La fine di un Regno/Parte II/Capitolo XII
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CAPITOLO XII
L’Atto Sovrano, approvato in massima nel gran Consiglio di Stato e di famiglia del 30 maggio, non venne fuori che il 25 giugno. Sarebbe molto difficile tener conto minuto di tutto quell’insieme di dubbi e di perplessità da parte del Re; d’intrighi, di sospetti e di paure da parte degli zelanti; ed anche delle pressioni diplomatiche del Brenier, con cui aveva stretto intimi rapporti il conte d’Aquila, il quale, divenuto ad un tratto, come si è visto, costituzionale e liberale, cercava di oscurare la fama del fratello, il conte di Siracusa, che, il 8 aprile, aveva scritta al Re la celebre lettera, la quale levò tanto rumore in Italia e in Europa. La conversione del conte d’Aquila alle idee liberali si rivelò dopo la catastrofe di Palermo. Divenne costituzionale arrabbiato e con lui quasi tutto il partito retrogrado. Il duca di Bivona diceva: “Senza la Costituzione non si può andare avanti„. Si verificava questo caso curioso, che i retrogradi diventavano costituzionali, e i vecchi liberali, unitarii tutti. Giorni memorabili furono quelli, nei quali uno dei drammi più caratteristici, che la storia ricordi, si svolse nella Corte, nel governo e nell’animo stesso del Re, in preda alle più opposte correnti, ma rassegnato e quasi inconsapevole; dramma familiare e politico, che interessava non solo il Regno, ma tutta l’Europa, perchè tutta l’Europa aveva gli occhi su Napoli, sperando o temendo le varie nazioni che il fuoco rivoluzionario, comunicandosi dalla Sicilia al continente, mandasse in fiamme la dinastia e il Regno. De Martino parti la sera del 6, accompagnato dal generale Roberti, e questa compagnia diede luogo ad ameni commenti, perchè era noto che Roberti non sapeva una parola di francese. S’imbarcarono per Marsiglia sulla Saetta, e giunsero a Parigi il giorno 11.
De Martino era latore di una lettera autografa di Francesco II per Napoleone, e di un lungo dispaccio con documenti per Antonini e Thouvenel; nè più tardi del giorno successivo all’arrivo, 12, fu con Antonini ricevuto a Fontainebleau. Il Re e il ministero, intanto, sia per i fatti di Sicilia, sia per agevolare la riuscita della missione di De Martino, cominciarono a fare delle concessioni. Il 9 giugno uscirono da Santa Maria Apparente alcuni detenuti politici, fra i quali il noto avvocato Giuseppe Saffioti. E tre giorni dopo, il maresciallo duca Caracciolo di San Vito fu chiamato a sostituire, come direttore di polizia, l’Ajossa, licenziato in una forma, che fece a tutti molta impressione. La mattina del 12 giugno, andando infatti al ministero all’ora solita, trovò il suo posto occupato dal nuovo direttore. Si disse che il licenziamento di lui fosse opera di Brenier, e non è inverosimile. Ajossa non trovò un amico in quella occasione, la più triste della sua vita, nè, dopo di allora, occupò altri ufficii; e, mutati i tempi, andò a chiudersi in Calabria, nel suo borgo d’origine, dove si spense nell’oscurità nel 1876, dopo aver fatto tremare il Regno ed essere stato il terrore specialmente delle Provincie, da lui amministrate. In quei primi giorni della sua disgrazia era addirittura furioso. Il 16 giugno, incontrato Gaetano Filangieri, gli disse che l’ingratitudine dei Borboni era proverbiale, e che dopo vent’anni di servizio era stato trattato come Intenti e Del Carretto. Filangieri gli rispose, con aria di scherzo, che lui aveva minato Casella, ed era stato minato alla sua volta. Ajossa diceva corna di Nunziante, attribuendo a lui gli ultimi eccessi della polizia.
Il maresciallo Caracciolo di San Vito era uomo giusto e onesto, ma povero d’ingegno e d’energia. E poichè era sordo, si disse che almeno avrebbe avuto il vantaggio di non porgere ascolto alle delazioni. Il giorno dopo la sua nomina uscirono da Santa Maria Apparente altri quarantadue detenuti politici, e tutta la compagine della vecchia polizia n’ebbe una scossa abbastanza forte. Prima per telegramma, e poi con rapporti speciali del 13 e del 16 giugno, diretti a Carafa, il marchese Antonini rese conto particolareggiato del colloquio avuto a Fontainebleau, riferendo, di tanto in tanto, le parole stesse dell’Imperatore, piene di benevolenza per la persona del Re, ma punto rassicuranti circa le intenzioni sue, riguardo alla proposta di mediazione fattagli dai delegati napoletani. “La Sardegna sola può arrestare la rivoluzione, disse l’Imperatore; piuttosto che a me, è al re di Sardegna che avreste dovuto dirigervi; è, contentando l’idea nazionale, che potreste solo arrestare la corrente; le concessioni interne, separate da quella, per sè stesse, non avrebbero scopo; nessuno le accetterà„. I dispacci di Antonini produssero viva impressione a Napoli; ma, al solito, gli zelanti della Corte e del governo accusavano il De Martino di avere, d’accordo con l’Antonini, caricate le tinte, per forzare la volontà del Re. Le parole di Napoleone: “il faut s’entendre avec Turin„; e queste altre: “è troppo tardi, un mese fa le riforme avrebbero potuto prevenir tutto, ora è troppo tardi; la Francia è in una posizione difficile; le rivoluzioni non si arrestano con parole, ed ora la rivoluzione esiste e trionfa; è a Torino, è a Torino che bisogna agire; date a Cavour un argomento di fatto, un’arma valida, un interesse a sostenervi, e lo farà; una lotta ulteriore in Sicilia è impossibile„; queste frasi, dunque, aggiunte a quelle del secondo rapporto di Antonini: “spero mi si renderà giustizia che non ho mai fatto concepire alcuna speranza„ furono dagli zelanti interpetrate come esagerazioni interessate. Quando il De Martino tornò a Napoli e confermò i particolari del lungo colloquio di Fontainebleau, ebbe, quindi, fredda accoglienza dal Re, dai ministri e dai cortigiani intimi.
In Corte i sospetti e le paure crescevano di giorno in giorno. Per spiegare le premure del Brenier e la sua intimità col conte d’Aquila, si affermava che a lui, corto a quattrini, don Luigi promettesse danaro e titolo di duca, qualora fosse riuscito ad indurre il Re a dare lo Statuto. Il conte d’Aquila sperava in tal modo, secondo le voci, di avere nelle cose del Governo quell’ingerenza o influenza, che non ebbe mai. Altri asserivano che, persuaso che la Costituzione avrebbe affrettata la catastrofe del nipote, egli meditasse una sua reggenza. Certo, il liberalismo di fresca data di don Luigi, ritenuto fino allora il capo della camarilla, non si credeva sincero e offriva argomento alle più strane congetture. Egli, da principio, trattò col Brenier, per mezzo del barone Aymé, primo segretario della legazione francese, e poi direttamente. L’Aymé era mezzo napoletano, come dissi, perchè figliuolo di un generale di Murat e di una principessa di Caramanico, e aveva col conte vecchia amicizia. Ad alcuni suoi intimi, ed a persona di riguardo, che a me l’ha riferito, l’Aymé raccontava che il Brenier insistesse presso Francesco II per una sollecita concessione dello Statuto, e per un mutamento radicale nella politica, non perchè tali fossero le istruzioni esplicite, che egli riceveva da Parigi, ma nello interesse personale del conte di Aquila, e di pieno accordo con lui; ciò che conferma naturalmente i sospetti, ai quali ho dianzi accennato.
Ma la verità su tal punto non si saprà mai. Certo il Brenier agiva con una insistenza, da legittimare dei sospetti; certo maggiori ne destava il liberalismo improvviso del conte d’Aquila. Io riferirò un aneddoto, che narrava il barone Aymé, morto a Napoli, dieci anni or sono, e che, se fu un uomo di intelligenza e di cultura appena mediocri, aveva la memoria fresca, ed era signore di nascita e di maniere. Egli dunque narrava, che, stabiliti gli accordi fra il Brenier e il conte d’Aquila, questi, in una sera di giugno, nella casa di una sua amante, al palazzo Torlonia a Mergellina, abbozzò, presente l’Aymé, l’Atto Sovrano, e formò la nota dei possibili ministri. Poi, sempre con l’Aymé, si recò dal Brenier a mostrargli la bozza dell’Atto Sovrano e la lista dei nuovi consiglieri della Corona. Brenier approvò tutto; solo disse opportuno sostituire alle parole: ampia amnistia, queste altre: generale amnistia. Nella medesima notte, lasciato il Brenier, il conte e l’Aymé si recarono dalle persone designate come ministri, che tutti, eccetto De Sauget, preconizzato ministro della guerra, accettarono. Andarono poi da don Liborio Romano, che abitava al palazzo Salza, ora Bagnara, alla Riviera, designato come prefetto di polizia. Il Romano nelle sue Memorie accenna a questa visita notturna, senza però dire, che gli fu fatta dal conte d’Aquila, qualche giorno prima dell’Atto Sovrano. Don Liborio era a letto; ricevè i visitatori in veste da camera, e accettò, con palese compiacenza, il posto offertogli, e che ottenne difatti.
Il conte di Trapani, informato delle pratiche del conte d’Aquila, non lo accompagnò però in queste gite notturne, ma stabilì col fratello di recarsi l’indomani a Portici, dov’era il Re, per proporgli l’Atto Sovrano. Ma, il domani, seppero che il principe di Cassaro, presidente del Consiglio, avvertito di quanto meditavano i due principi, aveva deciso, per istigazione della Regina madre, di farli arrestare al ponte della Maddalena. Chiesero ed ottennero una carrozza della legazione francese, e insieme con loro vi salirono l’Aymé e il marchese Troiano Folgore, colonnello di marina. Mossero verso Portici, la sera. Al ponte della Maddalena la polizia fermò la carrozza, ma l’Aymé dichiarò che apparteneva alla legazione di Francia, e protestando contro ogni possibile offesa, ottenne di proseguire. Videro subito il Re, che si dichiarò contrario a qualunque mutamento; ma quando i due zii gli ripetettero le esplicite assicurazioni del Brenier, aggiungendo, come prova, il fatto di essere là andati nella carrozza della legazione francese, ed insieme al segretario di questa, egli ne parve scosso e lasciò sperare una risoluzione diversa. In tutto questo racconto c’è del verosimile, ma manca sinora la base storica.
La promulgazione dell’Atto Sovrano, da farsi il 24 giugno, fu decisa in un Consiglio straordinario di Stato e di famiglia, che ebbe luogo a Portici, il 21 di quel mese, dopo il ritorno del De Martino da Parigi, e con l’intervento dei tre principi suddetti, dei ministri, dei direttori e dei consiglieri di Stato, che presero parte a quello del 30 maggio, tranne Filangieri che non vi fu invitato. In questo Consiglio si lessero i dispacci di Antonini, i quali fecero profonda impressione, soprattutto per le parole che chiudevano il secondo di essi: “Non sono chiamato a dare consigli, ma il real governo o ha ancora una forza bastante a reprimere la rivoluzione; o altrimenti non ha tempo a perdere, per accettare le condizioni, sotto le quali l’Imperatore vuole far credere di prendere la mediazione presso i suoi alleati„.
Il Consiglio di Stato, con undici voti favorevoli e tre contrari, decise di proporre al Re di tradurre in atto le tre proposte, cioè: Costituzione del 1848, accordo col Piemonte e istituzioni speciali per la Sicilia. Sempre tenaci nelle loro opinioni, Troja, Scorza e Carrascosa furono contrarii a tutto. Il principe di Cassaro motivò il suo voto, dichiarando che, avverso per principii alle concessioni, soprattutto nelle circostanze presenti, il primo effetto di esse sarebbe di togliere forza al Governo, nel momento in cui ne aveva maggior bisogno; ma poichè non vi era più scelta nei mezzi di resistenza, avendo i ministri degli esteri, della guerra e della polizia dichiarato di averli tutti esauriti, ed essendo la posizione disperata in faccia alla sentenza dell’Europa e della necessità, ogni considerazione o sentimento doveva cedere al dovere di salvare il trono e la dinastia, e tale dovere imponeva quest’ultima prova, per quanto fosse pericolosa e difficile. Carrascosa non esitò ad affermare, che la Costituzione sarebbe la tomba della Monarchia.
I ministri, prima di separarsi, discussero se, concedendo il Re la Costituzione, essi dovessero cedere il posto a un nuovo gabinetto. Alcuni riconobbero doveroso il rimanere, ma la maggioranza fu favorevole alle dimissioni. Il Re non fu presente al Consiglio, perchè dal giorno 18 era a letto con febbre, che si disse biliosa. Da qualche giorno egli era divenuto triste, come se un’interna voce gli dicesse che, dando la Costituzione, la dinastia era spacciata. Il generale Letizia che, tornando da Palermo la sera del 7, andò subito a trovarlo, disse che il Re era molto perplesso ed agitato su quel che dovesse fare; ma che avendo ricevuto una lettera di Pio IX scritta di suo pugno, nella quale lo consigliava di resistere e di nulla concedere, ogni esitazione era stata in lui vinta. Il giorno 17, che era domenica, il Re non volle ricevere il conte d’Aquila, il quale del rifiuto era furiosissimo, e ricorse allo stratagemma innanzi raccontato. Quando Francesco II fu informato delle deliberazioni prese dai ministri, si lasciò dire che le approvava; ma, la sera stessa, di sua iniziativa fece ripartire De Martino per Roma, desiderando di avere un altro consiglio dal Papa, prima di decidersi. Il risultato del colloquio del De Martino con Pio IX fu quello, che veramente decise Francesco II a pubblicare l’Atto Sovrano. Il Papa volle essere a lungo informato della missione compiuta dal De Martino a Parigi, e la loro conversazione, ondeggiante di argomento in argomento, fu più accademica che politica, più sentimentale che concludente. Il rapporto del 24 giugno del De Martino rivela tutto l’affannoso imbarazzo, in cui egli si trovò innanzi al pontefice, e gl’imbarazzi dello stesso Pio IX, il quale approvava l’amnistia; riconosceva necessario dare istituzioni separate a Napoli e alla Sicilia, ma faceva vivaci riserve sulla proposta di alleanza col Piemonte, per la parte che riguardava i diritti della Santa Sede “diritti, egli diceva, che una tale alleanza avrebbe compromessi, e coi diritti sacrosanti della religione non vi è mai transazione a farsi„. I consigli del Papa vinsero dunque anche le ultime riluttanze del Re, il quale, la mattina del 25, si decise a sottoscrivere l’Atto Sovrano, e lo firmò da solo, senza neppure la controfirma del presidente dei ministri che cessava dall’ufficio, ne di quello che lo assumeva. Nella notte dal 22 al 23 fece chiamare Filangieri, che giunse a Portici la mattina di buon’ora. Informatolo di quanto era avvenuto, gli chiese, se anche lui era dello stesso avviso dei suoi ministri. Filangieri gli rispose, che al punto cui si era pervenuti forse non era da fare altro. E la sera del 24 volle anche interrogare il padre Borrelli, dicendogli: “La Regina e quelli, che la consigliano, vogliono che io dia la Costituzione, tu che ne pensi?„ Il padre Borrelli lo scongiurò a respingere tale consiglio: “La Costituzione avrebbe affrettata la rivoluzione„. Il Re rispose: “Non posso seguire le tue idee, benché le creda giustissime„; e il frate: “Si ricordi Vostra Maestà di questo giorno, ch’è il 24 giugno, festa di S. Giovanni, l’ultimo giorno, forse, che io bacio la mano al Re di Napoli„.
Il Giornale Ufficiale pubblicò, la sera del 26, il tanto atteso Atto Sovrano, che era questo:
Atto Sovrano.
Desiderando di dare a’ Nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra Sovrana benevolenza, Ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno in armonia co’ principii italiani e nazionali in modo da garentire la sicurezza e prosperità in avvenire e da stringere sempre più i legami che Ci uniscono a’ popoli che la Provvidenza Ci ha chiamati a governare.
A quest’oggetto siamo venuti nelle seguenti determinazioni:
1° Accordiamo una generale amnistia per tutti i reati politici fino a questo giorno;
2° Abbiamo incaricato il commendatore D. Antonio Spinelli della formazione d’un nuovo Ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Statuto sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali;
3° Sarà stabilito con S. M. il Re di Sardegna un accordo per gl’interessi comuni delle due Corone in Italia;
4° La nostra bandiera sarà d’ora innanzi fregiata de’ colori nazionali italiani in tre fasce verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra Dinastia;
5° In quanto alla Sicilia, accorderemo analoghe istituzioni rappresentative che possano soddisfare i bisogni dell’Isola; ed uno de’ Principi della nostra Real Casa ne sarà il Nostro Vicerè.
Portici, 25 giugno 1880.
firmato: Francesco.
Il dì seguente, il Giornale Ufficiale s’intitolò Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie, e il 27, annunziò il nuovo ministero, così costituito: Antonio Spinelli, presidente del Consiglio; Giacomo de Martino, ministro per gli affari esteri; Gregorio Morelli, per la giustizia; il principe di Torella, Niccola Caracciolo, per il culto, ed, interinalmente, per la pubblica istruzione; Giovanni Manna, per le finanze; Federigo del Re, per l’interno e polizia generale; il maresciallo Giosuè Ritucci per la guerra; il vice-ammiraglio Francesco Saverio Garofalo per la marina; il marchese Augusto Lagreca per i lavori pubblici; l’avvocato Liborio Romano, prefetto di polizia. Il De Martino era ministro di Napoli a Roma; Morelli, procuratore generale della Corte criminale di Salerno; Del Re controllore generale alla tesoreria; il maresciallo Ritucci, uno dei più vecchi generali, e il retroammiraglio Garofalo, uno dei più vecchi ammiragli, fratello del maresciallo barone Gaetano, e che, come questi, aveva servito in gioventù sotto Murat, ed era stato ufficiale sulla nave comandata dal Bausan, la quale, accerchiata dalla flotta inglese, riuscì a traversarne le fila ed entrare nel porto di Napoli; e, da ultimo, il principe di Torella era succeduto da pochi anni nel titolo a suo padre Giuseppe, che fu ministro di Ferdinando dopo il 16 maggio. Del vecchio ministero restò soltanto Carafa per pochi giorni, mal rassegnandosi a non più ricevere il corpo diplomatico. I nuovi direttori furono nominati più tardi.
Erano nel porto sette legni francesi e due inglesi, che presero parte alle salve. Brenier diceva che le due flotte erano in rada per evitare possibili saccheggi da parte della plebe reazionaria, ed anche un possibile bombardamento, qualora, non decidendosi il Re a dare la Costituzione, fosse scoppiata la rivoluzione a Napoli. Elliot assicurava persino che Mazzini era in Sicilia, e certo le preoccupazioni del governo erano tali, che, la sera del 18, seimila uomini usciti dai Granili, andarono ad accamparsi tra Bagnoli e Pozzuoli, temendosi colà uno sbarco di rivoluzionarii.
La mattina del 26, il Re e la Regina tornarono a Napoli in carrozza scoperta. Il Re cercava di mostrarsi ilare, ma era pallido ed abbattuto per le febbri sofferte. Lungo il percorso furono rispettosamente salutati, ma non ebbero le clamorose accoglienze che si aspettavano. Il giorno 27, tra le salve dei legni ancorati nel porto, s’inalberò la bandiera tricolore sui castelli e sulle navi da guerra. Nella scelta dei nuovi ministri ebbe non piccola parte il conte d’Aquila, o almeno grande fu il suo affaccendarsi perchè così si credesse. Avrebbe voluto che Giuseppe Ferrigni fosse ministro di giustizia, ed ebbe all’uopo frequenti colloquii con lui; ma il Ferrigni non volle saperne. Si narra che allo Spinelli, il quale insistette anche la sua parte perchè egli entrasse nel ministero, il Ferrigni rispondesse essere Francesco II un moribondo, al che si aggiunse pure che lo Spinelli avrebbe replicato: “Ma noi da medici pietosi cerchiamo di prolungarne le ore„. L’aneddoto è riferito in un opuscolo, venuto alla luce nel 1895 e dedicato alla memoria del Ferrigni; e vi è pur pubblicato il testo della letterina che il Ferrigni scrisse al conte d’Aquila in data del 26 giugno.1 Al marchese Rodolfo d’Afflitto fu offerto il ministero dell’interno, che non volle accettare, perchè l’alleanza col Piemonte non era assicurata, e la Costituzione, data precipitosamente, parvegli che distruggesse il vecchio governo senza la possibilità di formarne uno nuovo.
Per il 28 il Re dispose che vi fosse gran gala, con le consuete salve e l’illuminazione dei pubblici edifìci e dei teatri. A questa letizia ufficiale non rispose la letizia pubblica, perchè, mentre da una parte il Comitato dell’Ordine consigliava ed imponeva di accogliere la Costituzione con freddezza, dall’altra parte, nella stessa giornata del 26, scoppiarono i primi tumulti a Napoli, contro la polizia e divennero gravissimi il 27. Furono aggredite e ferite alcune pattuglie di feroci; investiti i commissariati di polizia; manomessi gli archivi!; bruciate le carte; ucciso un odiato spione; feriti alcuni commissarii e ispettori, e compiuti non pochi atti di saccheggio a danno di privati, soprattutto nei quartieri bassi, per cui molti negozi si chiusero, molti forestieri fuggirono e molti cittadini ripararono nelle città vicine. Alle 8 della sera del 26, ci fu di peggio. Mentre il ministro Brenier usciva nella sua carrozza dal palazzo del Nunzio, fu malamente percosso due volte sul capo con mazza di ferro, e ferito; nè mai si seppe l’autore e meno ancora, lo istigatore dell’aggressione, la quale destò indignazione e paura ad un tempo. Il Re mandò subito al palazzo della legazione francese i suoi due aiutanti Ischitella e Sangro, a chiedere notizie e ad esprimere il suo rammarico per quanto era avvenuto; il conte d’Aquila vi tornò due volte, trattenendovisi sino alle due e mezzo della mattina; i vecchi e i nuovi ministri mandarono o portarono le condoglianze; e un indirizzo, sottoscritto da parecchi cittadini, manifestò l’indignazione dei napoletani per l’ignobile attentato.
L’attentato a Brenier fu creduto dai liberali opera della reazione, poichè egli era stato uno dei più insistenti sollecitatori della Costituzione. Su denunzia non si sa di chi, il prefetto Romano fece imprigionare i fratelli Manetta, che avevano fama di incorreggibili reazionari e di gente audace e manesca, ritenendoli addirittura gli autori del triste fatto. Il processo fu istruito dallo stesso presidente della Gran Corte criminale, Ezio Ginnari. Nessuna prova però si potè raccogliere, nonostante una circolare rimasta famosa, con la quale il detto presidente invitava gli Eletti ad indicare i nomi dei più noti camorristi delle varie sezioni, per chiamarli a deporre sul fatto. Del resto, quando Brenier, caduti i Borboni, lasciò Napoli, mandò una lettera ufficiale al Pisanelli, guardasigilli della dittatura, proclamando l’innocenza dei Manetta e reclamandone la liberazione. Nondimeno il nuovo procuratore generale De Falco emise il suo atto d’accusa contro costoro per crimine di eccitamento alla guerra civile, accompagnato da ferita che aveva prodotto deturpamento permanente (secondo il giudizio del perito Palasciano), sulla persona dell’ambasciatore di Francia, signor Brenier, reato che dal codice napoletano era punito coi ferri dai ventiquattro ai trent’anni. I Manetta furono validamente difesi dall’avvocato Francesco Bax. Avendo Garibaldi concessa un’amnistia per i reati politici, non congiunti a reati comuni, il De Falco sostenne essere l’amnistia inapplicabile ai Manetta; ma dopo l’arringa di Bax in pubblica udienza e dopo che Enrico Pessina, divenuto coi nuovi tempi sostituto procuratore generale, si associò alle argomentazioni di lui, la Corte criminale ordinò la scarcerazione degli accusati, i quali si ritirarono a Malta e vi stettero più anni. Si disse anche, che Brenier chiedesse per indennità dell’aggressione un milione di ducati, ovvero il palazzo reale del Chiatamone. Ma egli veramente non chiese nulla, tranne che fossero fatte al suo Sovrano speciali scuse dell’insulto, di cui era stato vittima.
Temevansi, nel giorno seguente, peggiori disordini e altre scene di sangue. Si diceva che il partito reazionario avrebbe profittato di quell’occasione per rinnovare la Santafede, indurre il Re a ritirare la Costituzione e a nominare un ministero di resistenza. Nella notte dal 27 al 28, fu proclamato lo stato di assedio, dandosi al generale Caracciolo di San Vito il comando della piazza. La mattina del 28, il nuovo prefetto di polizia, Liborio Romano, pubblicò il suo primo manifesto, col quale proibiva gli attruppamenti e le grida di ogni specie, che potrebbero ingenerare tumulti. Il manifesto cominciava cosi: “Le novelle istituzioni promettitrici e garanti al nostro bel paese d’un lieto e prospero avvenire non possono convenientemente radicarsi e produrre frutti soavi (sic), se il popolo non dà prova di averle meritate, aspettando con pazienza le nuove leggi e il tempo dell’oprare, rispettando l’ordine pubblico, le persone e la proprietà„. Il ministero costituzionale iniziava la sua opera, proclamando lo stato d’assedio, ma ciò faceva per garantire l’ordine e per avere il tempo di formare una guardia cittadina, a tutela della pubblica quiete, così come disse nella sua prima ordinanza il nuovo ministro dell’interno, Federico del Re. Furono date, difatti, il dì seguente, le necessarie istruzioni agli Eletti della città, per preparare le liste della guardia nazionale.
Il ministero del 27 giugno era formato quasi tutto di uomini miti e dottrinari, non atti a lottare contro la marea che incalzava da ogni parte e dalla quale furono addirittura travolti, quando all’Atto Sovrano segui, quattro giorni dopo, l’amnistia che spalancò le carceri e iniziò il ritorno degli emigrati. Si è veduto che Napoli fu in preda di gravi tumulti nelle sere del 26 e del 27 giugno, tanto che si fu costretti a ricorrere allo stato d’assedio, per pochi giorni. La vecchia polizia era sparita, e una guardia cittadina si andava formando. Liborio Romano, si disse, per consiglio di un vecchio generale borbonico, ebbe l’idea di reclutarla fra i camorristi e fra quei guappi, mezzo patrioti e mezzo camorristi, amnistiati anche loro e usciti dalla Vicaria e da San Francesco, o tornati dalle isole. Credeva facile cosa poterli disciplinare e s’illudeva forse di redimerli. I picciotti di sgarro sostituirono i feroci; e ogni capocamorrista, Michele ’o Chiazziere, lo Schiavetto, il Persianaro, Salvatore de Crescenzo, detto Tore ’e Crescienzo, e altri non meno celebri divennero gli entusiasti e romorosi capisquadra di questa nuova e strana guardia, senza uniforme e senz’armi, che solo portava un nodoso bastone in mano e una coccarda tricolore al cappello.
Fu un atto ardito e forse necessario per garantire, in quei giorni, l’ordine pubblico: atto probabilmente consigliato al Romano dalla disperata condizione delle cose, e che se da principio impedì peggiori disordini, tenne nonpertanto la città, prima che fosse formata la guardia nazionale, in uno stato di paurosa sovraeccitazione. Napoli era in balìa dei camorristi; e se non mancarono atti di probità e di generosità, specialmente nei primi tempi, non tardarono i malanni. Cominciarono, specie da parte dei mezzo camorristi, cioè dei guappi patrioti, le minacce e le estorsioni a danno dei borbonici o dei presunti borbonici, le vendette private, il contrabbando alla dogana e alle barriere; e crebbe enormemente il giuoco clandestino del lotto. Bisognava passar sopra a tutto, anche perchè quella polizia fini per servire ai due Comitati dell’Ordine e di Azione, soprattutto a questo, che più la carezzava e mostrava di tenerla in qualche conto. L’atto di don Liborio ebbe il suo bene e il suo male e potè essere giustificato dalle circostanze; ma il male peggiore fu quello di avere inquinata la nuova polizia, in guisa che, quando Spaventa, ministro sotto la luogotenenza del principe di Carignano, volle epurarla, la camorra, facendo causa comune con le guardie nazionali di più bassa lega, e con le quali aveva maggiori contatti, insorse violentemente, e il coraggioso ministro per poco non vi lasciò la vita.
La prima nomina di direttore, con decreto del 6 luglio, fu quella di Carlo de Cesare, che contava trentasei anni e aveva fatto il letterato nella sua prima gioventù, e poi, datosi a studii di scienze economiche e sociali, si era acquistato bel nome ed aveva vinto, due anni prima, in pubblico concorso, il premio istituito da Michele Tenore, all’Accademia Pontaniana. Era intimo del Manna, il quale lo volle suo collaboratore nel ministero delle finanze. Durante il decennio, aveva sofferte persecuzioni; era stato imprigionato e confinato; si era aperto contro lui e contro i suoi fratelli e altri egregi cittadini di Spinazzola, un processo di cospirazione per la setta dell’unità d’Italia; era stato attendibile, e la sua persona e la sua casa, al vico Sergente Maggiore, accanto a quella di Ferdinando Mascilli, erano state dalla polizia tenute sempre d’occhio. Liborio Romano scelse per direttore il suo antico amico, Michele Giacchi, avvocato civile di grido, che fu deputato di Campobasso nel 184S e, nei primi anni della reazione, potè sottrarsi ai processi per la protezione del generale Lecca, di cui era avvocato; ma poi fu confinato per qualche anno a Sepino, sua patria, e potè tornare a Napoli per le insistenze dello stesso generale Lecca, cui il Re voleva bene, e chiamava, celiando, il mio fido greco, per la sua origine. Romano aveva alla sua volta sofferte maggiori persecuzioni: era stato prima confinato a Patù, suo borgo nativo, dopo i moti del 1820; prigioniero in Santa Maria Apparente prima e dopo il 1848; esule in Francia per qualche anno, e nel 1859 sottratto dal conte d’Aquila ad una nuova prigionia.
Romano, De Cesare e Giacchi rappresentavano nel ministero una specie di tratto d’unione fra il nuovo governo e i liberali che tornavano dall’esilio, o uscivano dalle prigioni. Si aggiunga che ministro effettivo per l’interno era Giacchi, il quale aveva testa più organica di don Liborio; e ministro delle finanze fu, quasi dal primo giorno, Carlo de Cesare, perchè il Manna, alla metà di luglio, andò a Torino per trattare la lega, e non ne tornò che a Regno finito. Furono anche direttori: Giuseppe Miraglia, alla grazia e giustizia; Michele Capecelatro, alla marina, e il barone di Letino, Salvatore Carbonelli, ai lavori pubblici; ma questi non avevano colore politico accentuato. Miraglia fu, più tardi, presidente della Corte di Cassazione di Roma, ed ora è in riposo; Michele Capecelatro era fratello maggiore di Alfonso e di Antonio; e il barone di Letino, rimasto fedele ai Borboni, fu ministro per le finanze nel ministero di Gaeta. Il barone di Letino e il Miraglia sono i soli superstiti, credo, di quel ministero.
Dei nuovi ministri, la maggior forza morale era il presidente del Consiglio, don Antonio Spinelli. Questi era vissuto dodici anni fuori della vita pubblica, ma era stato sopraintendente degli archivi di Stato; consultore, ministro di agricoltura e commercio, e incaricato di stabilire trattati di commercio con le principali potenze di Europa. Aveva pubblicati importanti lavori sulle opere pie della città di Napoli e, fra gli altri, un’inchiesta rimasta famosa per profondità di vedute e coraggio civile, e della quale Ferdinando II ebbe quasi paura, tanto da lasciarla cadere in oblio. Era uomo di forte carattere e di grande dirittura di animo. Sperò, accettando la presidenza del ministero costituzionale, in una resurrezione del Regno di Napoli, confederato col Piemonte; ma, al punto a cui erano giunte le cose, non se ne nascondeva le difficoltà. Il conte d’Aquila, che si dette un gran da fare per mettere insieme quel ministero, andò a chiamarlo, da parte del Re. Lo Spinelli era alla sua villa di Barra e, pur sentendo tutta la gravità del sacrifizio che gli s’imponeva, accettò, con la coscienza di sacrificarsi al bene del paese. Liberale e costituzionale convinto, disse agli amici che gli facevano premura di accettare, costargli molto l’annullamento della sua persona, perchè, ove mai la rivoluzione trionfasse, egli non sarebbe venuto mai meno agli obblighi morali, che feran per legarlo alla dinastia pericolante. E così fu. Coi nuovi tempi non accettò alcun ufficio, ma fu largo di consigli a quanti glie ne richiesero, e più volte il principe di Carignano si rivolse non indarno a lui, per essere esattamente informato su uomini e cose del Napoletano, durante la luogotenenza. E da registrare a proposito di lui un aneddoto curioso e doloroso ad un tempo. Il giorno, che i camorristi di Napoli insorsero contro Spaventa, poco mancò che lo Spinelli non vi lasciasse la vita. Lo scambiarono per Spaventa, assalirono la carrozza, in cui egli era, presso il palazzo De Rosa a Toledo, pugnalarono un cavallo, ferirono il cocchiere e, senza l’intervento coraggioso di un ufficiale dello stato maggiore, sarebbe caduto sotto i colpi di que’ farabutti. Dal giorno che Francesco II partì, egli rientrò nella vita privata, non volle onorificenze e neppure la nomina a senatore del Regno. Morì a ottantotto anni, nell’aprile del 1873, assistito amorevolmente dai suoi figliuoli e rimpianto dai molti amici. Gli scrittori borbonici accusarono anche lui di tradimento, ma mai accusa fu più stolida. Lo Spinelli si sacrificò ad una situazione, tanto nuova storicamente, quanto difficile, e la cui non remota fine egli stesso, accettando il ministero, aveva preveduta. Era un uomo di coscienza, non uno scettico vanitoso e inconsapevole, come Liborio Romano. Giovanni Manna era stato ministro nel 1848; ma, pur volendo l’autonomia del Regno, non moriva di tenerezza per i Borboni, e il principe di Torella, fratello maggiore di Cammillo Caracciolo, era un brav’uomo, nervosissimo, liberale a suo modo, molto religioso e municipale schietto. Lo dicevano assai versato nel diritto canonico, e fu forse per questo che lo nominarono ministro per il culto. Giovanni Manna non aveva occupato alcun ufficio nel decennio; era vissuto tra i suoi studii, e con pochi e fidi amici, dovendo alla sua parentela col generale Sabatelli, di cui era genero, se non fu processato, soprattutto perchè aveva conservato vivo il suo culto per Carlo Troja e la sua amicizia con i colleghi del ministero del 3 aprile, esuli in Piemonte. Spinelli e Manna erano le maggiori autorità del ministero; ma, fra tutti, si riteneva più destro il De Martino, uomo di talento di certo, ma la cui azione diplomatica, come ministro costituzionale, fu una serie d’insuccessi, nonostante la fede, da lui fin troppo e apertamente dimostrata, che sarebbe riuscito a impedire lo sbarco di Garibaldi sul continente, interessando tutta l’Europa alla conservazione del Regno. Contava molte amicizie nella diplomazia, e riusciva simpatico per la persuadente loquela e la vivace fantasia meridionale, ma in fondo era scettico e repugnava, un po’ meno dei suoi colleghi, da qualunque misura concludente contro quelli che cospiravano e si agitavano per mandare in fiamme e Regno e dinastia.
Nel primo giorno di luglio, il ministero, in una sua relazione al Re, lo aveva invitato a richiamare in vigore lo Statuto del 1848, il quale Statuto, essi dicevano, se dopo qualche tempo si trovò sospeso in conseguenza di luttuosi avvenimenti che non accade ora rammentare, non però fu mai abrogato. E con decreto dello stesso giorno, Francesco II lo richiamava in vigore, convocando i collegi elettorali per il 19 agosto, e il Parlamento per il 10 settembre. Da questo momento l’attività del ministero sembrò eclusivamente rivolta a nominar commissioni, per preparare progetti di legge e riforme. Il 2 luglio, il maresciallo Cutrofìano dichiarava tolto lo stato d’assedio, anche perchè in quel giorno corse voce che fosse stata conclusa la lega col Piemonte, onde gran folla attese innanzi alla Reggia il Re, che si diceva sarebbe uscito in carrozza con Villamarina e Brenier. Si affermava che il Re di Piemonte avesse risposto: “accettare l’alleanza e attendere con gran piacere la missione straordinaria, che gli s’inviava per trattare la lega; pregare il Re di avere in vista più le idee nazionali che le particolari franchigie; desiderare la cooperazione dei buoni ufficii della Corte di Napoli fra lui e la Santa Sede; non opporre nulla alla condizione di non riconoscere l’annessione delle Romagne„. Il 3 luglio, il principe di Torella chiamava Leopoldo Tarantini, Saverio Baldacchini, Carlo Toraldo e Raffaele Lucarelli a far parte della commissione per preparare il progetto di legge sulla stampa. Ad elaborare la legge elettorale, il ministro dell’interno nominava Giuseppe Aurelio Lauria, Giuseppe Colonna di Stigliano, il marchese Rodolfo d’Afflitto e Costantino Crisci; e, due giorni dopo, Antonio Troysi, Gaetano Ventimiglia, Giuseppe Gailotti, Gabriele Capuano, Carlo de Cesare, Costantino Baer, Tito Cacace, Francesco Sorvillo, Luigi Balsamo e Alessandro Gicca venivano chiamati a studiare i progetti finanziari da presentarsi alle Camere. Il 7 luglio, erano limitate le funzioni di polizia allapunizione dei reati, e si prometteva di conservare degli antichi impiegati solo quelli, che per la loro morale ed intemerata condotta, non avessero demeritato della pubblica opinione. Il 10 luglio, il Consiglio di Stato aboliva la pena delle legnate.
Cominciò l’ecatombe dei vecchi uomini. Neil’intendenza di Napoli, al principe di Ottaiano succedeva Giovanni Cenni; e vennero messi al ritiro gl’intendenti Mandarini, Sabatelli, Sozi Carafa e Dommarco; il segretario generale della prefettura, Merenda e i commissari di polizia, Maddaloni, Morbillo, De Spagnolis e Campagna. Salvatore Murena era “discaricato„ dall’ufficio di professore di diritto amministrativo nell’Università, e da quello di consultore di Stato; anzi alla Consulta si compiva una vera rivoluzione, poichè nuovi consultori furono nominati Giovanni Vignali, Giuseppe Aurelio Lauria, Luigi Dragonetti e Rodolfo d'Afflitto; mettendosi in riposo, oltre al Murena, il duca di Serracapriola, Roberto Betti, Leopoldo Corsi, Raimondo de Liguoro, Vincenzo de Sangro e Giuseppe de Marco.
Il decreto d’amnistia per i condannati politici, promesso nell’Atto Sovrano, fu pubblicato il 3 luglio: amnistia completa, non a solo beneficio di quelli che erano ancora sotto processo, ma di tutti gli altri, rinchiusi nelle prigioni o esiliati in perpetuo dal Regno. Si pensò subito a soccorrere i detenuti e i deportati poveri e si stabili di dare, a loro beneficio, uno spettacolo al San Carlo. Questo ebbe luogo la sera di sabato, 21 luglio. La compagnia drammatica dei Fiorentini si prestò gratuitamente a recitarvi una commedia. Si eseguirono due balli: il Mulatto e la Margherita Gauthier; furono cantati da Ruggiero Antonioli, Vera Lorini, dal Guicciardi, da Bertolini e da Marco Arati alcuni pezzi dei Foscari, dei Lombardi, dell’Attila e della Favorita; ed i coristi eseguirono il coro dei Lombardi, fra strepitosi applausi. Il teatro, manco a dirlo, era fitto di spettatori. La vendita dei biglietti fruttò oltre a mille ducati, e le offerte volontarie più di cinquecento. Il Re largì duemila ducati, e ottocento i principi, e l’intero prodotto ascese a ducati 4371, 19. Nonostante queste manifestazioni di letizia, la tranquillità pubblica in Napoli e in molte provincie era ogni momento turbata da dimostrazioni ed eccessi di ogni specie. Cresceva il panico nella città. Si ritiravano i depositi dal Banco; si vendeva la rendita, e i cambiavalute non cambiavano più polizze in oro. Il napoleone valeva cinque ducati, cioè quasi una lira e mezza più del suo valore reale. Il cambio dell’argento in oro sali dal 3 all’8%: la rendita scese di parecchi punti.
Quel turbolento entusiasmo, provocato in gran parte dalla guardia cittadina, composta, come si è veduto, di camorristi e di guappi patrioti, e tenuto vivo, per interesse e per bisogno tutto meridionale, di estrinsecarsi, si manifestava in ogni occasione, anche futile, ma soprattutto per il ritorno degli emigrati, più accentuatamente antidinastici. Non passava giorno, che all’Immacolatella non avvenissero scene, che degeneravano in tumulti. All’arrivo di Poerio, di Settembrini, di Pisanelli, di Spaventa, d’Imbriani, di Mariano d'Ayala, di Sandonato, di Conforti, di Mancini e di altri, notissimi, un’onda di popolo correva clamorosamente a festeggiarli; e Ferdinando Mascilli, relegato a Capri, fu al suo arrivo, portato in trionfo addirittura. Il grido di quelle dimostrazioni era sempre: Viva l’Italia e Viva Garibaldi. Un giorno, una dimostrazione guidata dai giovani Alfonso Capitelli e Carmine Senise, rompendo i cordoni della truppa, mosse dallo Spirito Santo per la villa Tommasi, a Capodimonte, dove abitava Villamarina. Il ministro sardo non si lasciò vedere, ma i dimostranti furono lietamente accolti dai segretarii della legazione, e incitati a proseguire. La complicità della legazione sarda al movimento unitario appariva fin troppo palese.
Le provocazioni alla truppa erano continue, essendo essa in sospetto di cospirare contro la libertà. Nelle ore pomeridiane del 15 luglio, i granatieri della guardia reale, provocati, si disse, da una di quelle dimostrazioni, reagirono con violenza, sciabolando parecchia gente al grido di Viva il Re, saccheggiando qualche bottega e destando il terrore nella città. Tra quelli, che patirono violenza, son da ricordare il ministro di Prussia e l’ammiraglio francese Le Barbier du Tinan. I ministri, impauriti dal gran fermento dello spirito pubblico, si dolsero col Re di quanto era avvenuto, credendo anche loro che i granatieri avessero agito per consiglio della setta reazionaria. Don Liborio diceva di aver documenti per provarlo, ma non provò nulla.
Dopo questo incidente, il ministro della guerra Ritucci cedè il posto al generale Giuseppe Salvatore Pianell, o Pianelli, come i borbonici lo chiamavano e seguitarono a chiamarlo per dileggio, sostenendo che il suo vero cognome fosse Pianelli, e che per vanità ne avesse egli soppressa l’ultima lettera. Contemporaneamente usciva dal ministero Federigo del Re, uomo eccellente e colto, ma di nessuna attitudine politica, e gli succedeva Liborio Romano. Un proclama reale dello stesso giorno lodava il contegno dei sudditi, che non si erano abbandonati ad eccessi; ed in esso il Re si augurava, che “la difficile arte del governare ci verrà come spianata e fatta più facile da’ lumi di una stampa saggia e veramente nazionale, e dal concorso di tutti gli uomini di alto senno politico e civile, che sederanno nelle Camere legislative„. Altro, più caldo, fu nello stesso giorno pubblicato per l’esercito e per l’armata, e vi era scritto: “Voi entrerete, lealmente, in questa nobile e gloriosa via, e vi unirete al patto Costituzionale, che ci lega in una sola famiglia; voi sarete cani’ pioni di giustizia, di umanità, di disciplina, d’amor di patria, voi la speranza dei vostri concittadini, sarete saldo sostegno del Trono e delle nuove istituzioni e strumento della grandezza e prosperità nazionale„.
Ma il documento, che, in solennità enfatica e in una stranezza singolare di stile, superò tutti gli altri, fu la circolare diretta, sempre il 16 luglio, dal nuovo ministro Pianell, all’esercito. Concludeva così: “Gli uffiziali generali e di qualunque rango, i sottouffiziali e soldati, abbiano perciò in mente, che Re costituzionale, alleanza italiana, autonomia propria, bandiera italiana, ormai ci riuniscono come in una sola famiglia, onde dimostrare che siam tutti mallevadori delle novelle istituzioni, profittevoli all’universale, e segnatamente a quanti sono o s’incamminano nella gloriosa carriera delle armi„ . Il giorno 20 luglio, Gregorio Morelli era sostituito da Antonio Maria Lanzilli, insigne magistrato, e Raffaele Farina veniva nominato prefetto di polizia.
Ma l’uomo onnipotente in quel difficile periodo era don Liborio Romano. Un esempio di popolarità, così generale e indiscussa, non si trova che nei pochi giorni del potere di Masaniello; ma quelli furono giorni, e la potenza di don Liborio durò, incontestata, circa tre mesi. La camorra, divenuta polizia mercè di lui, lo inneggiava senza tregua; la guardia nazionale, forte, il 17 luglio, di seimila uomini e, due giorni dopo, di circa diecimila, lo chiamava il suo papà. Il Re aveva nominato generale di quella milizia il principe d’Ischitella, già ministro della guerra e marina con Ferdinando II, e che aveva il privilegio, unico nel Regno, e assolutamente eccezionale nell’esercito, di portare tutta la barba. Era vecchio e vanitoso, e affermò nelle sue Memorie di essere stato forzato dal Re a prendere quel comando, perchè il paese aveva fede nelle sue opinioni liberali, mentrechè di questo liberalismo nessuno veramente si era mai accorto! Il capo dello stato maggiore fu il duca di Cajaniello; e i primi dodici capi di battaglioni furono il barone Giuseppe Gallotti, Gaetano Mezzacapo, il barone Pietro Compagna, Giacomo Giannuzzi-Savelli, Luigi Giordano, Giuseppe Gallone, principe di Moliterno, Vincenzo Pignatelli, principe di Strongoli, Niccola de Siervo, Luciano Serra, il barone Federico Bellelli, Francesco Pinelli e Domenico Ferrante. Alcuni non accettarono, e fu tra questi Luigi Giordano, il quale era tanta parte del Comitato dell’Ordine, e che lealmente credette di non poter conciliare il nuovo ufficio con quello di cospiratore indomabile e coraggioso per l’unità nazionale. Gli successe don Paolo Gonfalone. Il giorno 17, uscirono le prime pattuglie, accolte da applausi strepitosi; e, la sera stessa, l’entusiasmo non ebbe freno, quando don Liborio, da due giorni promosso ministro, andò con Ischitella a visitare i quartieri delle diverse sezioni. Il 23 luglio, il comandante in capo e i comandanti dei dodici battaglioni, gli fecero un ampolloso indirizzo, salutandolo liberatore della patria e paragonandolo a Demostene.
Don Liborio era una sfinge. Egli, che si lasciava trascinare, per amore di vanità, dalla corrente, perchè impotente a frenarla, aveva per tutti una parola cortese e un sorrisetto benevolo, che sembrava malizioso e profondo: l’aveva per gli esuli che tornavano; per i prigionieri che uscivano dalle prigioni, quasi tutti suoi vecchi amici, colleghi o clienti: tutti antidinastici, sia che fossero cavurriani, garibaldini o mazziniani. A tutti lasciava intendere ch’egli, nuovo cittadino di Gand, stesse li per conto di Cavour o di Garibaldi. Al Re, ai ministri, ed agli autonomisti diceva poi, ma più faceva dire dagli altri, che egli solo era capace di salvare la dinastia ed il Regno, e di consolidare gli ordini liberi. L’uomo era scettico e vano, avvocato per giunta, e ricco di quella malizietta italo-greca, insinuante e carezzevole, che è propria dei suoi conterranei, noti in Puglia col nome di capustieddi. Patù è nel Capo di Lecce. Veramente don Liborio non fece nulla, ne per affrettare gli avvenimenti, nè per ritardarli, ne per dirigerli a un fine preciso, nè per attenuarne gli effetti, perchè egli non aveva alcun concetto politico e rifuggiva, per temperamento, da ogni violenza o rischiosa responsabilità. Quell’onda popolare, incalzante e turbolenta, se ne lusingava tanto la vanità, in fondo lo lasciava freddo. Era vecchio, e non v’era pericolo che il sangue gli salisse al cervello. Egli si è dipinto da sè nelle sue Memorie e non è colpa di nessuno, se apparisce in quelle pagine mediocrissimo uomo, senza ombra di coscienza politica.
Il terrore aveva invasa la Reggia. La Regina madre se ne andò a Gaeta coi figliuoli e col padre Borrelli, imbarcandosi al Granatello, a bordo della Saetta, comandata dal fido Raffaele Criscuolo. Fuggirono i gesuiti, e parecchi dignitarii di Corte, tra i quali il principe di Bisignano. Il Re era calmo e sorridente, e pareva tranquillo delle sue sorti. Maria Sofia continuava la sua vita di prima, e faceva i suoi bagni e relativo zumbo, nelle acque del porto militare. Alcuni anni dopo, donna Nina Rizzo diceva ai suoi intimi, che la sola a non aver paura, in quei momenti, fu la Regina. La Rizzo ne aveva guadagnato interamente l’animo; e Maria Sofia la colmava di doni, come di doni colmava anche la figliuola maggiore di lei, che spesso si vedeva passeggiare nella Reggia con abiti di lusso, regalatile dalla Regina. Un giorno, fu veduta traversare Toledo in ricchissimo abito bianco da ballo, e tutti si domandavano chi fosse quella ragazza stravagante. Nella Reggia le stranezze della piccola Rizzo, la quale non aveva quindici anni, erano anche maggiori e muovevano il riso: unica nota amena, fra tanta tristezza. Francesco II, il quale non aveva simpatie per la Rizzo, non riusci mai ad ottenere dalla Regina che ne moderasse il contegno.
Note
- ↑ Luigi Antonio Villari, Cenni e ricordi di Giuseppe Ferrigni. — Napoli, tipografia Priore, 1895.