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della sua potenza, che non temeva pericoli. Fu in quell’occasione che mise fuori il suo motto: "essere il Regno protetto, per tre quarti, dall’acqua salata, e per un quarto dalla scomunica„. Era poi convinto di dover vivere eternamente, e questa convinzione contribuiva a non dargli nessuna coscienza o visione dei pericoli. In sostanza, il suo governo, sordo ad ogni voce amica, aveva perduta ogni simpatia, nel mondo civile.

Questi diplomatici provenivano da famiglie nobili e borghesi, nelle quali le tradizioni degl’impieghi politici e consolari erano piuttosto antiche, e che il re concedeva per benevolenza o di capriccio. Il ministero degli affari esteri non ebbe alcun organico fino al 1848, onde vi si entrava, vi si rimaneva, o se n’era mandati vie per volontà del sovrano. Più tardi il ministro Fortunato lo pareggiò agli altri ministeri, nel senso che furono banditi i primi concorsi e fissate alcune norme di carriera; ma nessuno dei giovani riusciti nei primi concorsi pervenne al grado di ministro, durante il regno dei Borboni; lo furono, nel regno d’Italia, Fava, Barbolani, Martuscelli, Bianchini, Curtopassi, Anfore di Licignano, De Luca, primo ministro d’Italia a Pechino, e Renato de Martino, figlio di Giacomo. Il Fava, l’Anfora e il de Luca provenivano dalla carriera consolare. Dei ministri plenipotenziari degli ultimi anni, quasi tutti vecchi, nessuno fu mutato sino al 1860. E v’ha di più: il ministero degli esteri seguitò a rimanere alla immediazione del re, nella oui segreteria particolare prestavano servizio due ufficiali di quel ministero, uno dei quali, adoperato qualche volta come corriere di gabinetto, era Gioacchino Falcon. Per effetto del nuovo ordinamento, il Versace divenne capo del ripartimento politico, ma sempre per eseguire quanto veniva ordinato dal re, o direttamente con le sue decretazioni concise e spesso capziose, o per mezzo del Carafa, per il quale i1 Versace non moriva di tenerezza. Se per Ferdinando II la diplomazia era l’arte d’ingannare la gente, quando la indipendenza dal suo regno era in giuooo, o egli credesse minacciata o insidiata 1 autorità sua, la voce di questa diplomazia diveniva grossa e imprudente, come si rivelò in occasione del Congresso di Parigi.


Il ministro degli esteri nel regno delle Due Sicilie era dunque il re. Le istruzioni ai suoi agenti le dava lui, in quegli ampii fogli dagli orli dorati: e in cima ai fogli, seguendosi il costume spagnolo, si leggeva: Il Re, a grosse lettere; e alla fine, la firma autografa in chiara calligrafia: Ferdinando. Sono in mio potere le