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Erano feste magnifiche, che duravano più giorni, con bande, luminarie, globi areostatici, cuccagne, fuochi pirotecnici, spari di mortaletti, corse di cavalli e fiere. Nell’Abruzzo, le feste di Chieti erano le più rinomate, e nel 1855 fu affidato l’incarico di organizzarle al sindaco don Florindo Briganti, al primo eletto, don Giambattista Saraceni, e al segretario, tal don Vincenzo, soprannominato lu brutto. Alla vigilia della festa, si lessero per le cantonate della città questi versi:

Povero San Giustino!
In mano a un Brigante e un Saracino
E in mano a don Vincenzo lu brutto
Che magna franco pesce, carne e tutto!


L’anno dopo, altri versi colpirono un barocco restauro del duomo, che il vescovo monsignor Saggese affidò a un mediocre pittore, tal Del Zoppo:

E il nostro San Giustino
Più non ravvisa il suo soggiorno;
Ogni parete, ogni arco ed ogni muro
Sono imbrattati e luridi all’eccesso,
E reclaman dal vescovo futuro,
La scopa e il gesso.


Oltre i licei con corsi universitari, dei quali si è parlato, vi erano collegi privati od appartenenti ad Ordini religiosi, come a Trani i Domenicani, e a Lecce i Teatini; senza contare i molti seminarli, quasi uno per diocesi, tra i quali di maggior reputazione erano quelli di Molfetta, di Conversano, di Matera, di Aquila, di Chieti e di Lanciano. Il seminario di Molfetta doveva il suo nome a una serie di buoni vescovi, al rettore Sergio de Judicibus, e ad un complesso di condizioni fortunate, per cui quella città era divenuta da mezzo secolo centro di cultura classica. In quegli anni i detti seminarli erano all’apice della celebrità, e basterà ricordare che, compiuta la rivoluzione, i migliori professori e i più valorosi giovani di quegl’istituti furono chiamati nell’insegnamento governativo nell’amministrazione scolastica, e altri onorarono più tardi le lettere, le scienze e la politica. Ricordo fra i miei compagni del seminario di Molfetta Giovanni Beltrani, Gaetano Semeraro, Giuseppe Panunzio e il mio carissimo Raffaele Basile, spirito