La fine di un Regno/Parte II/Capitolo XI
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CAPITOLO XI
A Palermo si viveva in un’agitazione, che si può immaginare. Memorabili giorni di speranze e di sgomenti! Si diceva che Garibaldi, dopo il fatto d’armi di Calatafimi, si avanzava a grandi marce sopra Palermo e che a lui si era unito Rosolino Pilo, con tutte le squadre. Il Comitato invisibile comunicava notizie e mandava ordini, con cartellini stampati alla macchia. Il più curioso fu quello che avvisava un’altra volta la popolazione di non giuocare al lotto. Gli accattoni dei bastimenti nel porto di Palermo ricusavano di accettare l’elemosina data dai marinai napoletani, col patto di gridare: Viva il Re. Benché fossero in vigore le ordinanze sul disarmo, si dissotterravano tutte quelle armi bianche e da fuoco, che si erano potute celare con mille malizie, ed erano state soprattutto nascoste dalla mafia. Nessuno credette che Garibaldi fosse stato sconfitto a Calatafimi, e che Rosolino Pilo fosse stato ucciso a San Martino, il 21 maggio; si seppe e si diffuse invece rapidamente la notizia, che quasi tutte le squadre, ricomposte dopo il 4 aprile, si erano riunite a Misilmeri, intorno a Garibaldi. Marinuzzi vide Garibaldi la prima volta a Misilmeri e gli narrò i particolari della morte di Pilo. A Misilmeri fu passato a rassegna l’esercito delle squadre, che rappresentava il maggior contingente armato, che la rivoluzione siciliana portava a Garibaldi. Erano giovani villani quasi tutti, armati malamente di pali, di forche, di falci e di coltelli e pochi con vecchi fucili: erano caprari e bovari, giovanetti di campagna, picciuotti, quasi tutti scalzi, e pochi gli elementi civili. Questi villani non chiedevano per battersi che un trunco d’albero o nu petrone, per difendersi la faccia e il petto, ed erano entusiasti di Garibaldi, di quel Garibaldi, marito, secondo essi, di una bella signora che si chiamava Talia, la quale era figlia di un Re valoroso e potente, che si chiamava Vittorio Emanuele, amico della Sicilia e nemico dei napoletani.
La polizia fece in quei giorni i suoi ultimi sforzi. Il 14 maggio, fu arrestato Martino Beltrami Scalia, il quale aveva potuto sfuggire fino allora agli arresti, perchè erano a Palermo due Martini Beltrami, e si era potuto giuocare di equivoci e di astuzie. Questi due Martini Beltrami erano tipi diversi e militavano in due differenti campi politici. L’attuale senatore genero, come si è detto, del barone Pisani e professore di geografia nell’istituto Daita, era stato uno degli elementi più operosi e più indomiti delle cospirazioni liberali in tutti quegli anni. Il 15 aprile Maniscalco ordinò l’arresto di Rocco Ricci Gramitto, cospiratore animoso e figliuolo di Giovanni Gramitto, uno dei quarantatre esclusi dall’amnistia, e che morì in esilio a Malta nel 1850. Maniscalco credeva che il Ricci Gramitto fosse corso a Girgenti, sua patria, dopo la giornata del 4 aprile, e però in data del 15 inviò all’intendente di quella provincia il seguente ordine: si piaccia ordinare che il nominato don Rocco Gramitto di Girgenti sia tratto agli arresti, per essere costui un cospiratore.1 Ma il Gramitto, messo sull’avviso dai suoi amici, dapprima si nascose e poi il 26 aprile lasciò Palermo e, superando con molte astuzie infiniti pericoli, potè riparare in provincia di Girgenti e sfuggire alla polizia. E anche con la fuga potè sottrarsi agli arresti il barone Narciso Cozzo, una delle figure più geniali del movimento rivoluzionario.
Il barone Cozzo prese le armi il 4 aprile e col Ricci Gramitto e il padre Calogero Chiarenza si avviò verso la Gancia. Furono fermati a mezza via dalle preghiere di Francesco Perrone Paladini, che dall’alto di una finestra disse loro di non proseguire, per evitare un sicuro pericolo, poiché la rivoluzione era stata domata alla Gancia, come loro avevano temuto, quando andati alla Fiera vecchia, nelle prime ore di quel giorno, non videro nessuno, e per poco non vennero fatti prigionieri e fucilati. Il Cozzo potè lasciare Palermo e raggiunse Garibaldi al campo di Renne, e con Garibaldi tornò a Palermo il 27 maggio; si battette a Milazzo e morì il 4 ottobre nell’ospedale di Caserta, in seguito a ferita riportata in uno scontro alla Scafa della Formica, sulla riva destra del Volturno. L’ultimo suo duello lo ebbe col cavaliere Camerata, fratello del marchese Limina, perchè in casa Agnetta il Camerata aveva discorso in senso ostile di Francesco Brancaccio, chiuso alla Vicaria per motivi politici. Il Cozzo era amicissimo del Brancaccio.
Qui occorre fermarsi sopra una notizia, che corse a Palermo in quei giorni, e fu registrata in quella Cronaca degli avvenimenti di Sicilia, già ricordata. Fu detto, dunque, che alcuni dei pochi nobili rimasti a Palermo avessero aperta qualche trattativa col generale Lanza per ottenere la Costituzione del 1812, assicurando che così la rivoluzione avrebbe avuto termine, e Garibaldi si sarebbe fatto imbarcare a Trapani; ma si voleva la mediazione dell’ammiraglio inglese Mundy. Il pretore di Palermo si sarebbe presentato a Lanza, latore della proposta, e Lanza avrebbe dichiarato di non poterla accettare, ma che qualora egli volesse sottoporre qualche nota rispettosa al Re, egli l’avrebbe rassegnata al real trono. Il pretore allora, si disse, convocò i decurioni, ma nessuno rispose, e solo gli fu fatto sapere che la rappresentanza municipale si sarebbe riunita quando fosse allontanato Maniscalco, e formata una guardia civica. Il Lanza ne avrebbe informato il Re con un dispaccio del 22 maggio.
Il testo del dispaccio, che avrebbe di certo qualche importanza storica, non è pubblicato; e però non si può controllare l’esattezza della notizia in tutti i suoi particolari: esattezza, alla quale contrasta il fatto che dai registri ufficiali, contenenti i verbali delle sedute del Decurionato, nulla risulta relativamente a pratiche di tal genere; anzi l’ultima seduta del Decurionato ebbe luogo l’8 marzo del 1860, quasi un mese prima dell’insurrezione della Gancia. Vi furono trattati affari amministrativi, e la tornata fu preseduta dal pretore, principe di Galati. V’intervennero i decurioni Lello, Bagnasco, barone Attanasio, D’Anna, barone Vagginelli, Fermaturi, Giovenco, Zerega, marchese Torretta, Gramignani, Lombardo, Bertolini, Martorana, Albengo, Ondes, Del Tignoso, Pasqualino, Arduino, Ardizzone, Bruno, Corvaja, Travali, Scribani, Balsano, Silvestri, Viola e Todaro: ventisette sopra trenta. Io non escludo che possa esservi stata qualche riunione privata di decurioni, ma non ve n’è notizia ufficiale, nè alcuno ricorda il fatto riferito dal Lanza nel suo dispaccio del 22 maggio e registrato nella Cronaca.
Nonostante la forte guarnigione di ventimila uomini, con quaranta pezzi di artiglieria, non compresa la forte colonna mandata ad inseguire Garibaldi nell’interno, Lanza non lasciava di chiedere a Napoli nuovi rinforzi, e il 26, vigilia della Pentecoste, furono mandati a Palermo altri 1200 soldati dei carabinieri esteri. La polizia aveva tolto da alcuni giorni i batacchi alle campane, e la statua caratteristica del vecchio Palermo era stata chiusa nei magazzini dello “Spasimo„. È superfluo ripetere quanto avvenne in quei giorni, e ch’è narrato in numerose pubblicazioni, ma soprattutto con molti particolari dalla Cronaca, la quale di tutte le narrazioni di allora è la più esatta e la più documentata.
L’ingresso di Garibaldi in Palermo, nelle prime ore della domenica 27 maggio, stupì il mondo. Tutta la città insorge; suonano le campane a stormo; “ogni casa, ogni abituro, scrive la Cronaca diviene per gl’insorti una piazza d’armi, per tirare a colpo sicuro sulle regie truppe, mentre queste non possono sparare che contro le mura. Dalle finestre e dai loggiati si fanno cadere sulle truppe stesse, mobili, tavole di marmo e quant’altre masserizie la rabbia rivoluzionaria e il terrore impresso dai capi del movimento, fra gli abitanti può suggerire„. Marra, che comanda gli avamposti a porta di Termini, non riesce a far indietreggiare gli assalitori, che sloggiano il nemico dal caratteristico ponte dell'Ammiraglio, sul quale si combatte animosamente da ambo le parti. Il ponte, costruito al tempo di Ruggiero dall’ammiraglio Giorgio Antiocheno, compagno dell’avventuroso normanno, quando l’Oreto era veramente un fiume, è ampio, a schiena d’asino, e con dieci luci, quasi tutte interrate. Oggi è fuori d’uso, essendosi costruito un altro ponte accanto, in piano, ma è benissimo conservato. Di là scende la strada da Misilmeri e da Gibilrossa, ed è detto anche ponte delle Teste, perchè fino al secolo scorso vi si esponevano in una o più gabbiette di ferro, le teste recise dei condannati. A poca distanza vi è il piccolo e sentimentale cimitero dei giustiziati, testimone dello strano culto che la popolazione di Palermo ha per essi, politici o comuni, poco importa, purché morti per mano di uomo, e creduti perciò purificati col sacrificio della vita. Si va su quelle tombe a interrogarli, e si crede averne le risposte. La fantasia popolare vede di notte le anime dei giustiziati vaganti sulle rive dell’ Greto, dove per vecchia tradizione si va a lavare la lana, che deve servire per il letto degli sposi. Giuseppe Pitrè, il più geniale e profondo illustratore delle tradizioni popolari della Sicilia, ha scritto nel volume quarto della sua Biblioteca, uno studio veramente interessante ed emozionante su questo strano culto, dal titolo: Le anime dei corpi decollati (Armi de li corpi decullati).nota
Il generale Landi, che dopo Calatafimi aveva ottenuto un inesplicabile comando a Palermo, è sloggiato dalla Gran Guardia, e ripiega al largo del Palazzo Reale, dove si vanno concentrando altre truppe. Letizia si batte al rione Ballerò, ed ha qualche successo, scacciandone i rivoltosi e bruciando le barricate; Cataldo, che comanda a porta Macqueda e al giardino inglese, attaccato con veemenza, chiede aiuti a Landi, che gli manda due compagnie, ma riesce a sostenersi per poco, e poi ripiega ingloriosamente al palazzo Reale; è richiamato da Monreale in tutta fretta il generale Bonanno con la sua brigata. Alle sei si ordina al forte di Castellamare di cominciare il bombardamento, e a mezzogiorno ai legni da guerra di fare altrettanto. Il forte lancia bombe, e da Palazzo Reale si tira a mitraglia. Palermo 2 è un inferno, e quella giornata è forse la più memorabile della sua storia.
Si combatte alle porte, nelle vie, nelle piazze; si prendono d’assalto campanili, conventi, palazzi e barricate; per effetto del doppio bombardamento, che non ha tregua, si sviluppa il fuoco in molti punti della città; le milizie regie si battono con accanimento, pari all’accanimento disperato, con cui si battono garibaldini ed insorti. Da una parte e dall’altra si comprende esser quella l’ultima carta del gran giuoco. Cade ucciso il colonnello ungherese Tukery al ponte dell’Ammiraglio; Benedetto Cairoli e Giacinto Carini, feriti gravemente, son creduti morti; gli atti di valore e di temerità non si contano; la pugna è tremenda, perchè si fa a corpo a corpo, nelle vie anguste della città; Garibaldi è pari a sé stesso, e dopo trentasei ore di marcia e di combattimento, non mostra stanchezza. Ha il quartiere generale al palazzo Pretorio, nel cuore della città; con calma non umana provvede a tutto ed è certo della vittoria. Sono intorno a lui Crispi, segretario di Stato, che si occupa di organizzare il nuovo governo; Sirtori, Nullo, Manin, Dezza e Missori, che vanno e vengono, portando notizie e ordini. Al palazzo Reale sta il luogotenente immobile e imbarazzato, e con lui sta Maniscalco. Sulla piazza egli ha concentrate molte truppe, delle quali non sa che farsi. Gli avamposti occupano l’arcivescovato, e di là al palazzo Pretorio la distanza è poca cosa. Le notizie, che pervengono al Lanza, non sono liete, perchè nonostante la resistenza delle truppe e il bombardamento non interrotto, la rivoluzione non si dà per vinta, ma egli si mostra indifferente. Alle quattro, Cataldo ripiegando al palazzo Reale lascia sguarnita l’importante posizione dei Quattroventi, e con essa rimangono sguarnite le prigioni. Sbuca da queste una vera fiumana di malfattori, circa duemila, che vanno a rinforzare gl’insorti, dopo essersi impadroniti di quattro cannoni, abbandonati dalle truppe. La ritirata dai Quattroventi segna il primo disastro dei regi in Palermo. La sera di quel giorno, tutta la parte bassa della città è in balìa degl’insorti, tranne il palazzo delle finanze e il forte di Castellamare.
Lanza non sente il bisogno di tentare personalmente qualche cosa, e solo invia corrieri in varie direzioni per richiamare la colonna Von-Mechel, uscita il 21 ad incontrare Garibaldi, e rivela abbastanza sangue freddo in quell’immenso pandemonio del suo stato maggiore. La colonna Von-Mechel era formata da eccellenti truppe, e il comandante era buon militare, più ricco di coraggio che di talento, più di ostinazione che di risoluzione. Egli non riuscì a persuadersi dell’inganno, in cui lo trasse Garibaldi al Parco, quando gli fece credere che, per la via di Corleone, s’internava nell’Isola, abbandonando le artiglierie. Von-Mechel se ne persuase solo quando ebbe dal generale in capo l’ordine di rientrare a Palermo, invasa da Garibaldi. Si disse che il maggiore Bosco, il quale comandava un battaglione di quella colonna, accortosi dell’inganno, consigliasse Von-Mechel a tornare indietro, mettendo Garibaldi fra due fuochi, e sbaragliando la rivoluzione nel piano della Guadagna, ma che il comandante, tenace come tutti quelli della sua razza, (era svizzero) non gli desse retta. Questo giovane maggiore Bosco, che figurò in Sicilia, a Gaeta e poi a Roma come il bollente Achille dell’esercito napoletano e del legittimismo, e da maggiore divenne in pochi mesi colonnello e generale, era pieno di valore, ma in lui la vanità oscurava il valore, perchè non sapeva affermarlo che teatralmente, come se fuori gli occhi del mondo, non vi fossero stimoli o rischi per lui. Era un bel giovane e anche, si diceva, à bonne fortune, benchè i malevoli sussurrassero che egli non potesse giovarsi molto di questa fortuna. Si rese comicamente celebre mandando a sfidare Garibaldi, e proponendogli di metter fine così alla guerra, ma è certo che fece il suo dovere e il suo nome va ricordato e onorato. Se una metà degli ufficiali borbonici avesse fatto il proprio dovere, sia pure teatralmente come il Bosco, la fortuna delle armi regie in Sicilia sarebbe stata diversa. Dunque Von-Mechel non volle sentire il consiglio di Bosco, nè prima, nè poi e non tornò a Palermo, che chiamatovi dal Lanza, all’alba del 30 maggio, tre giorni dopo che Garibaldi vi era entrato. Sulle ore tarde della notte andò via via scemando il fuoco, ma tutto lasciava credere che sarebbe stato ripreso l’indomani. Lanza fece interrogare la sera del 27 l’ammiraglio inglese per mezzo del comandante Chretien, se volesse ricevere a bordo due generali incaricati di trattare un breve armistizio per seppellire i morti e curare i feriti. Mundy risponde affermativamente, a condizione che i due generali trattino con Garibaldi. Lanza replica che con Garibaldi non vuol trattare, e all’alba del 28 son riprese le ostilità, ma meno intensamente. Si conservano le posizioni; il forte di Castellamare fulmina a intervalli, e con esso alcuni legni della squadra e particolarmente la fregata Ercole, comandata dal Flores, che imboccando via Toledo, tira granate, le quali producono più spavento che danno. Gli altri sono occupati ad agevolare lo sbarco dei due battaglioni di carabinieri esteri, mandati da Napoli, al comando del maggiore Migy. Arrivati il giorno innanzi, non erano potuti sbarcare, a causa del combattimento, che ferveva su tutta la linea. La mattina del 28 giunge da Napoli il colonnello Buonopane, sottocapo dello stato maggiore dell’esercito, con medici, chirurgi, impiegati d’ospedali, materassi e medicinali per curare i feriti. Sono i primi aiuti che invia Napoli; gli altri, in maggior quantità, arrivano il di seguente, a bordo del Mongibello. Buonopane rimane nel forte di Castellamare, dove rimangono pure i due battaglioni esteri, che solo la sera del 29, a baionetta calata e per vie recondite, possono arrivare al palazzo Reale. Il comandante Migy consegna al generale Lanza i plichi d’istruzioni, portati dal colonnello Buonopane.
Benchè si combatta da una parte e dall’altra con meno intensità del giorno innanzi, ma con pari tenacia, la fortuna delle armi comincia ad arridere agl’insorti, i quali riescono a impossessarsi dell’ospedale militare, per viltà del comandante e tradimento del cappellano. La truppa coi malati trova rifugio nel forte di Castellamare. Quel magnifico ospedale fu di grande aiuto ai feriti garibaldini e Garibaldi se ne mostrò singolarmente lieto e non disperò più della vittoria finale. Potè riposare poche ore nella notte dal 27 al 28, in una camera del palazzo Pretorio, dopo aver dettato un enfatico ordine del giorno al popolo di Palermo e dopo aver dichiarato sciolto il municipio, e nominato pretore il duca della Verdura e senatori il principe di San Cataldo, il barone Casimiro Lo Piccolo, Federigo Conte, Vincenzo Favara, Salvatore CacCamo, Giovanni Costantino, Gaspare Lojacono, Ercole Fileti, Francesco Ugdulena, Salvatore Cusa, Paolo Amari e Francesco de Cordova.
Questi dodici senatori avevano l’incarico di provvedere al ristabilimento del Decurionato, che Garibaldi chiamò “Consiglio Civico„. Il decreto porta la firma del segretario di Stato, Francesco Crispi. Fu il primo atto di autorità dittatoriale compiuto da Garibaldi, comandante in capo le forze nazionali. Il titolo di Dittatore lo assunse qualche giorno dopo.
Il giorno 29 fu disastroso per i regi nelle prime ore. Alle undici, dopo breve combattimento, abbandonano le posizioni dei Benedettini, dell’Annunziata e del bastione di Montalto; alle due gl’insorti occupano il campanile della cattedrale, ad un tiro di fucile dalla spianata del palazzo Reale, dov’è accampato il grosso delle truppe; tirano dall’alto e ammazzano molti soldati, soprattutto artiglieri. Lanza ordina al generale Colonna di riprendere le prime tre posizioni e al generale Sury di scacciare gl’insorti dalla cattedrale; si combatte con accanimento dalle due parti, e ai generali suddetti riesce di riprendere le posizioni. Sono molti i morti, moltissimi i feriti; i regi non hanno più l’ospedale, e per le comunicazioni interrotte non possono ricevere i soccorsi giunti da Napoli. In quel giorno soltanto i soldati feriti salirono a 356. Lanza fa ripetere le proposte all’ammiraglio Mundy di una breve tregua, mentre Garibaldi, non certo perduto d’animo per gli avvenimenti della giornata, decreta la formazione della guardia nazionale; apre una sottoscrizione per provvedere ai bisogni della guerra; stabilisce la pena di morte contro i rei di furto e di saccheggio; vieta di percorrere le strade a mano armata senza essere sotto la direzione di un capo; istituisce un comitato per gli arruolamenti e proibisce di perseguitare gl’impiegati dell’antica polizia. Questi suoi decreti rivelano il bisogno di aver uomini, armi e danaro e di mettere un argine alle violenze di quei malandrini usciti dalle prigioni il 27, che si abbandonano al furto e al saccheggio e accrescono la confusione e il terrore. Oramai si combatte da tre giorni; le provviste sono esaurite da parte degl’insorti; non vi sono più armi; manca il danaro; abbondano i feriti, e gli aiuti promessi dall’interno dell’Isola non arrivano. La giornata del 29 si chiude più tragicamente. Il forte di Castellamare ricomincia il fuoco, e un terribile incendio manifestatosi presso la chiesa di San Domenico, accresce lo spavento nella città, mentre brucia il palazzo Carini, il convento del Cancelliere minaccia rovina, e quello di Santa Caterina, presso il palazzo Pretorio, è in preda alle fiamme.
L’ammiraglio inglese, interrogato dal comandante Chretien, aveva risposto che il Lanza si rivolgesse direttamente a Garibaldi per un breve armistizio. E il Lanza, vincendo le sue incertezze e forse i suoi scrupoli, scrisse a Garibaldi nelle prime ore del giorno 30, chiedendogli una “breve sospensione d’armi, da trattarsi sul legno inglese dai generali Letizia e Chretien, onde sotterrare i morti e imbarcare i feriti„. Al Dittatore non parve vera quella richiesta, e si affrettò a rispondere al generale napoletano, che accettava la tregua, e annunziando di aver dato gli ordini apportuni per far cessare il fuoco su tutta la linea.
Quell’armistizio fu la provvidenza della rivoluzione, la quale correva tutte le probabilità di essere sepolta nella città di Palermo, essendo in vista dalle prime ore della mattina del 80 la colonna Von-Mechel, composta di quelle tali truppe vogliose di battersi, con comandanti giovani e di valore. Si avanzava a rapida marcia, cercando di pigliar posizione dalla Flora a porta Sant’Antonino. Fu rimproverato al Von-Mechel di non aver avvisato in tempo il generale in capo delParrivo; altri disse che il Lanza lo sapeva dal giorno innanzi; certo è che la sorte della rivoluzione fu decisa in quella memorabile mattina del 30 maggio; imperocché la colonna Von-Mechel non incontrò alcuna resistenza entrando nella città; sbaragliò gl’insorti a porta di Termini; prese di assalto otto barricate e s’impossessò della Fiera vecchia, che era il centro della rivoluzione. Dalla Fieravecchia al palazzo Pretorio, dov’era Garibaldi col quartiere generale, la distanza è poca cosa. Furono momenti di trepidazione nello stato maggiore di Garibaldi e si credette persino che Lanza avesse tradito, proponendo l’armistizio; ma non era vero, poiché alle 10 1/2 due capitani di stato maggiore, Bellucci e Nicoletti, furore mandati dal Lanza ad ordinare a Von-Mechel di arrestarsi e sospendere le ostilità, poiché si era in armistizio. Il quale fu concluso alle due, a bordo dell’Hannibal, fra Garibaldi e il maggior Cenni, da una parte, e i generali Letizia e Chretien, dall’altra; armistizio, o meglio tregua, che gli scrittori borbonici, soprattutto il cappellano militare Buttà, chiamarono il suggello del tradimento di Lanza.3
Nella rada di Palermo erano, oltre alla squadra inglese sotto il comando dell’ammiraglio Mundy e formata da tre bastimenti, una squadra francese con tre navi; una squadra austriaca, con due; un legno della flotta sarda, il Governolo, comandato dal marchese d’Aste; una fregata spagnola, una americana e nove legni della flotta napoletana. Vi erano inoltre circa cento legni mercantili, sui quali si erano rifugiate molte famiglie. La flotta napoletana ancorava più prossima alla città, fra le prigioni e il quartiere dei Quattro Venti, e fu da quel punto che bombardò Palermo nei giorni 27 e 28, dirigendo i suoi tiri a palazzo Pretorio, ma così malamente, che molte palle e granate andarono a cadere sulla spianata del Palazzo Reale, dove ammazzarono parecchi soldati sul monastero di Santa Caterina, prossimo al palazzo municipale; e su quello del Cancelliere, dopo i Quattro Canti.
Le squadre estere furono mute spettatrici di quell’eccidio. Delle regie truppe morirono soli quattro ufficiali, 204 fra sottufficiali e soldati, e circa 600 furono i feriti. Fu notata la sproporzione enorme nel numero dei morti e dei feriti tra ufficiali e soldati: circostanza, la quale provocò più tardi da Garibaldi l’arguta osservazione, ch’egli aveva combattuto in Sicilia un esercito senza generali, e sarebbe andato poi a combattere un generale senza soldati, accennando al Lamoricière. Il solo comandante, che dimostrò un certo interesse a far cessare quella carneficina, con manifeste simpatie per gl’insorti, fu l’ammiraglio Mundy. L’occupazione di Palermo giunse a Napoli come un colpo di fulmine; il Giornale Ufficiale tentò attenuarla, dicendo che Garibaldi era entrato a Palermo per disperazione, dopo le sconfitte subite al Parco, a Piana de’ Greci e a Corleone; ma che la colonna, la quale aveva vinto a Corleone, “corse subito a Palermo, e per la porta di Termini, una di quelle per cui il Garibaldi era entrato, forzatala e riconquistatala, entrò in città ed occupò parte delle posizioni due giorni prima prese dalla gente del ridetto Garibaldi, entrato per la porta medesima. Forti perdite hanno a deplorarsi per parte delle Reali truppe, al cui immenso valore ha reso luminoso omaggio lo stesso nemico, ma tali perdite sono di gran lunga minori di quelle patite dalle bande„.
La prima notizia dell’ingresso di Garibaldi a Palermo fu portata in Napoli dall’avviso l’Amalfi, partito da Palermo alle dieci della mattina del 27, mentre infuriava il bombardamento. Lanza scrisse due parole, annunciando die Garibaldi era entrato nelle prime ore della mattina, ma che ne sarebbe scacciato subito. Passarono ventiquattr’ore e non si seppe altro. Il Re impaziente venne da Portici la mattina del 29, e ne ripartì subito. Le notizie ufficiali si conobbero la mattina del 29 da una lettera del console inglese di Palermo ad Elliot, lettera portata da un vapore da guerra austriaco, proveniente da colà. Confermava l’entrata di Garibaldi e annunziava il primo armistizio. Il giorno 30, i consoli di Francia, di Spagna, d’Austria e Russia ebbero identici rapporti dai loro colleghi con maggiori particolari, e li comunicarono a Carafa. Nel rapporto inviato a Bermudez, si affermava che Salzano e lo stato maggiore fossero prigionieri. Le notizie produssero a Napoli un’impressione indimenticabile, e la sera del 29 vi fu una piccola dimostrazione, con grida di Viva la Sicilia, Viva Garibaldi. Venne dispersa dalla polizia.
La notizia dell’entrata di Garibaldi a Palermo sbalordì e commosse tutta l’Italia e l’Europa liberale. Non si pensò che a rafforzare la rivoluzione. Mentre Agostino Bertani raccoglieva denari e armi a Genova, gli emigrati napoletani e siciliani che erano a Torino, escogitarono un mezzo anche più eroico, proponendo a Medici e a La Farina di mandare in Inghilterra Agostino Plutino, con l’incarico di provvedere di vapori la rivoluzione. Mancavano si i danari, ma non si arrestarono a tale difficoltà; anzi, conferendo al Plutino l’incarico dell’acquisto, posero esplicitamente a carico del governo da costituirsi in Sicilia, il debito non lieve che si andava a contrarre. Si era perduta ogni misura nel valutare le difficoltà, e n’è prova questo caratteristico documento, che io pubblico integralmente: è il mandato che Medici e La Farina e alcuni dei più autorevoli emigrati dettero al loro amico, in data di Torino, 29 maggio:
Il signor Agostino Plutino è incaricato di recarsi in Inghilterra, colà provvedere in soccorso della Rivoluzione siciliana, all’acquisto di battelli a vapore a grande velocità e a poca immersione, che verranno posti a disposizione di chi avrà assunto la direzione militare di nuove spedizioni. Il sottoscritto s’interesserà di fare approvare dal Governo, che sarà costituito in Sicilia, qualunque stipulazione fosse per essere convenuta a riguardo di detti vapori dal signor Agostino Plutino.
Firmato: G. Medici.
Confermo quanto ha scritto disopra il colonnello Medici, e prometto di aiutare l’impresa con i mezzi, che fornirà la sottoscrizione in favore della Sicilia aperta dalla Società Nazionale Italiana.
Il signor Plutino è incaricato pure di trattare in Francia e ovunque volesse
Il Fresidente (firmato) La Farina.
E più innanzi, sempre sullo stesso foglio:
Il latore della presente è il signor Agostino Fiutino, già colonnello della guardia nazionale di Reggio di Calabria e fratello dell’ex-deputato Antonino Fiutino, che è partito per Sicilia con la spedizione del generale Garibaldi.
Noi qui sottoscritti e già deputati al Farlamento e cittadini di quelle Provincie conferiamo con la presente al sullodato nostro egregio concittadino Agostino Fiutino, pieno mandato con le più ampie facoltà, affinchè promuova la raccolta di tutti i mezzi necessari per sostenere e diffondere il moto nazionale nelle Due Sicilie impegnando la nostra parola di far ratificare il suo operato, e qualunque contratto egli sarà per conchiudere con case inglesi, non appena sarà costituito un Governo nazionale.
Torino, 5 giugno 1860.
Firmati: Carlo Poerio, già deputato al Parlamento di Napoli — Duca di Caballino, Sigismondo Castromediano — Pietro Leopardi, già deputato al Parl. Nap., e inviato straordinario e ministro plenipotenziario presso la Real Corte di Sardegna — Giuseppe Pisanelli, già deputato al Parl. Nap. — Antonio Ciccone, id. id. — Raffaele Conforti, id. id. — Giuseppe Tripepi, nominato nel 1848 Commissario del potere esecutivo nella provincia di Reggio — Cav. Raffaele Piria.4
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E in data 1° giugno, Salvatore Tommasi presentava e raccomandava il Plutino ad Antonio Panizzi, perchè lo coadiuvasse nell’impresa.5
Il 30 maggio, alle 10 1/2 del mattino, fu tenuto un grande Consiglio di stato e di famiglia, al quale intervennero i conti d’Aquila, di Trapani e di Trani, e Filangieri, Troja e Giuseppe Ludolf, ministri di Stato. Filangieri fu mandato a chiamare alle 11 1/2. Appena giunto, Francesco II lo invitò a parlare. Filangieri disse, che, anche in quei momenti, così paurosi e gravi, era costretto a ripetere quanto espose altre volte, che cioè la politica napoletana doveva trasformarsi, abbandonando l’Austria e seguendo la Francia; che tale trasformazione avrebbe dovuto compiersi fin dal giorno che il Piemonte e la Francia vinsero a Magenta e a Solferino, e fin d’allora concedere una Costituzione imperiale, e di accordo col Piemonte e con Napoleone, occupare le Marche, per togliere al Piemonte l’occasione d’invaderle, dal momento che il Papa aveva raccolti a sua difesa i legittimisti di tutta Europa, e datone il comando al generale Lamoricière. “Ma le mie convinzioni, soggiunse, non convinsero il Re, e n’ebbi gran dolore, perchè presentii le sventure che ora ci sovrastano. Mi son permesso già da tempo di sottomettere al Re la mia opinione, cioè che in Sicilia non si compie un’insurrezione, ma tutta una rivoluzione, e le rivoluzioni non si combattono col cannone, ma si cerca conquistarle moralmente„.6
Propose di mandare a Parigi persona adatta per trattare con l’Imperatore, e ottenerne le necessarie guarentigie per l’integrità del Regno, o almeno delle provincie continentali. Il generale Carrascosa lealmente gli disse: “Se l’Eccellenza Vostra fosse partita il 4 aprile per la Sicilia, la causa del Re sarebbe trionfata nell’Isola„. Filangieri gli rispose: “V’ingannate, generale. Quando io abbandonai il 30 settembre 1854 la Sicilia, portai meco la convinzione, che il sistema di governo, che si voleva imporre da Cassisi a quel paese, l’avrebbe fatto presto o tardi perdere alla Monarchia napoletana„.7
Il conte d’Aquila aderì con grande disinvoltura a Filangieri, dichiarando che Brenier gli aveva detto più volte, che se il Re avesse dato uno Statuto a tipo imperiale, la Francia avrebbe garantita l’integrità della Monarchia. Vi aderì anche il vecchio Cassare, presidente del Consiglio e vi aderirono Carafa e Comitini, però dichiarando non credere opportuno mandare persona a Parigi: potersi trattare direttamente con Brenier. Il Re incaricò Carafa di convocare i ministri esteri per assodare la circostanza riferita dal conte d’Aquila.
Sulla proposta di un mutamento radicale nella politica interna ed estera, lunga e vivacissima fu la discussione. Chi era per la resistenza ad ogni costo; ohi si contorceva come il conte di Trapani; chi si teneva la testa fra le mani e non diceva verbo, come il conte di Trani; chi, invece, diceva delle bestialità come Ajossa. Il Re non sembrava molto preoccupato; anzi fu in quel Consiglio, che rivelò le sue tendenze fatalistiche quando disse: “Don Peppino — così egli chiamava Garibaldi — ha le mani nette, ma egli è un sipario; dietro di lui stanno le potenze occidentali e il Piemonte che hanno decretata la fine della dinastia„. Venuti ai voti sulla proposta Filangieri, votarono a favore il conte d’Aquila, il principe di Cassaro, Winspeare, Gamboa, Scorza, il principe di Comitini, il conte Ludolf, ed egli stesso, Filangieri, coi direttori Rosica, Ajossa e Carafa; la respinsero Troja e Carrascosa, tenaci sino all’ultimo; si astennero, cioè non risposero nè si, nè no, il conte di Trani, il conte di Trapani e il direttore De Liguoro. Filangieri comunicò i punti essenziali del suo Statuto, proponendo che l’inviato straordinario ne informasse minutamente Napoleone. Un altro congresso seguì, un’ora dopo, ma fu tutto diplomatico. Si riunirono alla Reggia, invitati da Carafa, i ministri esteri, che erano quelli di Francia, d’Inghilterra, di Sardegna, di Spagna, di Russia, d’Austria, di Prussia, degli Stati Uniti e il nunzio pontificio. Carafa espose il motivo della riunione, e Brenier fece dichiarazioni più restrittive: concesso lo Statuto, egli sperava che l’Imperatore avrebbe dato delle guarantigie; Elliot disse di non avere istruzioni e doverne riferire al suo governo; gli altri opina rono che i rispettivi governi avrebbero garantita l’integrità della Monarchia, e questa dichiarazione, o meglio opinamento dei ministri, parve senza consistenza, non avendo alcun potere per farla.
Il giorno seguente vi fu nuovo Consiglio di Stato; Carafa riferì l’esito della riunione dei ministri esteri, ma nulla d’importante vi fu deciso.
Un vapore francese, giunto alle cinque di quel giorno, portò le notizie più recenti di Palermo, confermando il primo armistizio. Il bombardamento era cessato; aveva distrutto sessantaquattro case e parecchi edifìzii, e uccisa molta gente in città. Rotta ogni comunicazione col mare, erano concentrati attorno a Palazzo Reale da dieci a dodicimila uomini. La situazione non pareva disperata, ma del Lanza non si avevano nuove dirette, e il telegrafo fra l’Isola e il continente seguitava ad essere interrotto. Le notizie produssero molta agitazione; pattuglie di guardie di polizia e di cavalleria erano schierate a Toledo, a Chiaja e a Santa Lucia.
I liberali ripetevano una frase di Garibaldi: fra quindici giorni a rivederci a Napoli. Questa frase era stata ripetuta anche in Corte, e Nunziante, cominciando in quel giorno a liberaleggiare, diceva che il Re dovesse fare delle concessioni; che il maledetto vapore austriaco era stato l’uccello del malaugurio, e l’Austria, come sempre, la rovina di Napoli!
Il 1° giugno, vi fu nuovo Consiglio di Stato per decidere se si dovesse proporre al Re la concessione dello Statuto. Troja, Carrascosa, Scorza e Ajossa si mostrarono più che mai avversi. Fu riferito che Brenier avesse detto dovere prima il Re dare la Costituzione, e poi egli scriverebbe a Walewski per chiedere la promessa e desiderata guarentigia. Venne deciso di affidare a Filangieri, Gamboa e Carafa l’incarico di formulare un progetto di Costituzione, il quale fosse un mezzo termine tra quello proposto l’anno innanzi da Filangieri, la Costituzione bozzelliana del 1848 e la sarda. Dopo il Consiglio, il Re si trattenne a parlare coi principi reali, con Filangieri e Carafa, delle cose di Sicilia. Erano arrivati quella mattina da Palermo il generale Letizia e il colonnello Buonopane, inviati da Lanza, e avevano riferito al Re tutto ciò che vi era accaduto, dal 27 al 30 maggio, descrivendo con colori molto oscuri lo stato dell’esercito e le condizioni di Palermo e concludendo che, allo stato delle cose, non vi era altro da fare che ritirarsi. Il principe di Satriano espose al Re tutto un piano per la ritirata, consigliando il concentramento delle truppe ai Quattro Venti, come il punto più adatto anche per un eventuale imbarco di queste. Il piano fu approvato dal Re, che ordinò di far ripartire il giorno stesso Letizia e Buonopane, con la Saetta. Ma, nella notte seguente, Filangieri venne chiamato in gran fretta a Portici, e vi trovò col Re, Nunziante e Latour. Il Re gli disse che Letizia e Buonopane non erano ancora partiti, perchè Nunziante e Latour, due di quelli, che Filangieri chiamava per ironia gli strateghi, consigliavano un altro piano, e questo era di far muovere le truppe per la pianura della Guadagna, in prossimità del mare, verso sant’Erasmo; di formare in quel punto un campo trincerato; di tenere il forte di Castellamare e la batteria del molo, perchè al momento opportuno si potesse ricominciare il bombardamento della città. Filangieri disapprovò vivacemente questo piano; disse pericolosa, anche perchè malsana, la pianura della Guadagna: solo luogo di concentramento per una ritirata essere i Quattro Venti. E poiché Nunziante faceva delle osservazioni, Filangieri lo invitò bruscamente ad andare lui ad eseguire quel piano, di cui si rivelava l’autore. Nunziante confessò di essersi ingannato, e aderì al giudizio di Filangieri, il quale, a proposito del bombardamento, osservò che l’insurrezione non era più domabile col cannone, e scongiurò il Re a non dare questi ordini, i quali avrebbero risollevate contro di lui le ire dell’Europa liberale. Il Re parve persuaso. Uscendo dalla sala del Consiglio, Latour disse ad alcuni, che erano in anticamera: “Filangieri ha avuto due torti: nel 1848 di non aver rasa Palermo, ed ora di non volerla far bombardare per salvare il suo maggiorasco„. Alle cinque della mattina ripartì la Saetta per Palermo, con istruzioni esplicite date a Letizia e a Buonopane, di far eseguire la ritirata ai Quattro Venti, e niuna istruzione esplicita circa il bombardamento.nota
Il giorno 4, Letizia e Buonopane tornarono di nuovo a Napoli, a bordo dello stesso legno. Vennero a chiedere altre istruzioni, poiché Garibaldi, protetto dalla flotta inglese, imponeva una regolare capitolazione, collo sgombero di Palermo da parto delle truppe regie. Letizia si lodava molto dei modi e delle forme di Garibaldi, e il Re lo ascoltava con curiosità e quasi con compiacenza! Disse anche che gli ufficiali napoletani, passati a Garibaldi, erano soli dodici, e tra essi, due capitani. Ripartirono il giorno stesso, con istruzioni che le truppe uscirebbero da Palermo con tutti gli onori militari, imbarcandosi con equipaggi, bagagli e materiali da guerra, ai Quattro Venti per Napoli: convenzione, la quale poi venne sottoscritta il 6 giugno da Garibaldi, Letizia e Buonopane. Il Lanza non vi ebbe parte, e se ne chiamò irresponsabile.
Gli avvenimenti incalzavano. Nella notte dal 4 al 6 giugno, Brenier ebbe una lunga conversazione col Re, la quale si pro- trasse sino alle 2 1/2 della mattina. Si parlò delle cose di Sicilia e del progetto di Costituzione, e degli studii che vi faceva la commissione incaricata di redigerlo. Brenier andò a trovare Gamboa, e questi gli disse essere divenuto necessario modificare parecchie disposizioni del progetto Filangieri in senso più liberale, 8 cercando di conciliare quel progetto con lo statuto piemontese, e con quello di Napoli del 1848; ma che il Re era ancora incerto circa l’opportunità di concederlo. Brenier confermò a Gamboa le sue dichiarazioni, non nascondendo che uno statuto di tipo non imperiale, concesso in quelle condizioni del Regno e di tutta Italia e accompagnato dall’amnistia, avrebbe potuto produrre gravi conseguenze, ma che il non darne alcuno sarebbe maggior pericolo.
Il giorno 6, era giunto Giacomo De Martino da Roma. Vide subito il Re, presente Carafa, e gli disse che il non aver voluto sentire i consigli della Francia e di Filangieri l’avevano condotto al punto in cui si trovava; che egli, un mese prima, quando venne a Napoli, era latore dei voleri della Francia, accettati da Cavour. La Francia, avrebbe detto De Martino, chiedeva riforme politiche e amministrative; voleva che il Re di Napoli occupasse le Marche e l’Umbria come armata italiana e nazionale, e non come birri del Papa, e in ricambio gli avrebbe garantita l’integrità dei suoi Stati; il Re, rifiutando, aveva sacrificato tutto ad una falsa politica austro-papale: ora essere troppo tardi, anche perchè il Papa era divenuto il più forte istrumento del partito legittimista in Francia, per cui dubitava dell’efficacia e sincerità di aiuti da parte dell’Imperatore: ad ogni modo si dichiarava pronto a partire. Cosi egli riferì di aver parlato al Re, ma è da credere, conoscendo l’uomo, che il suo linguaggio fosse stato meno esplicito e soprattutto men duro.
I borbonici più incorreggibili, i quali non ebbero mai per Filangieri alcun sentimento di benevolenza e neppure di giustizia, e non lo lasciarono immune da sospetti oltraggiosi e da inique calunnie, dissero e scrissero che il principe di Satriano aveva contribuito più di tutti a far perdere la Sicilia, perchè egli, salito al governo col nuovo Re, aveva come primo atto licenziato Cassisi, sostituendolo con Paolo Cumbo, sostituito alla sua volta, quando Filangieri si fu dimesso, dal principe di Comitini; perchè si era rifiutato di tornare nell’Isola coi pieni poteri, e perchè, infine, aveva proposto, in sua vece, il vecchio e incapace Lanza. Il rifiuto di andare in Sicilia era giustificato dal fatto, che il Filangieri si sentiva vecchio, con la moglie inferma e intendeva quanto i tempi fossero mutati. L’aver suggerito il Lanza, dopo il rifiuto d’Ischitella e di Nunziante, potrebbe parere inesplicabile a chi ignora quanto misera fosse la condizione militare del Regno: tutti generali vecchioni, che non valevano più di Lanza, e in Sicilia occorreva mandare un vecchio generale, preferibilmente siciliano. Il Filangieri, che lo aveva avuto per suo capo di stato maggiore nella spedizione di Sicilia, portava di lui opinione un po’ diversa, e riconosceva che l’arrivo del Lanza a Palermo era stato in coincidenza con la vittoria di Garibaldi a Calatafimi, la quale distrusse quel po’ di morale rimasto nell’esercito. Rideva anche lui, Filangieri, di alcune ingenuità del Lanza, il quale, giunto a Palermo, proprio l’indomani di Calatafimi, chiedeva con interesse a Domenico Gallotti, che gli dava la consegna del palazzo Reale, se le carrozze e i cavalli, che erano nelle scuderie, gli appartenevano; e avutone in risposta che gli appartenevano come luogotenente, incaricava lo stesso Gallotti di telegrafare ai figli a Napoli che vendessero i cavalli e le carrozze di casa.
Il principe di Satriano che portava a Francesco II sincero affetto, tornò a visitarlo, il giorno 16; ma il Re non gli parlò di politica e il vecchio generale riparti per quella stessa villa De Luca, a Pozzopiano, odiato dagli zelanti e dagli strateghi, intimi, ascoltati e funesti consiglieri di Francesco; ma non volendo prender partito coi liberali antidinastici, perchè egli era dinastico e voleva l’autonomia del Regno, ma di potente e civil Regno, con una Costituzione, la quale limitasse sì alcuni poteri del principe, ma rendesse i ministri responsabili solo verso di lui.
Pochi giorni dopo il suo ritiro a Pozzopiano, avvenne un altro incidente. In un pomeriggio di giugno, mentre, disteso sopra una poltrona, il principe di Satriano leggeva il suo favorito Journal des Débats, un servo gli annunziò che una lancia a vapore della regia marina si accostava alla villa, e che nella lancia aveva veduto il Re. Filangieri si ritirò nella sua camera. Francesco II si trattenne con lui più di un’ora, in colloquio segreto. Quando il Re andò via, Gaetano Filangieri corse dal padre, e lo interrogò sul colloquio. Ma il vecchio rispose: “J’ai réfusè„ e non disse altro, nè altro si seppe di quella visita. Lasciò Napoli il giorno 11 agosto, diretto, con la moglie inferraa, per Marsiglia. Da circa due mesi non aveva più veduto il Re. Lasciava Napoli con la convinzione, che non vi era più scampo per i Borboni, e vi tornò nel 1862, poche ore prima che vi morisse sua moglie, nè da Napoli si mosse più. Rifiutò uffici ed onori dal nuovo governo, ma non rimpiangendo i Borboni, che egli credeva essere stati artefici ciechi della propria rovina. Si spense nel 1867 a San Giorgio a Cremano, a ottantatre anni, non di vecchiaia, come si disse, ma di una polmonite che contrasse, volendo rendere un favore a un suo congiunto. La condotta di questo valoroso vecchio soldato, che ebbe di certo dei difetti, ma che fu l’unica testa politica, che abbia avuto il Regno di Napoli nell’ultimo secolo, mutati i tempi, fu ancora più nobile. Egli non imitò tanti altri, i quali, dopo avere sfruttati i Borboni sino all’ultimo, si affrettarono a passare, armi e bagaglio, nel campo nemico, rinnegando la vecchia bandiera, o abbandonarono l’inesperto Re al suo fato. Certo, se Carlo Filangieri ebbe grandi soddisfazioni nella vita, sofferse pure grandi e profonde amarezze, per le calunnie, alle quali lo fecero segno le leggerezze, le invidie e le malignità dei suoi concittadini. Onde non è maraviglia se nelle sue carte, io leggessi, scritte di suo pugno, come monito al figlio Gaetano, queste terribili parole: “. . . . credimi, per chiunque ha un po’ d’onore e un po’ di sangue nelle vene, è una gran calamità molte volte nascere napoletano....„.9
Note
- ↑ Archiivio Ricci Gramitto. — Il Ricci Gramitto è ora consigliere delegato nella prefettura di Roma.
- ↑ Giuseppe Pitrè, Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane.
- ↑ Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, memorie della rivoluzione siciliana dal 1860 al 1861. — Napoli, De Angelis, 1882.
- ↑ Archivio Plutino.
- ↑ Id. id.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Id. id.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Archivio Filangieri.