferrieri, che aveva per uditore monsignor Sanguigni, morti entrambi cardinali, il primo nel 1887, e il secondo nel 1882, e per segretario, l’abate don Gaetano Aloisi, poi eminentissimo cardinale, morto anche lui. Incaricato di affari per la Sardegna era il conte Giulio Figarolo di Gropello, poco più che trentenne. Aveva molto accorgimento, nonostante l’età giovanile. Canto, poco espansivo, molto elegante e collezionista di quadri antichi. Egli restò a Napoli sino al febbraio del 1860, e nel 1858 sposò Maria de Bray, figlia del ministro di Baviera alla Corte di Pietroburgo e della principessa Ippolita Dentice di Frasso. Imparentato strettamente coi Dentice, coi Bugnano e altre famiglie dell’aristocrazia, Gropello continuò ad essere l’enfant gaté del mondo elegante e l’amico dei liberali del patriziato, e dell’alta borghesia, quali Camillo Caracciolo, Giovanni e Maurizio Barracco, Cesare e Alfonso Casanova, Carlo e Luigi Giordano, Atenolfi, D’Afflitto, Gallotti, Antonacci e i fratelli Pandola, Antonio Capecelatro e molti altri. Era anche suo intimo Giuseppe Fiorelli. Frequentava il circolo frondista del conte di Siracusa, anche perchè la contessa era una Savoia di Carignano, ma in sostanza per non perdere i contatti con quel gruppo rispettabile del partito liberale. Il Gropello dava le notizie della guerra di Crimea, smentendo le false voci di sconfitte degli alleati, e magnificandone le vittorie. Il tramite più operoso era Alfonso Casanova, come risalta dalle sue lettere. Il consolato sardo faceva più aperta propaganda, distribuendo manifesti e giornali, a preferenza il Corriere Mercantile e rilasciava passaporti a quanti volevano emigrare in Piemonte. Il console generale era il Fasciotti, morto senatore, dopo essere stato prefetto di Bari e di Napoli. La legazione e il consolato di Sardegna avevano sede alla Riviara, la prima al palazzo Ottaiano, al numero 127, e il secondo al palazzo d’Avalos. Villamarina, giunto nel febbraio del 1860, andò a stare al palazzo Strongoli, e nell’estate successiva, a Villa Tommasi a Capodimonte.
Il nunzio aveva sede nel suo palazzo, in piazza della Carità; il ministro d’Austria abitava il palazzo Strongoli alla Riviera; i ministri di Francia e di Russia alla Ferrandina; Temple, al palazzo Policastro; Bermudez, al vecchio palazzo Esterhazy alla Riviera, e al palazzo Francavilla, l’incaricato interino di Svezia e Norvegia. La Turchia accreditò negli ultimi tempi come incaricato di affari il dottor Spitzer, ammogliato ad una giovane signore tedesca molto bella. Era stato medico del Sultano, che in ricompensa lo mandò a Napoli. A Costantinopoli ere incaricato di affari Edoardo Targioni, già ufficiale di ripartimento al ministero, e che fu balzato in diplomazia nel 1848 dal marchese Dregonetti. Introduttore degli ambasciatori era don Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara e Vasto. che aveva una specialità, quella che, pur avendo nel suo magnifico palazzo cuochi e sottocuochi, mangiava tutte le sere alla Villa di Napoli, a Santa Brigida, facendovisi condurre nella propria carrozza chiusa, che aveva l’aspetto di un carro funebre, e non spendeva più di quattro carlini (lira 1,70) essendo un misto di stravagante e di sordido.
Note
- ↑ Henri de Weindel, François Joseph intime. — Paris, Librairie Felix Javen, 1906.
- ↑ Io so una cosa, ma non posso dirla.
- ↑ Vol. III: Istruzioni pel cavaliere d. Emidio Antonini inviato straorinario e ministro plenipotenziario presso la Real Corte di Prussia; e istruzioni al barone d. Emidio Antonini incaricato nella stessa qualità frtsss la repubblica francese.
Id., Diario inedito del barone Antonini dal 16 al 28 settembre 1852. - ↑ V. diario, volume III.
- ↑ Il suo nipote ed erede marchese Francesco Antonini gli eresse un piccolo monumento nella chiesa della Trinità dei Monti, terza cappella a sinistra ricordando nell’epigrafe gli alti uffici coperti dallo zio, del quale si vede pure un busto in marmo.
- ↑ Storia della diplomazia Europea in Italia, vol. VII, oap. VIII.
- ↑ Una pagina di storia nazionale. Estratto dal fasc. di dicembre 1908 della Rivista d’Italia.
- ↑ Altri documenti lasciò in eredità al municipio di Reggio Emilia, sua patria.
- ↑ Lettere di Alfonso Casanova a Carlo Morelli, pubblicati da R. de Cesare nel suo libro: Una famiglia di patriotti. — Roma, Forzani, 1889.
- ↑ Vol. III. — Alcune lettere intime di Alfonso e Cesare della Valle di Casanova a Giuseppe Antonacci, loro cognato, le quali vien ordinando Giovanni Beltrani, suo nipote. Sono ancora inedite, e gettano molta luce sulle cose napoletane di quegli anni. Mi occorrerà citarle più volte. Giuseppe Antonacci di Trani fu uno dei migliori gentiluomini della sua età. Spirito colto e aperto a ogni azione generosa, innamorato dell’arte e prodigo con gli artisti, morì senatore del regno d’Italia nel 1877, dopo aver fatto Unto per la sua città, di oui fu sindaco benemerito. La memoria sua à viva a onorata, ma a Trani non vi à nna pietra che lo rioordi!