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argenterie e quadri di qualche valore. Veramente, soltanto questi erano considerati i veri galantuomini, ai quali incombeva quasi il dovere di non far nulla, reputandosi disonorevole l’esercizio di una professione. Legame di ceto fra galantuomini pareva che vi fosse, ma nessuno ve n’era in realtà tra i ricchi e i non ricchi. Ciascuno viveva per se, e il mondo proprio era la propria famiglia, e neppur sempre, perchè non rari i casi di fiere avversioni e di liti clamorose tra i membri della stessa famiglia, quasi sempre per ragioni d’interesse. Naturalmente, i galantuomini ricchi erano i veri potenti e i soli temuti. Reputandosi una classe privilegiata, perchè la ricchezza garantiva in ogni caso l’impunità, guardavano con aria compassionevole quelli che non erano ricchi, e con la protezione delle autorità, esercitavano il locale dominio, quasi sempre a base di prepotenze e di favori. Ed era così radicata l’opinione che col denaro si ottenesse tutto, che il ricco era posto, per generale consenso e quasi per diritto naturale, in una condizione privilegiata. Questi ricchi di provincia, i più conosciuti, s’intende, avevano spesso parenti o persone influenti in Corte o nei ministeri e vi ricorrevano, non indarno, nelle occasioni. Alcuni conoscevano il Re e all’occorrenza si rivolgevano proprio a lui, senza intermediarli. L’uguaglianza di tutti innanzi alla legge era una convenzionale bugia che non maravigliava nessuno; e la vita sociale informata da un solo, vero e tenace sentimento, l’amore di sé, per cui avveniva che ciascuno godesse più delle disgrazie che delle fortune altrui, e si alternassero l’invidia e la compassione. L’ozio alimentava l’indiscrezione: l’ingerirsi dei fatti altrui e il tagliare i panni addosso al prossimo era la più dilettevole delle occupazioni, com’era quella del giuoco, alimentata anche dall’ozio, e che il governo non riusci mai a frenare. I principali giocatori avevano qualche celebrità e ogni paese contava i suoi. La cronaca del giuoco offriva una miniera di aneddoti caratteristici, e il clero dava un discreto contingente alla classe dei giocatori, né tra le signore mancavano giocatrici appassionate.
La ricchezza di rado sentiva alcun dovere sociale. Rarissimo il caso, in quegli anni, di qualche lascito pio. Ve ne fu uno nel 1855, che menò rumore. Paolo Tonti di Cerignola, ricco possidente, morendo il 7 marzo di quell’anno, destinò il suo vi-