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del famoso magistrato: vecchio piacevole ed erudito che, in gioventù, era stato filippino e poi bibliotecario della regina Amelia di Francia. Aveva un meschino assegno e viveva perciò con curiosa parsimonia.


Un altro diplomatico, nel quale Ferdinando II mostrava di avere fiducia, era Giuseppe Canofari, che nel 1853 mandò incaricato d’affari a Torino. Era angoloso, sprezzante, di discreta penetrazione, e di molta prosunzione. Spendeva molto, ed entrò nell’alta società torinese, organizzando conviti e feste, e dandosi bel tempo. Non capì nulla di quanto si maturava, nè assai meno penetrò il pensiero di Cavour. Egli si limitava a fare un lavoro di spionaggio, spesso vendendo fumo, e basterebbe a provarlo il doloroso incidente di Giacomo Tofano. I suoi rapporti più che politici erano polizieschi, e ne mandava in gran copie ad ogni arrivo di vapore; e, dopo letti, erano trasmessi dal ministero degli esteri all’archivio di polizia. Accadeva altrettanto per i rapporti non meno copiosi, che mandava da Genova il console Ippolito Garrou, già console generale in Algeria, dove tornò dopo il 1860, e dove morì. A Torino e a Genova dimoravano numerosi esali napoletani e siciliani; e tranne pochi, ricchi o agiati o che esercitavano professione, la povertà era patrimonio comune onde non era difficile rinvenire, nei bassi strati di quell’emigrazione, gente che si prestava a ogni officio, anche abietto. Emigrati, che contavano fra i maggiori, avevano fatto pratiche per tornare, vinti dalla nostalgia o da necessità di famiglia; e se alcuni tornarono, come Camillo Caracciolo e Francesco Proto fra i napoletani, e il duca di Serradifaloo, già presidente della Camera dei Pari in Sicilia ed uno dei quarantatre esclusi dall’amnistia, per altri il re oppose un divieto assolato, come per Imbriani e Tofano, e si disse anche per Crispi. Il Canofari era inviso a tutta l’emigrazione per i suoi modi burbanzosi, e più volte venne fatto segno di oltraggi da parte di qualcuno, che poi ne menò vanto sguaiatamente; ma a misura che i tempi maturavano, la sua posizione si rendeva più difficile e anche pericolosa. Non era uomo da aver paura; ma dopo la guerra del 1859 e fino al luglio del 1860, quando lasciò Torino, egli non dormì sonni molto tranquilli. Anche il Garrou fu trasferito a Trieste.

Nell’interessantissimo diario della baronessa Olimpia Savio,