La fine di un Regno/Parte II/Capitolo IV

Capitolo IV

../Capitolo III ../Capitolo V IncludiIntestazione 25 febbraio 2021 75% Da definire

Parte II - Capitolo III Parte II - Capitolo V
[p. 81 modifica]

CAPITOLO IV


Sommario: Le ferrovie nel Regno — Come si costruivano e si esercitavano — Le stazioni — L’armamento delle rotaie — L’episodio del capostazione Marriello — Il macchinista reale Coppola — Il segnale umano nei viaggi del Re e un incidente — Gl’impiegati ferroviari fedelissimi — Una grazia concessa — Le vetture reali — Uno scontro a Cancello — Parole di Maria Teresa a Coppola — Il direttore Fonseca — L’amministrazione ferroviaria — I biglietti, il loro prezzo e gli orarii — Disposizioni curiose — Le concessioni ferroviarie di Francesco II — I riordinatori delle ferrovie napoletane nel 1861 — L’ultimo Decurionato — Lettere di Romano e di Garibaldi al principe d’Alessandria — L’ultimo bilancio del Decurionato — Le entrate e le spese — Le spese di culto — I regali al Re — Le opere pubbliche — Le spese per le nozze e per la salita al trono di Francesco — I rapporti tra il nuovo Re e il Decurionato — Un incidente caratteristico al baciamano — Il Decurionato perde un privilegio — Gli uffici municipali a San Giacomo — Il vecchio Decurionato e il nuovo Municipio — Il Risanamento — I due sindaci più benemeriti.


Quando Francesco II sali al trono, le ferrovie del Regno, partendo da Napoli, avevano per estremo limite Capua, Castellamare, Nocera e Sarno: in tutto, meno di duecento chilometri. Ferdinando II fu il primo a costruire strade ferrate in Italia, e il tronco Napoli-Portici venne inaugurato il 26 settembre 1839 e aperto all’esercizio il 4 ottobre successivo. Quattro anni dopo, il 20 dicembre 1843, era stata aperta la Napoli-Caserta, prolungata nel 1846 fino a Capua. Per l’apertura della ferrovia di Caserta fu coniata una medaglia commemorativa, incisa dall’Arnaud, col motto viarum moras hominis sollertia vicit, e dall’altra faccia il ritratto del Re, col motto Ferdinandus II Siciliar. Rex Providentiss. Nel 1846, il Re volle congiunto Cancello con Nola e, dieci anni dopo, Nola con Sarno per raggiungere San [p. 82 modifica]Severino, ma il tronco fino a San Severino non si aprì all’esercizio che nel 1861. Nello stesso anno fu pure inaugurato l’altro tronco Capua-Presenzano, bene avviato, col resto della linea sino al Liri, quando Francesco II lasciò Napoli. Queste erano le linee regie, cioè costruite, esercitate e amministrate dallo Stato. Avevano rotaie di una bontà inarrivabile, perchè ottenute, laminando le canne dei fucili presi nel disarmo dopo il 15 maggio. Si adoperavano inoltre ottimi materiali inglesi nella costruzione delle locomotive, le quali per molti anni prestarono eccellente servizio. Non vi era insomma lesineria di nessuna specie nella costruzione del materiale mobile e nell’esercizio.

L’inaugurazione del primo tronco fu grandiosa e costituì l’avvenimento di tutta Napoli. V’intervenne la Corte con tutto il mondo ufficiale, e piacemi, a tal proposito, ricordare l’incidente occorso alla signora Cottrau, figliuola di Felice Cerillo, capodivisione al ministero dell’interno. Essa era incinta, e durante la corsa di ritorno dalla Favorita a Napoli, presa dai dolori del parto, si sgravò giunta appena a casa, d’un bel marmocchio roseo, al quale fu dato il nome di Alfredo.1

Le linee regie erano costruite dal genio militare e dirette da uomini di valore, come il Fonseca, il Del Carretto, il Verneau, il Verdinois, l’Andruzzi, alcuni dei quali entrarono poi nell’esercito e nelle amministrazioni italiane. Esse erano anche militarmente esercitate. I soldati del genio facevano da sorveglianti e da cantonieri. Il tracciato piegò, del resto, assai spesso ai capricci del Sovrano e agl’intrighi dei cortigiani. Ogni stazione aveva una storia più o meno confessabile. Espressamente vietati i tunnels, per le occasioni che davano ad immoralità. Si ripeteva il detto del Re, che sulle ferrovie sue non voleva pertusi,2 e difatti in tutta la vecchia linea non ve n’è uno. Ogni stazione aveva una cappella, per dar modo al personale sparso sulla linea di udir la messa all’alba dei giorni festivi. Il servizio pubblico era sospeso nei giorni della settimana santa, e di notte non v’era movimento di treni.

[p. 83 modifica]Benché il genio non avesse avuta occasione di mostrare grande abilità nella costruzione delle linee regie, dove nessuna difficoltà tecnica ebbe a presentarsi, si può affermare con tutta sicurezza, che nessuna linea fu più solidamente e accuratamente costruita di quelle: basti dire, che il riempimento, dopo le paludi che circondano Napoli verso Casalnuovo, fu ottenuto con terreno pistonato dai soldati. Vero è che le rotaie di quella linea avevano bisogno di più solida base, poiché non poggiavano su traversine di quercia, ma erano tenute a posto con forti cunei di legno nei cuscinetti di ghisa, fissati su grossi blocchi di pietra vesuviana. Tale armamento era facilmente smontabile, e se ne ebbe una prova il 15 maggio 1848, quando fu dato ordine al presidio di Capua di far partire immediatamente due reggimenti di fanteria per Napoli. Il generale Cardamone, comandante di quel presidio, diè subito opportune disposizioni al capostazione Marriello, il quale, ardente liberale com’era, e in relazione col Comitato di Santa Maria, mentre preparava i treni per la partenza dei soldati, ebbe il tempo di mandare persona di fiducia al Comitato stesso, suggerendo di smontar prontamente, a qualche chilometro di distanza, un buon tratto di binario. Quattro colpi ben dati ai cunei di legno misero facilmente le rotaie fuori posto. Intanto il primo treno parte, e il Marriello monta sulla macchina per evitare un disastro, se mai il macchinista non si fosse accorto a tempo che le rotaie erano smontate. Difatti nulla accadde, ma i reggimenti non giunsero a Napoli che l’indomani, per la via di Aversa, quando non ce n’era più bisogno. Il Re andò su tutte le furie contro il Marriello, che un po’ conosceva; e quantunque sembrasse calmato quando seppe ch’egli era sulla locomotiva, ne ordinò poscia la destituzione e ci fu anche un processo, che non ebbe seguito. Nel 1860, mutati i tempi, il Marriello divenne capo del movimento sulla stessa linea.

Oltre Pietrarsa, che lavorava per le ferrovie, alla stazione di Napoli vi erano officine per la riparazione e il mantenimento delle locomotive e dei vagoni. Gli operai di queste officine chiesero in grazia a Ferdinando II di costruire una locomotiva, per dimostrare che non la sola Pietrarsa n’era capace. La locomotiva fu costruita e intitolata al Duca di Calabria; e il Re, adoperandola nei suoi viaggi fra Napoli e Caserta, soleva dire che [p. 84 modifica]trottava meglio delle altre. Essa fu sempre guidata dal macchinista Coppola, che l’aveva messa su ed era molto ben veduto dal Re, il quale sulla banchina della stazione di Napoli gli porgeva spesso la mano per il riverente bacio, prima di confidargli la vita. Il Coppola vive tuttora, dopo aver prestato per circa trent’anni un lodevole servizio nelle ferrovie italiane, e dopo aver dato nel figlio Enrico, direttore della Napoli-Baiano, un distinto specialista per l’esercizio economico delle ferrovie.


Senza campanelli di allarme nè segnali speciali, inventati dopo lungo tempo, il capo macchinista era sulla macchina indipendente affatto dalla volontà del Sovrano che viaggiava. Ciò non essendo di prammatica, si trovò modo di rimediarvi, facendo viaggiare un capo convoglio sul predellino della vettura reale, afferrato alla maniglia o passamano dello sportello. Il capomacchinista guardava continuamente quell’infelice, messo li per trasmettergli gli ordini reali, di rallentare o di accelerare la corsa o anche di fermare il treno. Era incaricato di tale pericoloso ufficio un tale Marcellino Belli, che un giorno vi rischiò la vita. Preso da capogiro, era per cadere sulla via, quando, per sua fortuna, avvedutosene uno del seguìto, lo sorresse e lo fece entrare nel vagone reale, dove fu confortato e poi promosso. Da allora si rinunziò al segnale umano.

Il luogo più adatto per ottenere favori e grazie da Ferdinando II, che si compiaceva di parlar con tutti e di tutto, era il marciapiede della stazione di Napoli nel momento della partenza del treno reale. Gl’impiegati della ferrovia erano tenuti in concetto di fedelissimi. Un giorno appunto, sul famoso marciapiede, i capisquadra dell’officina veicoli chiesero al Re di lasciar fare ad ognuno di loro un vagone di modello differente ad uso dei viaggiatori, e il Re, cui piacque l’idea barocca, ne concesse l’attuazione. Sarebbero stati più degni di museo che di ferrovie, quei tipi, forzatamente dissimili, che furono trovati ancora in costruzione nel 1860. Basterà citarne uno di forma ellittica, con sculture in legno all’esterno, con leoni, dalla cui bocca uscivano le aste dei respingenti: tutto costruito in noce e con ferramenta potrei dire cesellate. Fu compiuto, e servi poi per brevi gite del Re Vittorio Emanuele.

Le vetture reali sulla linea Napoli—Caserta erano tre, e poco [p. 85 modifica]dissimili dalle nostre attuali carrozze-saloni. Quella, dove prendeva posto il Re, volgendo le spalle alla locomotiva, era foderata di velluto rosso e non aveva nessun segno distintivo, che indicasse il posto da lui occupato. Stranissima invece fu la carrozza reale, che servì ai primi viaggi sulla linea di Castellamare: era tutta scoperta, come una vettura di via rotabile, con la differenza che non potea chiudersi a volontà come quella. Era foderata interamente di damasco rosso e somigliava un vagone merci, riccamente addobbato: s’immagini un po’ la polvere, onde erano avvolti gli augusti viaggiatori. E nei primi anni nessun vagone per bagaglio o merci doveva intercedere fra la locomotiva e le vetture reali, per maggior sicurezza: soltanto la vettura in cui viaggiava il Re era collocata in mezzo ad altre due.


Dal 1843 al 1869, una volta sola Ferdinando II rischiò la vita in ferrovia, e fu prima del 1848, in una ricorrenza della festa di San Gennaro, quando, dopo aver assistito al miracolo, tornò a Caserta, dove erano stati spediti qualche ora prima i bagagli e sei cavalli storni bellissimi, dai quali fu tirata la vettura, che lo aveva condotto al duomo. Giunto il treno reale a Cancello, prima di entrare nella stazione, il macchinista Antonini, morto nel 1868 in un disastro ferroviario, non s’era accorto che il treno reale entrava in un binario, dove era fermo il treno dei cavalli. Ma il Coppola, capomacchinista, con fulminea prontezza, riusci a fermarlo, tanto da far sfondare con la locomotiva soltanto la parte dell’ultimo carro, dal quale uno dei cavalli scivolò sulla rotaia. Fermato il treno, il Coppola narrò l’accaduto al Re, che se n’era appena accorto. Questi, che sedeva fra i generali Cellammare e Saluzzo, scese subito dal treno, e considerato il pericolo corso, s’inginocchiò a capo scoperto sul marciapiede della stazione, e con tutti i presenti recitò tre avemmaria per ringraziare la Vergine, e una preghiera a San Gennaro, che lo aveva voluto miracolosamente salvo il giorno della festa sua. E rivolgendo la parola al Coppola, lo invitò a recarsi il dì appresso alla Reggia, desiderando rivederlo. L’indomani, il Galizia portò al Coppola, prima che questi si presentasse alla Reggia, una polizza del Banco di trecento ducati, ma questi se ne mostrò poco contento. Il Re, saputa la cosa, lo chiamò, nè il Coppola fu imbarazzato nel confermare il suo [p. 86 modifica]scontento, giacchè, più del danaro, tenea all’onore di essere ammesso alla presenza reale. Il Re aggiunse un aumento di dieci ducati allo stipendio mensile del suo salvatore e questi ne fu soddisfatto.

Ferdinando II amava fare con la massima rapidità i suoi viaggi; e i trentadue chilometri fino a Caserta glieli facevano percorrere in mezz’ora, con una velocità di sessantasei chilometri l’ora, che molti nostri treni diretti non raggiungono oggi. La maggior velocità ricordata fu quella di un viaggio del conte d’Aquila da Napoli a Santamaria: 40 chilometri in ventisette minuti, cioè 88 chilometri l’ora. La regina Maria Teresa, invece, preferiva andar piano, soprattutto quando conduceva o mandava i figli a Caserta. Diceva al Coppola: “Voi dovete andav piano come un somavello„.

Nessuna differenza sostanziale era fra i vagoni viaggiatori di allora e questi di oggi: pareti diritte e non sagomate, più bassi di soffitto, nessun esempio di terrazzini nelle testate, ma vi si saliva più comodamente, essendo i marciapiedi delle stazioni predisposti per entrare a livello del vagone, come si vede ancora a Nocera, a Cava, a Castellamare e com’è in Inghilterra. Però le terze classi erano tutte senza sedili, nè vi furon messi prima del 1860. Ciò permetteva insaccarvi quanta più gente volesse il capotreno. Talvolta, le prime classi erano a salone, come ne son rimaste alcune sulla linea di Castellamare. In seguito a una piccola sommossa d’impiegati malcontenti o liberali, come si disse, contro il Fonseca direttore delle ferrovie nel 1848, Ferdinando II, in omaggio alla pubblica opinione in apparenza, ma veramente perchè desiderava allontanare il Fonseca, divenuto potentissimo, lo destinò alla costruzione della linea Capua-Ceprano. Fra i dimostranti fu il Faucitano, condannato a morte tre anni dopo, per aver gettate fra la folla, che in piazza di San Francesco da Paola acclamava Pio IX, delle vipere vive, le quali produssero uno dei più epici fuie fuie3 che Napoli ricordi.

Curiosa l’amministrazione, che presedeva all’esercizio delle linee regie. Non di rado uomini integerrimi ne furono a capo, ma nelle classi inferiori la corruzione era grandissima e [p. 87 modifica]tollerata. Si esercitava principalmente sulle forniture. Un posto alla strada ferrata era il maggior premio, al quale potesse aspirare chi se ne sentiva degno, per meriti più o meno confessabili. Si sapeva che il magazziniere B. era protetto da quel generale e il capofficina C. da quella dama o camerista. Limite ai posti, nessuno; una parvenza di organici lasciava la porta aperta a una quantità rispettabile di soprannumeri e, oltre a questi, vi erano gli aspiranti al soprannumerato, i quali non avevano stipendio e dovevano quindi accomodarsi alla meglio: lo stipendio, per quelli che n’erano provveduti, era affatto ridevole. Curiosa amministrazione, dico, nella quale non si sognava neppure che potesse esservi un qualunque rapporto fra l’entrata e la spesa.

I biglietti ferroviari erano di carta colorata comune e di forma più grande degli attuali, di colori differenti, secondo le classi. Ricordo bene il giallo, il rosso e il bianco e ho sotto gli occhi un orario dei mesi di settembre e ottobre dell’anno, di cui ragiono, trovato fra le carte di mio padre, che passò quei mesi per motivi di salute in Torre del Greco. Quell’orario è della dimensione di un foglio quadrato di venti centimetri, scritto da una parte e dall’altra, con avvisi e annotazioni circa le tariffe per bagagli e piccoli oggetti. Sono curiosi alcuni avvisi. Alle persone di giacca e coppola, alle donne senza cappello, ai domestici in livrea, ai soldati e bassi uffiziali, si accordavano ribassi sulla terza classe, e ciò al fine d’impedire che cenciosi o sporcaccioni viaggiassero in ferrovia. Così da Portici a Napoli le persone di giacca e coppola pagavano in terza classe cinque grani, cioè un grano di meno. Il fine si raggiungeva in gran parte, perchè, se la differenza di terza classe fra Napoli e Portici era di un grano, da Napoli a Torre del Greco era di quattro; a Torre Annunziata, di otto; a Castellamare, di dieci; a Pompei e Scafati, di dodici e così via via.

Chi veniva dalle provincie prendeva il vapore, come allora si diceva, a poca distanza da Napoli: i calabresi e i basilischi, a Nocera; i pugliesi e gli avellinesi, a Nola; gli abruzzesi, a Capua, e i salernitani, a Sarno e a Nocera. Per i pugliesi era piuttosto un impaccio che un comodo, e però molti preferivano smontare con la stessa carrozza che li aveva condotti, direttamente a Porta Capuana, cioè all’ingresso di Napoli, o partire in carrozza dalle proprie locande, le quali per i pugliesi e per [p. 88 modifica]quasi tutt’i provinciali benestanti, erano quelle della via Fiorentini, dei Guantai e della Corsea.

Le concessioni ferroviarie per le grandi linee di Puglia, di Calabria e di Abruzzo, date da Ferdinando II nel 1855 e 1856, erano rimaste, come si è veduto, lettera morta. Francesco II ebbe in animo di accrescere le strade ferrate, accelerando i lavori in corso e costruendo la linea di Puglia, ma non ne ebbe il tempo. Egli ricordava bene le peripezie dell’ultimo viaggio in quelle provincie. Alcune concessioni nuove furon fatte soltanto nel breve e fortunoso periodo costituzionale. Tra le linee regie e quelle della società francese Bayard, concessionaria della Napoli-Portici, e che aveva spinte le sue rotaie fino a Castellamare da una parte, a Nocera e a Vietri dall’altra, il Regno d’Italia trovò nel Napoletano soli 226 chilometri di ferrovia, compresi quelli che furono aperti all’esercizio nel 1861. Il Piemonte e la Lombardia ne avevano in esercizio oltre mille e cinquecento e parecchie centinaia in costruzione. Se cominciarono più tardi, non si arrestarono così presto. La Sicilia, come si è detto, non aveva un chilometro solo di strada ferrata.

Il primo riordinamento delle ferrovie napoletane fu compiuto nel 1861 dall’ingegnere Ettore Alvino, che ebbe a suoi efficaci collaboratori due giovani intelligenti e coraggiosi, Francesco Martorelli e Alzimiro Lion. Tutt’e due, dopo avere studiata ingegneria all’Università, presero le armi nel 1860, e terminata la campagna, entrarono nell’amministrazione delle ferrovie; e il Martorelli, che i suoi amici chiamano ancora Checchino, fu più tardi un pezzo grosso nelle strade ferrate italiane. Quando il Grandis nel 1862 venne incaricato dal governo di consegnare le ferrovie napoletane alla società delle Romane, ebbe a maravigliarsi dell’opera riformatrice, che l’Alvino e i suoi collaboratori vi avevano compiuta in poco tempo.

Sindaco della città di Napoli era, dalla fine del 1867, il principe d’Alessandria, che lasciò fama di abile amministratore e fu consigliere comunale nel 1888 e nel 1889. Ferdinando II, seguendo la tradizione di porre a capo della città di Napoli patrizi napoletani non più doviziosi, lo aveva chiamato, dopo alcuni mesi d’interregno, a succedere a don Antonio Carafa di Noja. Il sindaco durava in ufficio tre anni, ma poteva essere confermato, e il Carafa aveva avute tre conferme. Nel 1866, il Re lo [p. 89 modifica]mise in riposo, continuandogli l’assegno sindacale di 160 ducati al mese, sino a che, come si leggeva nello stato discusso del Comune, non sarà promosso ad una competente carica. Questa promozione non giunse mai, e l’assegno gli fu pagato sino al 1862.

Il breve e agitato periodo costituzionale non portò alcuna innovazione nel Corpo della città di Napoli, ma Garibaldi il giorno 9 settembre 1860 fece tabula rasa di tutto l’antico.4 Garibaldi avrebbe voluto mantenere il principe d’Alessandria, che egli conobbe a Salerno la mattina del 7, e col quale giunse a Napoli, ma il D’Alessandria il giorno dopo mandò le sue dimissioni, ricevendone dal Romano, ministro della dittatura, questa risposta:

Nel nome dell’invitto Dittatore generale Garibaldi, son lieto di poterle manifestare i sentimenti della sua calda simpatia e viva stima pel modo come Ella ha, qual rappresentante del Municipio, provveduto sinora all’amministrazione del medesimo, ed ora alla transizione necessaria dal vecchio ordine di cose al nuovo.

Dolente il Dittatore di non potersi, per l’onorevolissima sua delicatezza, piuttosto unica che rara, continuare a giovarsi dell’opera sua, si riserba di farne tesoro non appena le circostanze glielo permetteranno.

Napoli, 8 settembre 1860.

firmato: L. Romano.


[p. 90 modifica]E dopo la nomina del nuovo sindaco in persona di Andrea Colonna, avvenuta il giorno 9 settembre, Garibaldi diresse al coerente sindaco che si ritirava, questa lettera molto onorevole:


Napoli, 10 settembre 1880.

Signore,

Il decreto, con cui ho provveduto alla nomina del suo successore nell’ufficio di Sindaco di questa capitale, è stato un omaggio che ho dovuto rendere alla sua politica delicatezza. So che l’opera sua, a giudizio dell’universale, è riuscita utilissima al Municipio, e di ciò, che la onora, io pure le rendo grazie. Confido che non sia lontano il momento in cui io possa rivederla in qualche pubblico ufficio, degno di Lei.

Soddisfo poi ad un bisogno del mio cuore, manifestandole la mia viva riconoscenza, pel modo veramente patriottico, con cui Ella ha adempiuto nel giorno 7 del corrente, alla missione affidatale, insieme al comandante della Guardia Nazionale.

Il Dittatore
firmato: G. Garibaldi.5



Il nuovo Decurionato si riunì la prima volta il 18 settembre sotto la presidenza del nuovo sindaco, Andrea Colonna, e come suo primo atto, deliberò di offrire a Garibaldi la cittadinanza napoletana e di presentare all’“illustre Dittatore dell’Italia meridionale, la sua adesione al Regno d’Italia, sotto lo scettro costituzionale del Re Vittorio Emmanuele„.


L’ultimo bilancio, detto stato-discusso, fu quello approvato nel 1858 e che doveva durare per il quinquennio 1858-1862. Le entrate comunali raggiungevano la cifra di 697370 ducati, e di questi rimanevano disponibili, ogni anno, 3000 ducati. Quei bilanci, redatti in modo chiarissimo, perchè a ciascun capitolo era annessa la sua spiegazione, rivelavano le condizioni di Napoli e le competenze del Decurionato: competenze e condizioni, che sdegnano qualunque paragone colle presenti. Basterebbe confrontare le cifre di quei bilanci, con quelle di oggi. Il maggior cespite di entrata erano i molini, non appaltati ma tenuti in amministrazione e che rendevano 40000 ducati; immediatamente dopo seguivano gli af&tti delle terre municipali, per 20000.

[p. 91 modifica]Trascuro i cespiti minori, per notare soltanto che il Comune aveva 2375 ducati di rendita iscritta sul gran libro. Tra le rendite straordinarie figurava in primo luogo la resta di cassa del precedente esercizio, che nell’ultimo bilancio ascendeva a mille ducati e che allora, in tutti gli esercizi finanziari, non mancava mai, come oggi, pur troppo, manca sempre. Modestissimo era il reddito presunto dalle multe per contravvenzioni alla polizia urbana e ai pesi e misure: appena centodieci ducati; e ancora più modesto, ridicolo quasi, l’altro, di quarantanove ducati, delle multe per contravvenzioni al contratto di illuminazione della città. Quasi 150000 ducati erano costituiti dal primo e secondo 3 % pagati dai proprietari di case in Napoli, e 8820 ducati dalla sovrimposta dei grani addizionali sulla fondiaria. Qual differenza con oggi! Il nuovo camposanto, a Poggio reale, dava al Comune una rendita annua di circa 15000 ducati.

Una delle entrate straordinarie più cospicue, ma che il Decurionato non riusciva mai a determinare in una cifra precisa, era quella dei 160 000 ducati, che la Tesoreria generale doveva sborsare come reddito della sovrimposta del primo e secondo 5 % sui dazi di consumo. Nello stato-discusso si legge: “Il collegio fa premura, che il conteggio venga subito eseguito, affin di conoscersi l’effettivo avere del Comune, e l’aumento che ne potrà risultare possa addirsi in aggiunzione alle somme destinate per opere di sovrano comando„. Parole buttate al vento. Altro capitolo, che figurava tra le rendite straordinarie meno sicure, era quello costituito dai rimborsi, che faceva il ministero della guerra per somministrazioni e trasporti militari, per i quali il Decurionato anticipava le spese. Capitolo non mai sicuro, perchè si segnava bensì nello stato-discusso, ma il ministero della guerra prorogava o diminuiva i versamenti, a suo piacere.

Ancora più interessante e curiosa è la parte che riguarda le spese. Circa 60000 ducati rappresentavano tutti gli stipendi agli impiegati, compresi i dodici giudici regi dei quartieri, e gli impiegati ai giardini e alla Real Villa di Capodimonte. Gl’impiegati di cancelleria erano settantuno, con stipendi che variavano da un massimo di cento ducati, quanti ne aveva il cancelliere maggiore, a un minimo di sei. Negli ultimi anni fu cancelliere maggiore Luigi Moltedo, succeduto nel 1850 a certo Carobelli e [p. 92 modifica]collocato in riposo nel gennaio del 1861. La trasformazione del cancelliere maggiore nel segretario generale, come si chiama oggi, avvenne in persona di Francesco Dinacci, che successe al Moltedo, ed ebbe alla sua volta per successore nel 1877, Carlo Cammarota, uomo di gran valore amministrativo e vera pietra angolare di quell’immensa azienda, in tutti questi anni di vita municipale agitatissima. Il Cammarota è oggi in riposo, come si è detto.

L’illuminazione costava 78 000 ducati, ma tranne Toledo, Chiaja, la Marina e Foria, scarsamente illuminate da rari fanali di un gaz molto scialbo, il resto della città era rischiarato ad intervalli da lampade ad olio e da lumi accesi sotto le sacre immagini, secondo i buoni ammonimenti del padre Rocco. Le spese di culto e di beneficenza assorbivano parecchie migliaia di ducati. Cinquecento ducati si spendevano per la festa del Corpus Domini, e al tesoro di San Gennaro se ne pagavano 4000 per il mantenimento della cappella del santo, come si pagano anche oggi. Le spese di culto per le chiese parrocchiali raggiungevano la cifra di circa quindici mila ducati, e per le riparazioni a dette chiese se ne spendevano quattro mila. Le offerte annuali ai santi patroni non costavano meno di due mila ducati, ed egual somma si stanziava pel dono da umiliarsi a Sua Maestà (D. G.) nella ricorrenza della Santa Pasqua e del Santo Natale. Questi doni consistevano, ordinariamente, in ortaggi e frutta fuori stagione, vitelli di Sorrento, lavori di ebanisteria ed altre cose pregiate o fastose, che i sindaci per ingraziarsi il Re di volta in volta, vi aggiungevano, sicchè la somma prevista era sempre superata. Il dono più sfarzoso che si ricordi, fu quello fatto a Ferdinando II dal sindaco Carafa, nel Natale del 1866, allo scopo di procurarsi, come si disse, la riconferma nell’ufficio sindacale per un altro triennio. Ma non gli riusci, nonostante che il Re, quando gli fu presentata la proposta di metterlo in riposo, dicesse: “Oh! mi dispiace assai di doverlo mandare a casa, proprio adesso che mi ha fatto quel bel regalo„. Nel Natale del 1869, a Francesco II il Decurionato offrì in dono una scrivania con sedia di ebano e tartaruga, e un armadio con finimenti di bronzo, stile Luigi XV. Il lavoro fu eseguito dall’ebanista Beniamino Perris, al quale si pagarono 750 ducati. Questi doni si trasportavano in modo solenne: era quasi una processione da [p. 93 modifica]Monteoliveto alla Reggia, e Toledo in quella occasione riboccava di spettatori. Nel Natale del 1860 e nella Pasqua del 1861, anche Vittorio Emanuele ebbe i suoi doni ed anche allora venne ecceduta la previsione del bilancio. Fu regalata tanta e tanta roba, che occorsero per trasportarla ben cinquanta facchini. Anche questi doni furono uguali a quelli che si facevano ai Borboni: due vitelle con ricche gualdrappe, che costarono settantaquattro ducati; mobili, fiori, frutta, dolci e confetture, oggetti di corallo e una statua pagata allo scultore Balzico settecento ducati, e che rappresentava una coquette del secolo XVI: grazioso lavoro che segnò l’inizio della fortuna del chiaro artista, perchè Vittorio Emanuele volle conoscerlo e gli affidò altri lavori.

Seicento ducati si distribuivano ai poveri per Natale e per Pasqua, e non poche opere di beneficenza gravavano sul bilancio comunale, dove figuravano, non molto largamente, le opere pubbliche. Cinquantamila ducati per la ricostruzione delle strade; 12 000 per la loro pulizia ed annaffiamento e 130000 per opere pubbliche di sovrano comando. Per avere un’idea delle somme stanziate per qualche speciale opera pubblica, ricordo che per la strada Maria Teresa, oggi corso Vittorio Emanuele, erano fissati 30 000 ducati; 6000, per la strada di Mergellina; 2000, per la strada San Giovanni a Carbonara; 10 000, per la copertura del canale di Carmignano; 15 000 per i lavori alle Fosse del grano e 4800 per la pescheria: cifre che fanno maraviglia oggi. Per le feste civili, cioè per gli onomastici ed i compleanni della famiglia reale, erano stabiliti 2500 ducati.

Ma a rompere l’armonia dello stato-discusso, vennero le nozze del duca di Calabria. In così fausta circostanza, onde esulti il popolo tutto di questa fedelissima metropoli, e duratura ne rimanga la ricordanza — così si legge nel verbale dell’adunanza del Decurionato del due gennaio 1859 — si stabili di spendere 12 000 ducati: 6000, in luminarie, musica e feste religiose; 3000, per elemosine ai poveri e 3000 per centoventi maritaggi, di 26 ducati ciascheduno. Altre spese si decretarono il 3 luglio 1859, per festeggiare il fausto avvenimento dell’ascensione al trono di S. M. Francesco II; 12 000 ducati per luminarie e feste; 3000 per elemosine e per maritaggi, nonchè quei 3000 ducati che non [p. 94 modifica]furono distribuiti in occasione delle nozze. Pel fondo ove gravare la cennata cifra di ducati 15 000 — concludeva la deliberazione — non trovandosi ancora approvato lo stato finanziero, il Decurionato ha opinato di pagarsi per ora a cassa aperta, e poscia regolarizzarsi con quelli articoli che offriranno latitudine. E si vuol sapere quali erano per il Decurionato gli articoli che offrivano maggiore latitudine? Erano la scuola nautica, a cui si sottraevano 1762 ducati; gli interessi ai propretari danneggiati per 4000 ducati; il convitto veterinario, cui si toglievano 150 ducati; ma le più malmenate furono le spese sanitarie, la cui cifra meschina di 1800 ducati fu ridotta a meno della metà!

I rapporti tra l’eccellentissimo Corpo della città di Napoli e il nuovo Re, non furono cordiali per un incidente che va riferito. Vero è che il Decurionato fece cantare il 4 febbraio un solenne Te Deum in duomo ed avrebbe pur celebrate le altre feste, stabilite per la fausta occasione delle nozze, se il principe di Bisignano non avesse comunicato da Bari, il 7 marzo, al sindaco, un ordine sovrano che le sospendeva. Vero è pure che altre feste il Comune aveva disposte, per l’avvento di Francesco II al trono, ma fu appunto questa circostanza, che diè origine ai dissensi fra il Decurionato e il nuovo Re. L’incidente avvenne nel solenne baciamano del 25 luglio, per il quale il sindaco aveva pubblicato il cerimoniale da seguirsi. Secondo questo cerimoniale, che il principe d’Alessandria aveva creduto opportuno ristampare, dopo che da vari anni la curiosa cerimonia non aveva più luogo, sarebbero stati ammessi a baciar la mano ai Sovrani, prima i generali, poi i reali paggi, indi la Consulta, quarto il Corpo della città e poi gli altri. Il Corpo della città di Napoli aveva comune con gli ambasciatori, i cavalieri gran croce di San Ferdinando e i Grandi di Spagna, il privilegio, che risaliva a un diploma di Carlo VI del 24 settembre 1711, di tenere il capo coperto alla presenza dei Sovrani. Gli Eletti si coprivano quando il sindaco pronunziava il discorso e restavano col cappello in testa anche durante la risposta del Re. Dopo il 15 maggio 1848, i discorsi furono aboliti e venne a mancare l’occasione di riaffermare il privilegio. Francesco II, si disse, aveva promesso di ripristinare e discorsi e privilegio, ma invece colse la prima circostanza per confermarne l’abolizione, la quale veramente maravigliò tutti e suscitò pettegolezzi infiniti. Il sindaco e gli [p. 95 modifica]eletti, tornati a Monteoliveto, stesero un verbale dell’avvenimento, e questo verbale che consacra alla storia le più minute circostanze di quel fatto, non è superfluo esumare, a più completa cognizione dei tempi. Eccolo: “L’Eccellentissimo Corpo della città di Napoli si è riunito in abito senatorio in gran gala, nella galleria di Monteoliveto presso la real Corte, a prendere parte, a seconda del cerimoniale di etichetta, al solenne baciamano, e complimentare con un discorso, solito a farsi in simili circostanze, S. M. il re Francesco II, per la sua assunzione al trono delle Due Sicilie. Giunto ai piedi della scala della Reggia, vi è stato ricevuto dall’usciere maggiore, ed alla porta superiore da S. E. il marchese di Pescara e Vasto, cerimoniere maggiore di S. M. D. G., il quale dirigendosi a S. E. il sindaco, gli ha detto che S. M. il Re volea che V Eccellentissimo Corpo della città di Napoli non si coprisse innanzi al Real Trono, avendo dato simile ordine per tutti gli altri Grandi di Spagna, ambasciatori e cavalieri G. C. di San Ferdinando, insino a quando S. E. il sindaco non venisse autorizzato a riprendere la parola nei solenni baciamani. Di tutto ciò si è preso atto nel presente verbale„.


Gli uffici del Comune avevano sede a Monteoliveto. Il loro passaggio a San Giacomo fu approvato dal ministero, su proposta del prefetto La Marmora nel 1862, e ancora attende la conferma dal potere legislativo. Nello stesso anno, dunque, cominciò l’esodo degli uffici. Il nuovo municipio occupò in San Giacomo gran parte del palazzo, anzi la parte migliore, che guarda la piazza e il mare. L’aula fu costruita al primo piano, ma essendo angusta per ottanta consiglieri, per i giornalisti e per il pubblico, il sindaco Capitelli ne fece costruire una più capace, al secondo piano, ch’è la presente. La divisione amministrativa del municipio nelle dodici sezioni, oltre i villaggi, rimase la stessa fino al sindacato del marchese di Campolattaro, che volle abolire le sezioni coi relativi vicesindaci e aggiunti, non so con quanto profitto dell’amministrazione municipale e comodo del pubblico. Gli storici carrozzoni, che servivano al sindaco e agli eletti per andare processionalmente a Piedigrotta, al Duomo e al Carmine a tagliare i capelli al Crocifisso, sono adesso al museo di San Martino.

Confrontando i due bilanci dell’ultimo Decurionato e del [p. 96 modifica]presente municipio, si vede e si giudica tutto il cammino percorso in 39 anni. Da uno stato-discusso di 697 370 ducati, a un bilancio di 23 milioni e mezzo di lire, quale cammino invero e quante opere compiute! Dal primo debito del 1861, di circa 15 milioni, contratto per le vivaci insistenze del luogotenente Cialdini, a quelli posteriori che raggiunsero i 160 milioni, quante occasioni di confronti e di studio, di orgogli e forse anche di pentimenti! Certo la città è ben altro di quella che era nel 1860. Chi la ricorda allora quasi non la riconosce, tanto rapida n’è stata la trasformazione esteriore. Era forse provvidenziale che avvenisse una grande sventura, come il colera del 1884, per procedere al cosiddetto risanamento, che, in nome della santa giustizia e dell’onore italiano^ lo Stato rese possibile, concorrendovi con cento milioni, senza i quali la città sarebbe rimasta, nei suoi quattro quartieri più popolosi, la stessa che fu ai tempi degli Spagnoli e dei Borboni: teatro d’immondizie materiali e morali e di epidemie permanenti. Le forze economiche della città, pur rendendo otto volte maggiore il bilancio comunale, mercè nuovi e gravi balzelli e quasi continui debiti, non sarebbero bastati a risanare Napoli. Per quanto lo sventramento non risponda a tutto ciò che se ne attendeva, e sia riuscita piuttosto una mediocre trasformazione edilizia che una buona opera sociale e morale, è sempre un’opera santa, e fra altri dieci anni, se sarà compita, collocherà Napoli non solo fra le più belle città del mondo, ma fra le più sane; e i due nomi che, nella numerosa serie dei sindaci, vanno particolarmente ricordati per le loro audacie e per le grandi cose che compirono o iniziarono, son quelli di Guglielmo Capitelli e di Niccola Amore.






Note

  1. Rivedendo queste pagine, non è senza commozione che ricordo il povero Alfredo Cottrau, morto nel maggio del 1898, non ancora sessantenne. Fu ingegnere di ferrovie e costruttore di molto talento, e fece col lavoro una cospicua fortuna.
  2. Vocabolo dialettale, che vuol dire buchi.
  3. Fuggi-fuggi.
  4. Erano Decurioni della città di Napoli, quando fu promulgato l’atto sovrano del 25 giugno, e continuarono ad esserlo sino al 9 settembre: Giuseppe Onofri, il principe di Roccella, Agostino Piarelli, Antonio Maiuri, Paolo Gonfalone, Raffaele Capobianco, Francesco Cappella, Gonaro Como, Matteo Fossetti, Giovanni Alberto Petitti, Giovanni de Horatiis, Luigi de Biase, Francesco Amato, conte Michele Gaetani, Luciano Serra duca di Cardinale, Francesco Spinelli dei principi di Scalea, Domenico Antonio Vacca, Vincenzo Napoletani, il commendatore Passante, Raffaele Curcio, il principe di Ardore, Giovanni Cianciulli, Antonio Mastrilli, marchese di Selice, Lorenzo Bianco, Stanislao d’Aloe, Luigi de Conciliis, Francesco Bruno, Ambrogio Mendia, Ferdinando Tommasi, Giuseppe Guida. Erano Eletti: per San Ferdinando, Luigi Masola dei marchesi di Trentola; per Chiaja, Alfonso de Giorgio; per San Giuseppe, Carlo Marnili, duca di San Cesario; per Montecalvario, Filippo Patroni Griffi; per Avvocata, Gaetano Altieri; per Stella, Giacomo Monforte; per San Carlo all’Arena, Francesco Parisi; per la Vicaria, Ippolito Porcinari; per San Lorenzo, Eugenio Crivelli dei duchi di Roccaimperiale; per Mercato, Michele Caracciolo, duca di Brienza; per Pendino, Ludovico Maria Paterno e per Porto, il marchese Tommaso Patrizi. I nomi degli Aggiunti è superfluo riferirli.
  5. Queste due lettere furono pubblicate nel Corriere di Napoli dal figlio del defunto ex sindaco, Carlo Pignone del Carretto, oggi principe di Alessandria.