La fine di un Regno/Parte II/Capitolo V
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CAPITOLO V
La vita del Regno si concentrava in Napoli per le provincie continentali; in Palermo, Messina e Catania per la Sicilia; quella delle provincie era di una maravigliosa monotonia. Assenza quasi assoluta di bisogni morali, e limitati i materiali al puro necessario. Vi era una distinzione di ceti tutta convenzionale: galantuomini e non galantuomini. Coloro che vivevano del loro censo, esercitavano professione, o vestivano il soprabito, detto, con tradizionale classicità, giamberga, erano galantuomini e avevano diritto al don. Gli altri formavano, veramente, un sol ceto. Nel resto d’Italia la parola galantuomo aveva significato morale; nell’antico Regno, esclusivamente sociale. Il ceto dei galantuomini si suddivideva in prime giamberghe (gente nuova) e vecchie giamberghe, cioè signori, le cui famiglie contavano qualche secolo di esistenza e avevano in casa il ritratto degli avi, e mobili, libri, stoffe, argenterie e quadri di qualche valore. Veramente, soltanto questi erano considerati i veri galantuomini, ai quali incombeva quasi il dovere di non far nulla, reputandosi disonorevole l’esercizio di una professione. Legame di ceto fra galantuomini pareva che vi fosse, ma nessuno ve n’era in realtà tra i ricchi e i non ricchi. Ciascuno viveva per se, e il mondo proprio era la propria famiglia, e neppur sempre, perchè non rari i casi di fiere avversioni e di liti clamorose tra i membri della stessa famiglia, quasi sempre per ragioni d’interesse. Naturalmente, i galantuomini ricchi erano i veri potenti e i soli temuti. Reputandosi una classe privilegiata, perchè la ricchezza garantiva in ogni caso l’impunità, guardavano con aria compassionevole quelli che non erano ricchi, e con la protezione delle autorità, esercitavano il locale dominio, quasi sempre a base di prepotenze e di favori. Ed era così radicata l’opinione che col denaro si ottenesse tutto, che il ricco era posto, per generale consenso e quasi per diritto naturale, in una condizione privilegiata. Questi ricchi di provincia, i più conosciuti, s’intende, avevano spesso parenti o persone influenti in Corte o nei ministeri e vi ricorrevano, non indarno, nelle occasioni. Alcuni conoscevano il Re e all’occorrenza si rivolgevano proprio a lui, senza intermediarli. L’uguaglianza di tutti innanzi alla legge era una convenzionale bugia che non maravigliava nessuno; e la vita sociale informata da un solo, vero e tenace sentimento, l’amore di sé, per cui avveniva che ciascuno godesse più delle disgrazie che delle fortune altrui, e si alternassero l’invidia e la compassione. L’ozio alimentava l’indiscrezione: l’ingerirsi dei fatti altrui e il tagliare i panni addosso al prossimo era la più dilettevole delle occupazioni, com’era quella del giuoco, alimentata anche dall’ozio, e che il governo non riusci mai a frenare. I principali giocatori avevano qualche celebrità e ogni paese contava i suoi. La cronaca del giuoco offriva una miniera di aneddoti caratteristici, e il clero dava un discreto contingente alla classe dei giocatori, né tra le signore mancavano giocatrici appassionate.
La ricchezza di rado sentiva alcun dovere sociale. Rarissimo il caso, in quegli anni, di qualche lascito pio. Ve ne fu uno nel 1855, che menò rumore. Paolo Tonti di Cerignola, ricco possidente, morendo il 7 marzo di quell’anno, destinò il suo vistoso patrimonio ad opere di carità e di culto, e parve ciò una stravaganza, da sollevar forse più critiche che lodi: tanto si era alieni dal pensare che si potesse, morendo, lasciare il proprio patrimonio ai poveri. Quasi tutta la beneficenza si concentrava a Napoli, a Palermo e nelle città maggiori del Regno. Nelle provincie minori non esistevano asili d’infanzia, ne ricoveri di mendicità, nè sodalizi di mutuo soccorso, ma solo qualche ricovero o istituto per orfani e proietti, o qualche ospedale che accoglieva i poverissimi, perchè anche i poveri sentivano invincibile repugnanza di entrarvi, non vinta neppure oggi. Bitonto aveva l’orfanotrofio Maria Cristina, e Giovinazzo l’ospizio dei trovatelli; Terra di Lavoro aveva le Annunziate di Capua e di Gaeta e il San Lorenzo di Aversa, tra i suoi ospizii principali, e così Lecce e Foggia, Aquila e Catanzaro; mentre altre provincie, come Avellino, Campobasso, Potenza, ne erano sprovviste. Pochissime città minori possedevano qualche istituto di beneficenza e tra esse va solo ricordata Marcianise, la quale aveva ricchissime opere pie, amministrate fin d’allora da quel canonico Novelli, che più tardi figurò come grande agente elettorale in Terra di Lavoro, e mori lasciando una cospicua sostanza. Un solo manicomio, quello di Aversa; e solo negli ultimi anni, un francese, certo Florent, ne fondò uno privato a Capodichino. Vi erano le Commissioni di beneficenza, che ordinariamente somministravano elemosine e piccoli sussidii in caso di malattia, o in determinate solennità, il qual genere di elemosina era pur adoperato dai ricchi, nelle feste solenni o per i morti. Vi era poi una miseria speciale, perchè quasi occulta, in quella parte della borghesia, la quale, dato fondo al patrimonio per dissipazione o disgrazie, e più sovente per ignavia, non trovava da far nulla, nè si rassegnava ad esercitare un mestiere, per il pregiudizio di considerar vile qualunque lavora della mano. C’era perciò in ogni comune un nucleo piuttosto forte di fannulloni, viventi di piccole risorse e che divenivano una specie di stato maggiore dei più ricchi, tipo fra il cliente, il confidente e lo sparafucile. Erano gli spostati di quella società, e dettero più tardi il maggior contingente alle cospirazioni e indi alla rivoluzione. La miseria di tante famiglie non aveva le forme esterne dell’indigenza, perchè si viveva con poco e vi era una certa vanità a celare il bisogno. Spesso, per opera delle autorità provinciali, riusciva a qualche persona di queste famiglie ottenere un impieguccio nelle amministrazioni locali, poichè in quelle dello Stato gl’impieghi erano patrimonio ereditario dei napoletani. Molte famiglie della borghesia, cadute in bisogno, raccoglievano le ultime risorse e correvano a Napoli a cercar fortuna, non altrimenti di quel che fanno oggi i contadini calabresi, abruzzesi e lucani, emigrando in America.
I nobili vivevano in gran parte a Napoli, e solo di tanto in tanto facevano una gita nelle provincie, per riscuotere le rendite, rinnovare gli affitti, ma più spesso per contrarre un debito o vendere una tenuta. L’arrivo del principe o del duca nel paese natio era occasione desiderata di conviti e di balli, ed argomento di acute e maligne congetture. I nobili generalmente non erano simpatici ai provinciali, che li consideravano napoletani, e l’essere napoletano non era per i nostri vecchi una raccomandazione; chè, certo a torto, napoletano era per essi sinonimo d’imbroglione. Quel parlare sarcastico e quell’aria di canzonatura perenne, per cui non si capiva se dicessero sul serio o da burla, riusciva ai provinciali intollerabile. Nè questi avevano torto, perchè i nobili si permettevano sovente scherzi inverosimili, ne sempre di buona lega, e canzonavano le loro abitudini, le diffidenze e le tirchierie, non risparmiando quelli, alla cui borsa erano costretti a ricorrere. In Sicilia, invece, i nobili andando nei loro feudi, erano festeggiati e fatti segno ad ogni sorta di ossequii, ma vi andavano assai più di rado.
A studiar bene i fenomeni della vita morale e sociale d’allora, non si può non riconoscere che i rapporti fra gli abitanti della capitale e quelli delle provincie erano improntati a scambievole diffidenza. Se fra Napoli e la Sicilia, per ragioni di storia e incompatibilità di razza, la diffidenza raggiunse gli estremi di un’avversione indomabile, bisogna pur riconoscere che fu alimentata, quasi in ogni tempo, dal governo. Fra Napoli e le Provincie del continente non avrebbe dovuto essere così; ma il napoletano si considerava un privilegiato, e i provinciali erano per lui una razza inferiore sol perchè goffi nel discorrere, nel vestire, nel muoversi. Quando i provinciali erano ricchi, si dava lor biasimo dai napoletani di non saper godere le ricchezze, e s’imputava loro a colpa, se, venendo a Napoli, non si lasciassero spogliare, e a maggior colpa, se si circondassero di cautele e di sospetti. E i provinciali, esagerando alla lor volta, reputavano i napoletani imbroglioni e bugiardi, e ne stavano in guardia, ma non in guisa da sfuggire sempre alle trappolerie dei più audaci, e da non cader vittime di raggiri, molte volte esilaranti, soprattutto se le vittime erano ricclii preti, avidi di guadagni, o giovani inesperti, avidi di piaceri, o gabbamondi in busca di numeri al lotto. Il vero è che i napoletani ritenevano che la provincia fosse in obbligo di dar loro ciò che volevano, ed elevavano agli onori di semidivinità quei gonzi, i quali, scendendo nella capitale, privi di esperienza e di talento, si facevano portar via il patrimonio fra giuochi, donne e bagordi. Sarebbe divertentissimo un racconto delle tràstole, che si consumavano a Napoli e a Palermo, a danno dei provinciali.
La ricchezza territoriale era accentrata in poche famiglie, soprattutto nelle Calabrie, in Basilicata e in Capitanata. Tranne che in Terra di Lavoro, nel Barese e nel Leccese, non esisteva altra piccola proprietà, che quella della terra vignata intorno ai Comuni. Le famiglie veramente ricche non davano quasi altro impiego alla ricchezza, che acquistando ordinariamente altre terre. Vi era della vanità nel possedere grandi estensioni di terreno, messe poi a coltura estensiva di cereali e di ulivi, o non coltivate punto, ma solo tenute ad uso di pascolo anche per difetto di popolazione. Se questa abbondava in Terra di Bari e in Terra d’Otranto, nonché nelle provincie di Napoli, di Caserta e di Reggio, difettava, dove più e dove meno, quasi dappertutto. La mancanza di strade rendeva difficile l’equilibrio tra l’eccesso e la mancanza di popolazione, nelle varie provincie. La Sicilia interna ne era, e n’à anche oggi, inverosimilmente, sprovvista.
Molti possidenti di Puglia e di Calabria si erano venuti alienando dall’agricoltura. Davano in fitto le tenute, vendevano gli armenti e si ritiravano a Napoli, sedotti dalla vita dei signori. Ritirarsi a Napoli era pel possidente di provincia il più vagheggiato ideale, che fu largamente realizzato nei primi anni della rivoluzione, quando il brigantaggio rese malsicure le campagne. Gli affittuari e coloni, che coltivavano le terre, erano invece gente laboriosa, parca e avveduta, e vennero formando via via un nuovo ceto, senza i pregiudizii e le borie dei galantuomini. E si formarono così nuove fortune, che alla fine del Regno erano numerose, specie nelle Puglie e nella Campania, accresciute com’erano dal buon prezzo dei grani, delle lane, dei latticini, delle mandorle e degli olii di oliva, e soprattutto dalla tenuità delle imposte. Niente tasse sui consumi o sugli affari o sulle successioni; e le imposte, nei comuni, che non avevano beni proprii, limitate a pochissimi grani addizionali sulla fondiaria. Le tasse erano ristrette alla carta da bollo, a pochi balzelli doganali di entrata o di uscita, e alla fondiaria, regolata con un sistema, che il più facile e il più semplice non si saprebbe immaginare. Ferdinando II era inesorabile su questo punto, come si è veduto. Purchè non si pagasse, gl’importava poco che i piccoli comuni fossero addirittura letamai. Il nuovo ceto degli agricoltori era ricco di fede e di audacia, e dove riusci a trovar capitali a condizioni miti, prosperò veramente. Ceto benemerito, che serbò vivo il culto della pecora, l’ultima a morire delle industrie armentizie; migliorò l’agricoltura; cumulò i risparmii; educò i proprii figli e si venne incivilendo; ma quando, vinto dalla vanità, volle raggiungere ad un tratto un grado sociale superiore a quello di origine, dissipò spesso il frutto delle sue economie.
Parsimoniosa era la vita, e mancando le occasioni di spendere, si verificava a puntino il detto: essere più facile fare dallo scudo mille scudi, che dal niente fare lo scudo. C’era la passione o addirittura la mania del risparmio, molte volte, per diffidenza, tenuto senza frutto. Non vi erano casse per raccoglierlo e la rendita pubblica superava la pari. Mancando il capitale circolante, l’interesse dei mutui era alto, e la media non inferiore al dieci per cento con ipoteca. Chi dava il danaro all’otto, era segnato a dito come un filantropo. Il mutuo ipotecario veniva adoperato nei prestiti delle grosse somme. Le somme piccole eran date sopra semplici obbligazioni, dette boni, i quali non si registravano e spesso non erano scritti neanche su carta da bollo. Il far debiti si reputava vergognoso, e chi contraeva un mutuo con ipoteca, andava a stipularlo presso un notaro di altro paese, con l’illusione di mantenere il segreto. Dico illusione, perchè si sapeva del debito prima ancora che ne fosse rogato l’atto. Era una società semplice e senza segreti.
Bassi i salarli, proporzionati alla tenuità della vita, e bassa la misura dei compensi ai professionisti. Con tre piastre, o quattro ducati (16 o 17 lire), una famiglia faceva il suo abbonamento col medico per tutto l’anno; quasi ridevole il compenso agli avvocati innanzi al giudice regio, e assai lontani, da quelli di oggi, i compensi agli avvocati innanzi ai tribunali e alle Corti. Un avvocato, il quale avesse fatta una grossa sostanza con la professione, non godeva generalmente buona fama.
Tutta l’attività sociale era concentrata nell’unica forma di associazione permessa: la congrega o confraternita laicale. Rivalità quindi fra congreghe e congreghe, che si rivelava nelle feste dei rispettivi patroni e nei cosiddetti diritti di preminenza nelle processioni e sin negli addobbi delle chiese, soprattutto in settimana santa, quando si costruiva il sepolcro di Gesù, che era un teatro con scene, personaggi e trasparenti, e rappresentava episodii della vita di Cristo, o fatti del Vecchio Testamento. Ogni congrega aveva un capo, detto priore, e un sacerdote per l’esercizio del culto, detto padre spirituale, eletti col sistema delle fave e dei ceci. Le congreghe, invidiose l’una dell’altra, si combattevano con un certo accanimento fra loro. Ma non erano le congreghe, come ho detto, i soli partiti visibili: c’erano anche gli occulti. i due galantuomini più ricchi di ogni comune davano il nome a due fazioni, che si contrastavano l’influenza e il dominio locale; o il ricco faceva partito con tutti i ricchi contro le mezze fortune o contro gli sprovvisti di ogni fortuna, i quali avevano per capo un professionista o un letterato. Si odiavano in segreto e cercavano di rovinarsi con denunzie. Una denunzia politica bastava a rovinare una famiglia.
Ogni comune contava fra i galantuomini una serie piuttosto copiosa di tipi caratteristici, battezzati come tali dalla voce pubblica. Vi era lo stravagante, detto fanatico, perchè viveva in maniera diversa dagli altri, e mangiava e dormiva in ore diverse; e se le stravaganze parevano eccessive, era bollato come pazzo addirittura. Vi era l’uomo dabbene, a giudizio di tutti, il cui consiglio si cercava nei momenti difficili; l’uomo generoso, alla cui borsa si poteva ricorrere senza il pericolo di un rifiuto, per piccole sovvenzioni s’intende; lo scialacquatore che stupidamente dava fondo al patrimonio; l’uomo, la cui parola era sacra, e quello che la rimangiava con la stessa facilità con cui l’aveva data; il bugiardo celebre e il professionista onesto o disonesto. C’era il vecchio soldato di Napoleone, con la medaglia di Sant’Elena, circondato dal rispetto dei giovani, ai quali raccontava gli episodii delle campagne di Russia e di Germania; c’erano i soldati e i vecchi funzionarli di Murat, i quali serbavano un vero culto alla memoria dell’infelice Re e sopravviveva qualche reduce di Antrodoco, che narrava la fuga con immagini umoristiche. Ricordo che uno di questi, già vecchio ai tempi della mia gioventù, descriveva quella fuga con un’immagine scultoria:“ad un tratto, egli diceva, all’apparire della cavalleria austriaca, dei soldati nostri non si videro che culi e tacchi„. C’erano i filodrammatici e i filarmonici, e gli strumenti musicali più adoperati erano il violino, la chitarra francese e il flauto. Non fu prima del 1860 che si generalizzarono i pianoforti. Nel carnevale del 1857 don Acentino Mayo, ricevitore generale di Chieti, in occasione di una gran festa da ballo, cui apri le sue sale, fece venire un magnifico harmonium a sedici registri, e fu il primo che si vedesse, e per molti anni rimase il solo in tutto l’Abruzzo. C’era il poeta, che scriveva sonetti per nozze, per battesimi o per morti, e l’epigrammista burlone, che metteva fuori le satire anonime e mandava gì’ inviti ai tipi più curiosi, o perchè si ritrovassero a pranzo da un comune amico, o corressero da un altro in fin di vita, o montassero la guardia al sepolcro di Gesù il giovedì santo, e rammentassero di far bene la caduta all’intonazione del Gloria, nel sabato santo. Il sepolcro di Gesù era una vera rappresentazione teatrale. Il sabato santo, quando il celebrante intonava il Gloria e si scioglievano le campane, le figure di cartone, che stavano a rappresentare i soldati di guardia al sepolcro e che volgarmente si chiamavano giudei, venivan fatte cadere a terra. Di qui lo spirito dello scherzo, anche più salace per il fatto, che il volto dei giudei era quanto di più brutto si potesse immaginare. E vi erano infine due altri tipi caratteristici, quello dell’avaro sfarzoso e del cacciatore abile. La caccia era lo sport più di moda. Naturalmente, alcuni di questi tipi pagavano un larghissimo tributo, in varie forme, all’iperbole; e uno dei divertimenti più graditi era l’ascoltare le imprese di caccia, con relative straordinarie bravure di cani, di tiri e di prede.
Una famiglia ricca non si concepiva senza la carrozza e senza alcune condizioni esteriori, nella vita e nelle abitudini. Dopo Napoli, le provincie, che contavano maggior numero di carrozze private, erano le Puglie e la Campania, perchè le più ricche e le meno sprovviste di strade. Seguivano Chieti e Aquila, ma soprattutto Chieti, dove i signori avevano magnifiche vetture con pariglie, e il maggior lusso lo faceva quel don Acentino Mayo, sumenzionato, il quale aveva sposata una figliuola del Santangelo e aveva danaro da buttare. La vettura serviva ai brevi viaggi e alle scampagnate; serviva per andare incontro alle autorità e ai forestieri e per riaccompagnarli; serviva ai battesimi, alle nozze e ai funerali: tutte occasioni straordinarie. Col poco uso, le carrozze duravano molto, ma diventavano antiquate e più antiquata la livrea, o mostra di livrea, per cui tutto l’attelage suscitava l’ilarità dei nobili che venivano da Napoli.
Parca la mensa anche dei ricchi. Vi erano famiglie signorili, che davano alla tavola un apparato sontuoso, con cuochi e servi. Alcune famiglie calabresi conservavano le vecchie tradizioni, secondo le quali le signore, nelle grandi occasioni, sedevano a mensa, tenendo i guanti alle mani. Le famiglie ricche che spendevano poco per il pranzo, erano indicate alla generale maldicenza. Rari gl’inviti, tranne fra persone intime nelle feste solenni. Gl’inviti erano riserbati ai forestieri, parenti, amici, i quali si recavano da un paese all’altro, in occasione di feste di fiere. Un po’ per vanità, ma molto per bontà di cuore, molte famiglie, la cui mensa era ordinariamente frugale, divenivano di una larghezza sontuosa, quando c’era l’ospite, soprattutto se l’ospite occupava un uffizio pubblico, civile o ecclesiastico. Erano pranzi con portate innumerevoli e infinite varietà di antipasti, di conserve e di latticinio Caratteristiche le insistenze all’ospite per obbligarlo a mangiare: “Mangiate, mangiate, voi dovete viaggiare„; e le insistenze erano sincere e si durava fatica a schermirsene. Non sempre la padrona di casa, nelle famiglie borghesi, assisteva al pranzo, o perchè la vecchia etichetta non lo permetteva, o perchè era più necessaria la sua presenza in cucina.
L’alimentazione più comune era di paste, di legumi e di ortaggi: paste fatte in casa, come il pane; che anzi, se per le paste era tollerato acquistarne sulla piazza, per il pane l’acquistarlo indicava povertà. La carne di manzo, tranne nei luoghi di provincia e di circondario, era rarissima; ordinariamente, si mangiava carne di castrato, di pecora o di agnello, polli nelle grandi occasioni, e carne di maiale nell’inverno.
I ricchi e gli agiati abitavano case proprie. La prima affermazione della ricchezza era l’acquisto della casa, dove non abitava che la famiglia, perchè il meridionale, soprattutto il siciliano, dà alla home il carattere di gelosa intimità e non ammette che vi possa abitare e quasi penetrare altri. Nella casa il ricco raccoglieva quanto era necessario alla sua famiglia, e ordinariamente, annesso alla casa era il giardino o l’orto, per cui non si rendeva necessario uscire. Nelle case erano quasi ignoti i cosiddetti conforti o costose superfluità moderne, e di quadri non si vedevano che immagini sacre in caratteristiche stampe, o litografie di scene rappresentanti gli episodii di Genovieffa di Brandeburgo, ovvero i quattro poeti italiani, o i grandi compositori di musica, o le quattro stagioni. Nelle case più antiche e più ricche si vedevano stampe napoleoniche o mitologiche, specchiere e candelabri del tempo dell’impero, ritratti ad olio degli antenati con la caratteristica lettera in mano, sulla cui sopraccarta si leggeva il nome del personaggio, dipinto sulla tela nel costume del tempo. Dopo la guerra di Crimea vennero di moda gli episodii e i personaggi di quelle battaglie; e dopo il 1859, nelle case dei liberali, si vedevano litografie colorate delle battaglie di Montebello, di Palestro, di Magenta, di Solferino, con i ritratti di Napoleone III e dei generali francesi.
Rarissime le pinacoteche private. L’Abruzzo, patria dei fratelli Palizzi e dello Smargiassi, era la sola regione dove fossero interessanti raccolte private. Vanno ricordate quelle delle famiglie Dragonetti e De Torres in Aquila, e dei marchesi Cappelli a San Demetrio, nonché la raccolta di don Filiberto de Laurentiis in Chieti, erede di quel Niccola de Laurentiis, che nei principii del secolo onorò la pittura napoletana. La raccolta Cappelli andò divisa fra gli eredi di Luigi e di Domenico, fratelli maggiori di Emidio, l’autore della Bella di Camarda, che fu Pari nel 1848 e deputato di San Demetrio nella prima legislatura del Parlamento italiano e che insegnò il latino a Ruggiero Bonghi, giovinetto. Figliuoli di Luigi Cappelli sono: Raffaele, deputato di San Demetrio e già ministro degli esteri, e Antonio, senatore del Regno. Aquila, Catanzaro e Lecce erano forse, tra i capoluoghi delle provincie continentali, le città più civili. Più lontane da Napoli, risentivano meno gli influssi delle volgarità della capitale. Aquila, gentilissima città, più sabina che napoletana, aveva frequenti contatti con Roma; e Lecce, alla cortesia innata della sua gente, univa uno squisito senso d’arte, di gusto e d’arguzia.
Ogni provincia aveva la sua vita locale, maggiore in quelle che erano sede di Gran Corti Civili, come Aquila, Catanzaro e Trani, e quella della provincia di Bari era divisa fra Bari e Trani, perchè la Gran Corte Civile e i tribunali risedevano in quest’ultima città, popolata, forse più che non sia oggi, di magistrati, avvocati e curiali. I capi delle Corti e dei tribunali erano generalmente persone colte, e però intorno a loro si raccoglieva quel po’ di mondo intellettuale, formato da professionisti o dai possidenti più istruiti. E si raccoglieva intomo ai capi della magistratura, più ancora che intorno agi’ intendenti, perchè costoro, a differenza degli attuali prefetti, vivevano molto raccolti, anzi ritenevano essere più dignitoso per loro tenersi lontani dalla gente. Anche quelli, che avevano famiglia, vivevano vita ritirata, nè amavano di offrir pranzi o balli. L’intendente, più che l’amministratore della provincia, era il capo della polizia, nonchè il vicario del Sovrano, quello che poteva perdere una famiglia solo che lo volesse, non essendo dei suoi atti responsabile che soltanto innanzi al Re. E perciò era stranamente temuto, e ciascuno si studiava di farsi notare il meno possibile. Alcuni intendenti, come Ajossa a Bari, Sozi Carafa a Lecce, Mandarini a Chieti, Mirabelli ad Avellino, Guerra a Foggia, Mazza a Cosenza, Roberti a Teramo, esercitarono un senso di vero terrore.
La grande distrazione nelle provincie continentali, come in Sicilia, erano le feste. Da aprile a novembre si celebravano feste religiose tutte le domeniche. Ogni città o piccolo comune aveva, come del resto anche ora, il suo Santo patrono. Come in Sicilia Santa Rosalia, Sant’Agata e la Madonna della Lettera, cosi San Niccola a Bari, coi caratteristici e affollati pellegrinaggi; Sant’Oronzio a Lecce; la Madonna dei Sette Veli a Foggia; San Matteo a Salerno, con la copiosa fiera di merci e bestiame; San Gerardo a Potenza; San Modestino ad Avellino; San Bernardino ad Aquila; San Giustino a Chieti, e così via via. Erano feste magnifiche, che duravano più giorni, con bande, luminarie, globi areostatici, cuccagne, fuochi pirotecnici, spari di mortaletti, corse di cavalli e fiere. Nell’Abruzzo, le feste di Chieti erano le più rinomate, e nel 1855 fu affidato l’incarico di organizzarle al sindaco don Florindo Briganti, al primo eletto, don Giambattista Saraceni, e al segretario, tal don Vincenzo, soprannominato lu brutto. Alla vigilia della festa, si lessero per le cantonate della città questi versi:
Povero San Giustino! |
L’anno dopo, altri versi colpirono un barocco restauro del duomo, che il vescovo monsignor Saggese affidò a un mediocre pittore, tal Del Zoppo:
E il nostro San Giustino |
Oltre i licei con corsi universitari, dei quali si è parlato, vi erano collegi privati od appartenenti ad Ordini religiosi, come a Trani i Domenicani, e a Lecce i Teatini; senza contare i molti seminarli, quasi uno per diocesi, tra i quali di maggior reputazione erano quelli di Molfetta, di Conversano, di Matera, di Aquila, di Chieti e di Lanciano. Il seminario di Molfetta doveva il suo nome a una serie di buoni vescovi, al rettore Sergio de Judicibus, e ad un complesso di condizioni fortunate, per cui quella città era divenuta da mezzo secolo centro di cultura classica. In quegli anni i detti seminarli erano all’apice della celebrità, e basterà ricordare che, compiuta la rivoluzione, i migliori professori e i più valorosi giovani di quegl’istituti furono chiamati nell’insegnamento governativo nell’amministrazione scolastica, e altri onorarono più tardi le lettere, le scienze e la politica. Ricordo fra i miei compagni del seminario di Molfetta Giovanni Beltrani, Gaetano Semeraro, Giuseppe Panunzio e il mio carissimo Raffaele Basile, spirito colto e integro, cui un’eccessiva modestia ha impedito di farsi largo nel mondo. Pietro de Bellis, Domenico Morea, Giuseppe Orlandi, Pietro de Donato Giannini e Donato Jaja erano seminaristi a Conversano; Michele Torraca a Matera; Vito Sansonetti, Antonio Casetti e Davide Lupo alunni dei Teatini di Lecce, ne svestirono l’abito prima che andassero studenti a Napoli. E fra i professori di quei seminarii, i quali, dopo il 1860, entrarono nell’insegnamento governativo o nell’amministrazione scolastica dello Stato, ricordo Girolamo Nisio e Orazio Pansini, di Molfetta; Baldassarre Labanca, di Agnone e Pietro De Bellis, di Conversano.
Per il collegio di Chieti, non si può non ricordare un fenomeno rarissimo e forse unico: un ragazzo di dodici anni, nativo di Gessopalena, povero come Giobbe, che si chiamava Daniele Nobile. Per virtù congenita e senza educazione di sorta, egli risolveva estemporaneamente i più astrusi problemi di aritmetica. Piccolo, quasi deforme, nevrotico, dalla bocca enorme e dagli occhi sporgenti, balbuziente, apata e col cuore non aperto ad altri affetti, tranne quello per sua madre, egli, entrato in collegio, imparò a memoria quanto nessun uomo potrebbe imparare in tutta la vita. Recitava la Divina Commedia dalla prima all’ultima terzina, senza mettere una parola in fallo; ripeteva lunghi brani di classici e giunse persino ad imparare il dizionario italiano-latino. Ma i superiori, temendo che glie ne venisse male, ricorsero all’influenza del suo confessore, e questi ottenne che il ragazzo si fermasse alla lettera d. Era stato compagno di Cammillo de Meis, e crebbe sviluppando la sua memoria in maniera veramente portentosa; ma la sua virtù singolare stava nel rispondere prontamente e senza riflessione apparente e con mirabile precisione, a tutti i quesiti più difficili di aritmetica. Ferdinando II, andato a Chieti nel maggio del 1847, ricevette ragguagli di questo giovanetto e volle conoscerlo. Gli mosse varie domande, ed ebbe pronte risposte, verificate esattissime. Allora volle fargliene anch’egli una, che formolò cosi: “Io nacqui nel giorno tale dell’anno tale, alla tale ora, e fino a questo momento (cavando l’orologio e notando i minuti primi e i secondi) quanti anni, mesi, giorni, ore, minuti primi e secondi ho vissuto?„. E il Nobile prontamente rispose; e le cifre furono raccolte e toposte a riprova dagli ufficiali che accompagnavano il Re. La prova però non riuscì, essendosi verificato che le cifre, date dal Nobile, erano di molto superiori alle vere. Egli spalancò gli occhi, contrasse la bocca e parve impazzasse. Il Re ne ebbe pietà e lo incuorò dicendogli: “Ripensa bene„. Egli tacque per pochi istanti, tenendo gli occhi fissi sui numeri scritti dagli ufficiali. Ad un tratto ruppe in un urlo di gioia e, balbettando, esclamò: “Voi, voi non avete calcolati gli anni bisestili, con le differenze delle ore„ . Gli ufficiali rifecero i calcoli e riconobbero che Nobile aveva ragione. Il Re gli concesse sei ducati al mese, vita durante. Fatto adulto, non ebbe fortuna, e in quegli anni era bidello del collegio, mangiava e dormiva pochissimo, e il suo maggior divertimento nei mesi di vacanza era quello di girare i paesi della provincia, per visitare i suoi compagni. Mori dopo il 1860.
Il 1799 e il 1848 avevano lasciato ricordi incancellabili di spavento. Il gran numero di prigionieri politici, e quello cosi sterminato, di “attendibili„ che non vi era comune o borgo che non ne avesse, teneva la gente in grande paura. I pochissimi che cospiravano, davano di certo prova di grande coraggio. Nessuno credeva possibile una rivoluzione; nessuno sognava che la dinastia dei Borboni, ritenuta incrollabile, potesse cadere ad un tratto, e nessuno immaginava la morte di Ferdinando II, a 49 anni. L’unità italiana veniva ritenuta un sogno di settarii; e i cittadini più eletti, che avevano nel 1848 applaudito al nuovo ordine di cose, erano in carcere o iscritti nella lista degli attendibili, la quale si divideva in tre categorie. Appartenevano alla prima i capi del partito liberale e i più compromessi con discorsi o con atti; alla seconda, i liberali meno ardenti e meno compromessi; alla terza, i gregarii, fra i quali si noveravano semplici operai, bottegai ed anche contadini illetterati. L’attendibile era soggetto alla sorveglianza della polizia; gli era vietato di allontanarsi dalla sua residenza senza permesso dell’autorità politica, e se erasi dedicato all’insegnamento, gli era proibito di tenere studio privato; se uomo di affari, di prender parte a pubblici incanti. La vigilanza, nei capiluoghi di circondario di provincia, era esercitata severamente dalle autorità di polizia e dalla gendarmeria. A Chieti, ancor più del reggimento di guarnigione, che per parecchi anni fu il primo di linea, comandato dal colonnello Giuseppe Pianell, il quale lasciò di sè grato ricordo, bastava a mantener l’ordine uno sciocco ma temuto caporale di gendarmeria, certo Piccione, il quale nei rapporti ufficiali usava la formula: Noi don Placido caporal Piccione.
Nei capiluoghi di mandamento, la vigilanza era esercitata dal giudice regio, che riuniva in sè le funzioni giudiziarie e di polizia; e negli altri paesi dai gendarmi o dal capo urbano, il quale si arrogava talvolta anche la facoltà di mandare gli attendibili, per qualche ora, al corpo di guardia o, come si soleva dire, al fresco.
I reazionarii trionfavano. Essi schernivano gli attendibili e non mancavano di denunziarli per rancori personali, o per vendette partigiane. Ad ogni più lieve sospetto di perturbazioni o cospirazioni, il ministero di polizia ordinava perquisizioni domiciliari degli attendibili, più noti per grado sociale o per cultura, e guai se si fosse trovata una carta men che innocente. La diffidenza e il sospetto quasi generali, perchè il governo era divenuto un partito. Nelle amministrazioni comunali erano stati inesorabilmente destituiti tutti coloro, che, durante il breve periodo costituzionale, furono assunti agli uffici municipali; e decurioni, eletti e sindaci furono scelti tra i più fidi reazionarii. Purchè fossero manifestamente fedeli al Re e godessero una discreta opinione in fatto di morale e di religione, non si richiedeva altro requisito. Gl’intendenti, nominati dai ministeri costituzionali, corsero la stessa sorte dei sindaci, e quando erano traslocati, si temeva sempre di peggio. Restò proverbiale il saluto che un signore di Trapani fece all’intendente Rigilisi, il quale, nel congedarsi perchè trasferito altrove, assicurava che il suo successore era meglio di lui. “Megghiu lu tintu pruvatu — gli fu risposto — ca lu megghiu a pruvari„ .1 Industrie, commerci, miglioramenti economici, venivano in seconda linea. Si tentò qualche cosa per gli stabilimenti di pubblica beneficenza, ma con poco profitto. Il Consiglio degli Ospizi, che nel capoluogo accentrava e dirigeva ogni minuto particolare delle amministrazioni locali di carità, veniva preseduto dall’intendente, ma n’era vicepresidente il vescovo, e metà dei consiglieri erano ecclesiastici tutti di fiducia del vescovo. Nella provincia di Terra di Lavoro si verificava una singolare anormalità. Il vecchio tenente generale Pietro Vial, comandante le armi, che abitava nella Reggia di Caserta e conferiva direttamente col Re, esercitava anch’egli la polizia. Senza curarsi dell’intendente, ordinava ai sottointendenti e agli ispettori carcerazioni, scarcerazioni ed anche confini, a suo piacimento.
Poca vita nei caffè, maggiore nelle farmacie; pochissimi ricevimenti privati; piuttosto frequentati gli spettacoli teatrali, ma sottoposti a ridicola censura. Le casine, i circoli e i clubs non nacquero che coi nuovi tempi. Di carnevale erano generali i balli, detti festini, e quelli popolari erano chiamati a Lecce debosce, e a Chieti tresconi, divertentissimi.
Le ragazze andavano in un monastero o in qualche istituto del capoluogo, e le più ricche nei vecchi educandati di Napoli, ma il maggior numero rimaneva a casa ed apprendeva il leggere e lo scrivere da maestre paesane. Era però bandito il pregiudizio dalle classi civili di non dare alcuna istruzione alle ragazze. I giovani, tornati da Napoli, solevano prender moglie e mettevan su casa ed esercitavano la professione; ma i più ricchi, prendendo esempio dal Re e dai principi reali, ostentavano per le lettere e per i letterati un volgare disprezzo, per cui altra fonte di inimicizie era la rivalità fra ricchi ignoranti e persone istruite, ma senza fortuna; e il governo, che poggiava tutto il suo edifizio sulla possidenza, preferiva nelle cariche pubbliche quelli a questi, ma soprattutto diffidava dei ricchi divenuti poveri, perchè riteneva che fra loro si annidassero, a preferenza, i liberali. E liberale per Ferdinando II era anche sinonimo di spiantato e nemico della pace sociale.
Negli ultimi tempi la cultura divenne più diffusa. Quasi ogni capoluogo di provincia aveva un negozio di libraio, e alcune opere, come la Storia Universale di Cantù, l’Enciclopedia popolare e la guerra di Crimea, e geografie e atlanti e opere giuridiche ebbero fortuna. Divenne un mobile più comune la libreria, dove si vedevano allineati i volumi, con buone rilegature. Più tardi vennero di moda le edizioni Le Monnier e le belle edizioni francesi illustrate. Si leggeva e si studiava di più, e la cultura era forse meno varia di oggi, ma più solida, soprattutto la classica.
Ogni provincia aveva un centro speciale di cultura e un piccolo fuoco di liberalismo: Trani, Molfetta e Putignano per Bari; Manduria, patria di Niccola Schiavoni e dei maggiori condannati politici, per Lecce; Avellino e Cosenza per le proprie Provincie; Monteleone, Catanzaro e Reggio per le tre Calabrie, e della provincia di Chieti questo centro era Ripa Teatina, dove abitava una zia materna di Cammillo de Meis, donna Chiara Maria Cardone in Garofalo. Il fattore del De Meis, Gregorio di Labio, vi andava da Bucchianico nei giorni di mercato e portava le notizie del padrone ai pochissimi, che lo rammentavano senza paura. A Bomba invece nessuno avrebbe osato in pubblico chiedere notizie dei fratelli Spaventa, esule uno, ed ergastolano a Santo Stefano, l’altro.
La cultura politica era patrimonio di pochi ben privilegiati; le classi dirigenti ritenevano il resto d’Italia, da Roma in su, un paese straniero, non per la geografia e assai meno per la storia, ma per la distanza, che separava il Regno da Roma, dov’era il Papa; da Firenze, dov’era il Granduca; da Milano e da Venezia, dov’erano gli austriaci: austriaci. Papa e Granduca legati strettamente alla Corte di Napoli da vincoli di parentela, di religione e di politica, i quali vincoli stringevano ad un tempo le piccole Corti di Modena e di Parma a quelle di Vienna e di Napoli. Il Piemonte, che aspirava ad essere una grande potenza, andando a combattere in Crimea e discutendo la questione italiana nel Congresso di Parigi, teneva accesa la fede di quanti speravano tempi migliori; ma era piuttosto una fede religiosa che convinzione politica, tanto pareva inconcepibile quel che avvenne pochi anni dopo. Le classi dirigenti non erano al corrente delle notizie del giorno, e s’indicavano a dito quelli che ricevevano qualche giornale da Napoli. La grande maggioranza era rassegnata ad uno stato di cose, che sembrava non potesse migliorare e assai meno mutare.
Non si viaggiava che dai soli ricchi e la gran mèta del viaggio era Napoli, 'u casalone, considerata dai provinciali sede delle umane maraviglie. Tornando in provincia, non finivano di decantarne le bellezze. Persino i lazzaroni erano trovati spiritosi e graziosi, sino ad appropriarsene il linguaggio e le maniere. Il viaggio importava spese non lievi, perchè durava sette giorni da Lecce, dieci da Reggio, cinque da Aquila, punti estremi delle provincie continentali. Molti calabresi di Catanzaro e di Cosenza s’imbarcavano al Pizzo, dove approdava il vapore una volta la settimana, e poicbè non vi era porto, nè banchina, ma solo uno scoglio, se il mare era grosso, il battello non approdava e si rimaneva al Pizzo otto giorni. Per la linea di Puglia, che era relativamente la più sicura, il traffico veniva fatto da quelle enormi e solide carrozze di Avellino dipinte in giallo.
Foggia, Ariano e Avellino erano tappe di obbligo per i pugliesi. Passato l’Appennino, si cominciava ad aver conoscenza del dialetto napoletano, perchè alla terminazione in consonanti dure si sostituiva quella delle consonanti dolci, e da Ariano la povera gente chiama tata o papà il genitore, e diminutivo di Luisa è Luisella. Da Ariano ad Avellino s’incontrava l’erto valico dell’Appennino, detto la Serra, dove si sostituivano i bovi ai cavalli. La seconda di queste città era l’anticamera di Napoli, ed aveva tre o quattro locande, la più rinomata delle quali fu negli ultimi tempi quella detta delle Puglie, posta sulla via maestra, quasi nel mezzo della città, dove si mangiava e dormiva bene, e il cui esercente, certo Tarantino, aveva smessa un’altra sua osteria più antica, detta del Principe. Ad Ariano le locande erano bettole, ma rese piacevoli da una cena squisita di pollastri e prosciutto: cena servita da ragazze paffute, le quali non si commuovevano alle occhiate dolci degli studenti, usciti di fresco dai collegi o dai seminarli. Sono grate reminiscenze della mia giovinezza, del mio primo viaggio a Napoli, dei miei amici quasi tutti spariti dal mondo, e quelle impressioni, che pareva fossero eccezionali per ciascuno, erano comuni a tutti. Viaggio quasi sempre allegro, essendo comune il caso che più studenti o famiglie lo facessero insieme, servendosi di più carrozze.
Ma ciò che rendeva difficile e pericoloso il viaggiare, era l’insicurezza delle strade. Il vallo di Bovino per i pugliesi, il piano di Cinquemiglia per gli abruzzesi, la Sila, il Cilento e lo Scorzo, per quelli che venivano dalle Calabrie e dalla Basilicata, erano tradizionali e paurosi nidi di malandrini. Sovente gli stessi proprietarii di taverne, lungo le strade, fiutata una buona preda inerme, mettevano su prestamente uomini loro e ne formavano una piccola banda, la quale, bendandosi il volto e puntati i fucili contro i viandanti, gridava forte il tradizionale: faccia a terra, e li spogliava d’ogni avere. La gendarmeria del vicinato non di rado teneva mano a questi ladri di occasione. Erano noti fra i più celebri organizzatori di piccole bande improvvisate, i tavernari dello Scorzo sulla via delle Calabrie, e del Passo di Mirabella sulla via delle Puglie; anzi si affermava che costoro fossero vecchi avanzi delle bande di Ruffo. Si preferiva perciò viaggiare in molti, con tre o quattro carrozze, portare il fucile carico a palla e scendere nei luoghi più pericolosi, coll’arma tra le mani, per istornar qualche agguato. Vero è che negli ultimi anni del regno di Ferdinando II c’era una discreta sicurezza nell’attraversare quei luoghi, ma la fama antica accendeva le fantasie e le paure. Avanti che si costruissero le strade rotabili, cioè fino ai primi anni di questo secolo, si aveva l’abitudine di far testamento prima d’intraprendere il viaggio dalle provincie a Napoli. Le tre grandi strade per le Calabrie, le Puglie e gli Abruzzi segnarono una vera rivoluzione nel viaggiare. E si abbreviarono le distanze anche di più negli ultimi anni del regno di Ferdinando II, quando fu impiantato un quotidiano servizio postale fra Napoli e le provincie, del quale potevano profittare sin cinque viaggiatori, e le cui corse, con cambi frequenti di cavalli, non faceano soste neanche la notte. Viaggiare nella posta era viaggiare da signori; ma se si risparmiavano le locande, erano di rito le laute mance ai postiglioni e al corriere. Ma i più preferivano l’antico sistema di viaggiare con le carrozze di Avellino, perchè si riposava la notte, si andava in compagnia e c’erano le fermate caratteristiche di Ariano e di Avellino.
Più comuni i viaggi nei capiluoghi delle provincie o dei tribunali. Vi si andava per affari giudiziarii o amministrativi, o anche per l’apertura di un teatro, perchè generalmente i capiluoghi di provincia avevano un teatro, e parecchie città della stessa provincia, un teatrino. Quello di Bari, bellissimo, dopo quindici anni di lavoro e ottantacinquemila ducati di spese, fu inaugurato il 4 ottobre 1855; ed oltre a Bari, avevano, nelle Puglie, teatri o teatrini stabili Barletta, Trani, Molfetta, Bitonto, Foggia, Cerignola, Lucera; e teatri d’occasione, quasi tutt’i comuni grossi. Si chiamavano d’occasione, perchè si piantavano in ampie sale terrene, o in qualche castello abbandonato. Chieti, Lanciano, Avellino, Caserta, Capua, Catanzaro, Reggio, Cosenza e Trapani avevano teatri stabili anch’esse. In quello di Chieti si alternavano opere di musica e di prosa, e la stagione cominciava il primo di ottobre, per finire col carnevale. A Chieti cantarono Graziani e Delle Sedie, e nel 1857 vi debuttò nel Marco Visconti la celebre Giovannoni. Non vi fu quasi teatro di provincia, dove non si rappresentasse il Trovatore. Per gli scrupoli di monsignor Gallo, il bel teatro di Avellino rimase chiuso fino al 1860. Quel teatro era stato costruito sui ruderi di una chiesa, e solo quando ne furono vuotate le sepolture, il vescovo tolse il divieto. E il teatro di Trani, forse più antico e certo di maggior celebrità di tutti, ha avuto recentemente un’interessante illustrazione.2 I teatruccoli d’occasione con compagnie randagie avevano sempre il Pulcinella, perchè non s’immaginava teatro di prosa senza questa maschera, e spesso per mandar via i comici disgraziati, occorreva una colletta, detta guanto.
Nessuna sollecitudine ispiravano le cose pubbliche, ma molta viceversa era la vanità di figurare a capo del proprio comune. Le autorità comunali erano il sindaco, il primo e il secondo eletto, i decurioni, il capourbano, il sottocapourbano, il conciliatore ed il supplente giudiziario (ora vicepretore): tutti, naturalmente, di nomina regia e scelti molte volte tra i più notevoli del paese, non intinti però di liberalismo. Si era sindaco e decurione a tempo, conciliatore, supplente o capourbano a vita; il primo eletto soggiaceva a più frequenti mutazioni, avendo egli il governo della piazza e fissando il prezzo dei commestibili, per cui non andava esente da maldicenze. Gli urbani o guardie urbane erano una milizia locale, composta generalmente di operai e di bottegai e contadini, i quali non vestivano divisa e solo portavano, in servizio, una coccarda rossa al cappello o alla coppola. C’era nei comuni un posto di guardia, dove ogni sera gli urbani convenivano alla spicciolata per turno, armati di schioppi di loro proprietà. Avevano il privilegio di ottenere gratuitamente il porto d’armi, ma non il permesso di cacciare. Nei piccoli paesi il capourbano era l’uomo più temuto dopo il giudice regio, perchè vigilava, riferiva, denunziava, dava informazioni al giudice, all’intendente o al sottointendente, ma non aveva neppur lui l’obbligo dell’uniforme, per cui, compiuta la rivista, egli non sapeva che cosa fare della sciabola.
Quasi non si sentiva nessun bisogno pubblico. L’igiene si trascurava in modo che le condizioni della maggior parte dei comuni, ma singolarmente dei più piccoli, erano orribili addirittura. Non fogne, non corsi luridi, non cessi nelle case, scarso l’uso di acqua, dove c’era naturalmente; quasi nessun uso, dove non c’era. Poche le strade lastricate o acciottolate, pozzanghere e fanghiglia nelle altre, e in questo gran letamaio razzolavano polli, e grufolava il domestico maiale. Bisogna ricordare che nei paesi meridionali, generalmente, i contadini vivono nell’abitato, nella parte vecchia, ch’è quasi sempre più negletta e fomite di malattie infettive. Ma tutto ciò sembrava così naturale, che nessuno se ne maravigliava; e se, di tanto in tanto, si compiva qualche opera pubblica, era piuttosto un abbellimento o una superfluità. La povera gente era abbandonata a sè stessa, mentre il galantuomo, o aveva le case sulla strada principale, ovvero innanzi al suo portone si faceva costruire un metro di lastricato, per suo uso personale. I municipii, come si è detto, non avevano mezzi.
Non il principe, non le autorità si maravigliavano di un simile stato di cose. Ferdinando II aveva percorse più volte le Provincie, e le condizioni moralmente e socialmente miserrime, le vedeva, ma non le intendeva. Se non rivolse mai le sue cure alla capitale, non era sperabile che le rivolgesse alle Provincie. Certi bisogni erano superfluità per lui; gli bastava ordinare la costruzione di una nuova chiesa o convento, per credere di aver così appagato il voto delle popolazioni. Negli ultimi tempi manifestò una certa energia nel volere la costruzione dei cimiteri; ma in tanta parte del Regno, di qua e di là dal Faro, anche dopo di averli costruiti, si seguitò a seppellire i galantuomini nelle chiese e a buttare la povera gente nelle “fosse carnarie„. Anche innanzi alla morte l’eguaglianza civile era una parola senza significato!
Ecco in breve la vita delle provincie col suo male e col suo bene, come tutte le cose umane, ma che rispondeva ad una condizione sociale e morale, storica ed economica, che poteva venirsi modificando via via, ma che non era lecito mutare di punto in bianco. E la rivoluzione violentemente la mutò, nella sua parte esteriore, con un diritto pubblico, il quale non fu inteso altrimenti, che come reazione meccanica a tutto il passato. Il nuovo diritto non rifece l’uomo, anzi lo pervertì. La vecchia società si trovò come ubbriacata da una moltitudine di esigenze e pregiudizi nuovi, per cui ciascuno vedeva nel passato tutto il male e nelle così dette idee moderne tutto il bene, donde il bisogno di por mano a creare tante cose ad un tempo, utili e inutili. Non vi fu comune, anche di mediocre importanza, che non si coprisse di debiti. Da nessuna partecipazione alla vita pubblica, si andò, d’un tratto, ad un eccesso di partecipazione: alla politica, eleggendo i deputati; al municipio, alle provincia e alle Camere di commercio, i consiglieri. Una quantità di tempo, anzi il maggior tempo sottratto ad occupazioni utili, e quel che fu peggio, con un fatale strascico di odii spenti e rinascenti, di gelosie, di ambizioni, di vanità, di volgarità e d’interessi da difendere o da far prevalere: una nuova forma di guerra civile in permanenza, e una nuova tirannide, quella delle maggioranze d’occasione, e quel ch’è più disastroso ancora, la totale distruzione del carattere, che fu sempre così deficiente. Come nella Camera dei deputati, così nei Consigli comunali e provinciali, i nemici di ieri diventano gli amici di oggi e viceversa, non in nome di principii, ma d’interessi, di vanità e d’ambizioni di rado confessabili. Si mutano gli odii in amori e gli amori in odii, e si smarrisce spesso la coscienza del bene e del male. A farlo apposta, non si sarebbe potuto immaginare un sistema peggiore per guastare la gente. Nei primi anni del nuovo regime, gli odii locali, repressi per tanto tempo, furiosamente scoppiarono, e i maggiori ricchi furono bollati per retrivi ed esclusi da ogni partecipazione alla vita pubblica; si sfogarono vecchi rancori e si consumarono non poche vendette, soprattutto nel periodo della legge Pica del 1863, e della legge Crispi del 1866. Poi si fecero le paci in apparenza, ma in sostanza gli odii non si prescrissero. Suggellandosi uno dei più iniqui pregiudizi di uguaglianza apparente e meccanica, le provincie dell’antico Regno ebbero leggi e ordinamenti affatto contrarli al loro carattere, alle loro tradizioni, al loro grado di cultura. I piccoli comuni della Sicilia, della Basilicata, dell’Abruzzo, delle Calabrie, dei due Principati e potrei aggiungere di tanta parte dello Stato Romano, sono governati dalle stesse leggi, le quali governano le grandi città dell’Italia del nord e del centro. Non si tenne conto di nulla, ma tutto fu confuso in un’unità meccanica, che, a considerarla bene, è la causa dei presenti malanni e dei pericoli, che minacciano il nuovo Regno. Se le leggi politiche dovevano essere uguali per tutto il paese, le leggi organiche dovevano tener conto della storia e della geografia: due cose, le quali non si possono offendere impunemente, ma che offese, si vendicano, e la vendetta è tanto più terribile, in quanto si compie in nome della legge morale!