La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XIX
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CAPITOLO XIX
Alle otto della mattina del 27 partirono i tre principi, con una parte del seguito. Alle nove, Ferdinando e Maria Teresa, ascoltata la messa nell’oratorio privato dell’Intendenza, ammisero al bacio della mano le autorità, riunite nella gran sala del palazzo. La cerimonia riusci piuttosto fredda. Il Re non rivolse la parola a nessuno, in particolare, nè piacevoleggiò con questo e con quello, come era suo costume. Si temette che fosse rimasto poco soddisfatto delle accoglienze ricevute; ma il vero è, che non si sentiva bene e aveva fretta di partire. Ringraziò il dottor Leone e gli fece dire dal colonnello Severino, che si riserbava di manifestargli la propria soddisfazione, appena giunto a Napoli.
Leone restò a Lecce, e Ramaglia, con l’assistente Capozzi, accompagnò il Re, il quale scese lentamente lo scalone, appoggiandosi al braccio del ricevitore generale Daspuro, cui disse, con accento triste: “Ricevitò, so f.... Me sent’a capa comm’a nu trommone„.1 Circa le 10, i Reali lasciarono Lecce, fra gli applausi della folla, che li accompagnò sin fuori le mura. I cocchi reali furon poi seguiti, per alcune miglia, dalle carrozze della nobiltà leccese. E la via da Lecce a Bari fu un nuovo cammino trionfale. Campi, Trepuzzi, Squinzano, San Pier Vernotico e i paesi vicini avevano innalzati i soliti archi di trionfo con iscrizioni più o meno gonfie; e accanto ad ogni arco si trovavano le rappresentanze municipali, e le guardie urbane con bandiere. Un’iscrizione di Campi diceva: La generazione de’ giusti da Dio benedetta — e la stirpe di San Luigi — non cesserà sino alla fine del mondo — Maria Teresa Regina ornamento del secolo nostro — per la pietà e per la purità della vita — sarà sempre la nostra madre — e la nostra mediatrice di grazie — presso il trono del Real Consorte.
Ma dimostrazioni più clamorose aveva preparate Brindisi. I brindisini eran tutti fuori dell’abitato, con il sindaco Pietro Consiglio, col sottointendente Mastroserio, che, zoppo per cronica infermità, aveva fama di zelantissimo ed era temuto, si diceva, persino dal Sozi Carafa; nonchè i sindaci, decurioni e guardie d’onore del circondario. All’ingresso della città, era stato rizzato un arco di trionfo, sul quale si leggeva questa curiosa epigrafe: Al benamato Sovrano — Restitutore della sua salute — Brindisi riconoscente — de’ suoi figli la vita — consacra. Attorno all’arco stava schierato un battaglione de’ cacciatori, con la banda municipale. I Sovrani si recarono direttamente al duomo, dove furono ricevuti, sotto il baldacchino, dall’arcivescovo monsignor Raffaele Ferrigno, buona e gioviale persona, che per la circostanza aveva indossato il pluviale fin dalle prime ore della mattina e si dava gran moto; dall’arcidiacono Tarantini, dotto uomo, che il Re già conosceva e dal capitolo tutto. Attraversarono l’ampia cattedrale, in mezzo a due fila di seminaristi e di canonici, dietro ai quali stavano soldati e gendarmi, e poi una turba di popolo. Il Re si moveva con difficoltà e sembrava che soffrisse molto. Avvicinatosi al presbiterio, notò, più avanti di tutti, un uomo completamente calvo; nè sapendo spiegarsene la presenza, diè ordine al colonnello Latour di farlo allontanare, chi disse per timore di jettatura, chi di un attentato. Non si seppe mai il nome di quel calvo. Fu fatto allontanare anche Alfonso Ercolini, distinto signore, perchè si disse che al Re non piacesse il suo portamento poco edificante in chiesa. Nella folla ruzzolò per terra un povero vecchio, uffiziale di presidio, e tanto vicino al Re, che questi si chinò come se volesse rialzarlo. L’arcivescovo, non comprendendo il grave stato di Ferdinando II, si affaccendava a trarlo rapidamente al presbiterio, del che il duca di Calabria lo richiamò più volte, tirandolo per il piviale, e monsignor Ferrigno, indispettito, nè sapendo chi potesse essere cosi scortese con lui, gridò napolitanamente: ““Guagliò, che buò? lasciarne sta„; ma visto poi chi era, fece mille scuse. Monsignor Ferrigno, nativo di Napoli, era stato vescovo a Bova, in provincia di Reggio, ed è morto pochi anni or sono, vecchissimo.
Cantato il Te Deum, e ricevuta la benedizione, il Re e tutto il seguito salirono sull’episcopio annesso alla chiesa, dov’era preparata una lauta refezione, e dove si compi il ricevimento delle autorità col relativo baciamano. Ferdinando II chiese all’arcivescovo notizie sui liberali di Brindisi, e specialmente su Giovanni Crudomonte; e monsignor Ferrigno lo assicurò che Brindisi era città tranquilla, e che il Crudomonte e gli altri non erano poi così nemici della dinastia, come gli si era fatto credere. Il sottointendente aveva fatto chiamare, qualche giorno prima, Francesco Crudomonte, figliuolo di Giovanni, condannato a ventiquattr’anni di ferri per i fatti del 1848, e chiuso nel bagno di Procida, e gli aveva ingiunto, per mezzo del commissario di polizia, di radersi la barba, simbolo, come già altrove si è detto, di tendenze rivoluzionarie. Il Re era sofferentissimo e, benchè tutto avvolto nell’ampio mantello alla russa, tremava dal freddo. Dichiarò di non voler prendere cibo, e alle insistenze della Regina e dell’arcivescovo, perchè mangiasse qualche cosa, prese un’ostrica, di quelle gigantesche che si trovavano allora nel porto di Brindisi, la divise in quattro, e dicendo con molta cavalleria: “Questa la mangio perch’è veramente brindisina„; ne inghiottì una parte soltanto. Gli altri pranzarono lautamente, ma in gran fretta, chi in piedi e chi seduto, e v’è chi afferma di aver visto il duca di Calabria mangiare un pollo dietro i vetri di una finestra. Egli si divertiva a motteggiare l’arcivescovo, che era rimasto in pluviale e fece grandi lodi del pane di Brindisi, che trovava eccellente. Al tocco si discese dall’episcopio; le carrozze erano pronte, e fra le grida, non molto clamorose della folla, e gli augurii e gl’inchini delle autorità, si partì per Bari.
Da Brindisi a Bari, nuovi archi di trionfo e dimostrazioni di gioia e di ossequio, da parte degli abitanti di San Vito, Carovigno, Fasano, Monopoli, Mola, Polignano, Noia, i quali con le proprie autorità, corporazioni religiose e guardie urbane, con bande e bandiere, erano ragunati lungo la strada e acclamavano a perdita di fiato. Solo ad Ostuni nqn furono calde le accoglienze; e, bencbè vi si fosse fatta sosta pel cambio di cavalli, non si udirono grida di festa. Essendovi piuttosto numerosi i liberali, questi avevano data la parola d’ordine di astenersi da ogni dimostrazione. A Mola erano andati a incontrare i Sovrani l’arcivescovo di Bari, monsignor Pedicini, l’intendente Mandarini, il procuratore generale della Corte criminale, Lillo, e il direttore dei dazi indiretti, Margiotta. A Bari non si giunse che alle 9 e mezzo, e il Re apparve visibilmente abbattuto.
Le accoglienze di Bari, dove i Sovrani erano attesi fin dal giorno 15, superarono in grandiosità tutte le altre. Giulio Petroni, che ne fu testimonio oculare e fece parte di una dell© commissioni, che all’uopo si formarono, le ha narrate nel secondo volume della sua storia di Bari, in tutti i loro particolari. Il telegrafo elettrico, unicamente occupato per i dispacci governativi, era insufficiente a trasmettere tutti i dispacci d’ufficio. In nessuna città, come in quella, furono staccati i cavalli dalia carrozza reale, che fu trascinata a braccia per le vie, fra grida assordanti. Il Re ricevette gli omaggi del sindaco, Giuseppe Capriati, delle autorità, dei capitoli palatino e metropolitano, dei seminaristi e delle confraternite, sotto l’arco trionfale di stile gotico innalzato all’ingresso della città, e sul quale arco era scritto: Alle auguste maestà — di Ferdinando II e Maria Teresa — Bari riconoscentissima. Nè il Re, nè i principi discesero dalle carrozze. Gli archi erano illuminati da lanternini di vetro, detti lamparielll, d’un bellissimo effetto. Alcune confraternite ebbero l’infelice idea di mandare i proprii rappresentanti vestiti del sacco, e questi fratelloni con le torce accese in mano, come le avevano tutti, davano alla cerimonia l’apparenza di un mortorio. Ma la nota più malinconica era data dall’incedere abbattuto del Re, con la barba e i capelli incolti e completamente canuti. Con visibile sforzo egli rispondeva agli evviva del popolo, agitando, fuori lo sportello della vettura, un fazzoletto bianco. Dall’arco di trionfo al palazzo dell’Intendenza, fu tutta una baldoria. Arrivato il corteo di fronte al palazzo, la folla fece tal ressa per entrare nell’atrio, che Ferdinando II ne fu quasi impaurito, e protestò che non sarebbe sceso se non si fosse sgombrato l’atrio. I gendarmi a cavallo, comandati dal loro capitano De Curtis, distribuendo piattonate a destra e a sinistra, fecero largo; l’atrio fu così sgombrato e il Re, con molte precauzioni, scese dalla carrozza, e dato il braccio alla Regina, cominciò a salire penosamente le scale. A monsignor Rossini, arcivescovo di Matera, che gli chiese conto della sua salute, rispose: “Monsignò, sto nu pucurillo acciso„.2
Le scale dell’Intendenza presentavano un aspetto imponente. Signore, signori, vescovi e arcivescovi facevano ala, con ceri accesi in mano. La signora Mandarini, moglie dell’intendente, la signora Capriati, moglie del sindaco, la signora Pappalepore e la baronessa D’Amely formavano la commissione per ricevere la Regina; e Vito Pappalepore, il conte Massenzio Filo, Enrico Capriati, Gerardo Sirone e Niccola Pollio formavano la commissione per le feste. Altri gentiluomini baresi erano schierati a destra e a sinistra. Il Re saliva a stento, fermandosi ogni tre o quattro scalini, e sostando a lungo su gli ampii pianerottoli. Arrivato nel suo appartamento, non volle mangiar nulla; ma, chiamato dalle grida assordanti della folla al balcone, vi comparve un momento. La città era illuminata a festoni e ad archi trionfali, costruiti sotto la direzione dell’architetto Lofoco, mentre i trasparenti erano stati dipinti dai pittori Zito e Sorace. Al Re era tornato acutissimo il dolore al femore; non si reggeva e volle andare subito a letto. Lo svestirono con ogni cura la Regina, Ramaglia e Galizia. L’appartamento del Re e quelli dei principi erano stati addobbati alla meglio, con mobili e soprammobili forniti dalle principali famiglie di Bari: Capriati, De Gemmis, Pappalepore, Elia. L’Intendenza era divenuta una locanda. Alcuni del seguito presero alloggio in case private; il Murena e il Bianchini in casa Diana.
Ferdinando II non potè l’indomani levarsi, ma le feste non vennero per questo sospese. Tutta la provincia era convenuta a Bari. Vi erano circa centocinquanta guardie d’onore, comandate da Filippo Esperti e Tommaso Melodia, caposquadroni delle guardie di Terra di Bari. Dalla mattina alla sera, le bande musicali suonavano nelle piazze, e la sera c’erano luminarie © fuochi d’artifìcio e s’innalzavano centinaia di palloni, dalle forme bizzarre. Bari era in preda alla più pazza gioia. Ferdinando II, dalla camera dove giaceva in letto, vedeva con un senso di pena le luminarie della facciata del teatro e udiva le grida della folla. A nessuno era permesso avvicinarsi al palazzo. Un cordone di soldati guardava l’Intendenza, e due sentinelle, giorno e notte, ne custodivano il portone. Nel secondo giorno avvenne un curioso incidente. Un tal Lapegna, arrampicatosi su per le sporgenze dei fregi di stucco della facciata, e quindi afferratosi a uno dei fanali del balcone di sinistra, riusci a superare la ringhiera del gran balcone di mezzo, che era quello della camera da letto del Re, il quale, come vide dietro i vetri uno sconosciuto che metteva le mani in tasca per presentare una supplica, fu preso da paura e si diè a gridare. Il Lapegna venne arrestato dal capitano de Curtis e tenuto in prigione, per qualche giorno. I principali proprietarii della provincia avevano mandati copiosi doni di latticini, di caccia, agrumi, fruttar e vini dolci; ma il Re poco o nulla potè gustarne per le sue condizioni di salute, e, in gran parte, quelle ghiottornie vennero mangiate dal servidorame.
La maggior attenzione di quanti erano convenuti a Bari in questa circostanza fu richiamata dai lavori del nuovo porto, del quale avevano l’appalto i fratelli Beltrani di Trani. Andarono a vedere questi lavori, il giorno appresso all’arrivo, accompagnati dall’intendente, il ministro Murena, il direttore Bianchini, il duca di Sangro e il generale Ferrari, e ne rimasero soddisfatti. Il Murena, nel rimontare in carrozza, disse all’intendente: “Dirò tali e tante cose a S. M., da infervorarla in uno di questi giorni a venire a veder l’opera, od almeno, quando ciò riesca impossibile, da farla vedere da S. A. il Principe„ . E di fatti, quattro giorni dopo, il duca di Calabria e i suoi fratelli, accompagnati dal loro seguito, visitarono minutamente i lavori, de’ quali Francesco fu stupito, si da esclamare ad ogni momento: “Che bella cosa! Che bella cosa!„ E, scendendo per la scaletta del nuovo muraglione, aggiungeva: “Proseguite a far così bene come sinora„ . Continuò la visita per tutta la lunghezza del molo, e chiamati gl’ingegneri, raccomandò loro di non badare a spese, soprattutto per la gettata della scogliera, perchè, qualche centinaio di ducati spesi di più ora, varranno — egli disse — a non farne spendere quattrocentomila in seguito„ . Durante la visita, un legno inglese, ancorato nel porto, faceva le salve di uso, alle quali rispondevano i legni della regia marina. Dopo la visita al porto, in quel giorno stesso, nel pomeriggio, il duca di Calabria, il conte di Trani e il conte di Caserta andarono a Oapurso, a visitare il santuario della Madonna del Pozzo, e alle cinque rientrarono a palazzo. La Regina in quei giorni acquistò a Bari molti oggetti di porcellana e di cristallo, candelabri ed altro, esprimendo la sua maraviglia di trovare in provincia cosi belle cose e destinandole in regali, o in addobbi del palazzo.
In tre giorni dall’arrivo a Bari, non si era verificato alcun miglioramento nella salute di Ferdinando II. I medici lo consigliavano, anzi lo pregavano che non partisse, e neppure lui ne aveva desiderio e forza. Ma, non essendo più possibile ritardare la venuta della duchessa di Calabria, il Re, nel giorno 30 gennaio, fece noto quanto si era stabilito con gli arciduchi a Lecce, che cioè la sposa, non più a Manfredonia, ma a Bari sarebbe sbarcata. E poichè gli ufficiali di marina avevano consigliato di preferire il nuovo porto al vecchio, potendo in quello meglio approssimarsi alla banchina i grossi bastimenti a vapore, furono cominciati nel nuovo porto i lavori. Ma poi si mutò avviso, e fu scelto il vecchio porto, dove si sarebbe costruito un ponte dal lido sino a raggiungere la profondità di un metro, necessaria alle imbarcazioni: ponte che sarebbe cominciato in fondo al grande Corso; e in tal modo Maria Sofia, arrivando, avrebbe ricevuto buona impressione della città.
Stabilito così lo sbarco ne venne dato avviso ufficiale a Vienna, a Trieste, a Napoli e a Bari, dove il Re fece sospendere le feste, sino all’arrivo di Maria Sofia e ordinò, che tutte le spese per il mantenimento della Corte a Bari fossero sostenute dalla Casa Reale, ma amministrate dalla commissione per le feste, la quale divise le varie competenze tra i suoi componenti e assunse il governo interno del palazzo, cercando di mettere un po’ d’ordine nella confusione magna dei primi giorni.
I preparativi per ricevere la sposa e per allestire gli alloggi dei personaggi, che sarebbero venuti ad assistere alla cerimonia, furono condotti alacremente. Il comune prese in fitto la casa Lamberti, che converti in foresteria: le principali famiglie baresi, l’arcivescovo e il gran priore di San Niccola si dichiararono pronti ad alloggiare altri personaggi. Da Napoli giunsero abili paratori e tappezzieri, cha trasformarono il salone dell’Intendenza in cappella per la cerimonia nuziale e apparecchiarono la camera da letto degli sposi. Enrico Capriati sopraintendeva al servizio del vitto e alle cose segrete, come si diceva allora, avendo alla sua dipendenza Vito di Gese, più generalmente noto sotto il nome di Vito di Dio, primo cuoco e primo albergatore di Bari; ma nè l’uno, nè l’altro potettero impedire dei trafugamenti. La loro attività nel provvedere a quanto occorreva era grandissima, perchè non c’erano ferrovie, e Bari d’allora non era Bari di oggi. Si faceva venire roba da Trieste per mezzo dei vapori del Loyd, che approdavano a Molfetta due volte la settimana, e per mezzo della messaggiera postale, che arrivava da Napoli ogni giorno. Si facevano provviste all’ingrosso, credendo di far meglio, ed era peggio, perchè la roba, consegnata alla signora Mandarini, moglie dell’intendente, la quale sopraintendeva alla cucina, andava dissipata e rapita dal servidorame. Un giorno il Capriati fece consegnare ottocento uova, e due giorni dopo, gliene furono richieste altre, perchè le uova consegnate erano state rivendute. Un altro giorno, un dignitario di Corte disse allo stesso Capriati, che bisognava nei conti accrescere di qualche migliaio il numero delle candele, le quali servivano per l’illuminazione interna di tutto il palazzo, e ad una risposta ingenua del Capriati replicò che, dal momento che pagava Casa Reale, era sciocchezza non aumentare le spese a beneficio del seguito di Sua Maestà.
La cucina reale serviva al Re, alla Regina e ai principi. Ogni sera, prima di cena, la Regina in una sala raccoglieva tutt’i signori del seguito e i familiari e con essi recitava il rosario. Dopo questo, si facevano altre speciali preghiere per la guarigione del Re, il quale, nei momenti che la malattia meno lo tormentava, attendeva col Murena e col Bianchini, agli affari dello Stato e, col Mandarini, a quelli della provincia. Decretò per Bari un tribunale di commercio e nuovi edifizii per il liceo, per il convitto, per la scuola nautica e la Società economica e approvò un prestito per i lavori del nuovo porto, continuando l’annua sovvenzione di 30 000 ducati dalla cassa della Tesoreria.
La duchessa di Calabria, con la sua Corte, bavarese e napoletana, lasciò Vienna il 30 gennaio. L’accompagnarono l’Imperatrice e il principe Luigi, loro fratello. Passarono la notte a Lubiana e giunsero a Trieste, a mezzodì del 31. Alloggiarono nel palazzo del governatore, e fu convenuto che la consegna della sposa, da parte del commissario plenipotenziario bavarese, conte di Rechberg, al regio commissario plenipotenziario di Napoli, duca di Serracapriola, si sarebbe fatta nella galleria di quel palazzo, all’una e mezza del giorno dopo. La cerimonia fu bizzarra e ricordò quella che aveva avuto luogo a Vienna, quando l’arciduchessa Maria Luigia era partita per la Francia, sposa di Napoleone I. Nel mezzo del salone si tracciò una linea, che raffigurava la divisione fra il territorio napoletano e il bavarese; sulla linea fu collocato un tavolino, coperto da un tappeto di velluto cremisi a frange d’oro, e ai due lati opposti del tavolo, due sedie a braccioli. Nella galleria si entrava per due porte: sopra una, erano collocate le bandiere e gli stemmi napoletani, e la custodivano guardie marine napoletane; sull’altra, le bandiere e gli stemmi di Baviera, e vi erano guardie imperiali di gendarmeria. All’ora fissata si trovarono, dalla parte del territorio napoletano insieme al plenipotenziario, il duca di Laurenzana, la principessa di Partanna e la duchessa di San Cesario: il primo cavallerizzo, le altre, dame della duchessa di Calabria, il segretario del duca di Serracapriola, De Bouquai, che ne lesse più tardi le credenziali ed il contrammiraglio Roberti, con gli ufficiali del Tancredi e del Fulminante. Dalla parte del territorio bavarese entrò la duchessa di Calabria, col suo seguito. L’Imperatrice e il principe Luigi assistevano da una tribuna. I due plenipotenziarii si avanzarono verso la linea di divisione e, vicendevolmente, lessero le credenziali. Il conte di Rechberg rivolse dopo ciò alcune parole di commiato a Maria Sofia, la quale, alzatasi in piedi, ammise in atto di congedo il suo seguito al bacio della mano. Poi il conte di Rechberg, presa la duchessa di Calabria per mano, la condusse fino alla linea di divisione e la consegnò al duca di Serracapriola, che la fece sedere su una poltrona nel territorio napoletano, rivolgendole un breve discorso di circostanza, e presentandole il seguito. Cosi ebbe termine la curiosa cerimonia, che durò un’ora. La duchessa di Calabria usci per la porta, cui sovrastavano le armi napoletane, e alle tre salì sul Fulminante. L’accompagnarono a bordo l’Imperatrice e il principe Luigi. Il Fulminante, seguito dal Tancredi, sul quale s’imbarcò un’altra parte del seguito, levò l’ancora alle 4 pomeridiane del primo febbraio, dal porto di Trieste, sotto il comando, come si è detto, del contrammiraglio Roberti. Il giorno innanzi, il vapore il Tasso aveva lasciato Bari per rilevare la truppa di Capitanata e trasportare il corredo preparato a Manfredonia.
La partenza della duchessa di Calabria fu telegrafata da Trieste a Bari, dove si dava l’ultima mano ai preparativi per il ricevimento della sposa. Ogni giorno arrivavano nuovi personaggi, e, tra i più notevoli, il marchese Imperiale, cavallerizzo maggiore; il marchese del Vasto, primo cerimoniere; il conte Statella, maresciallo di campo e cerimoniere di Corte soprannumerario il generale Alessandro Nunziante, il principe di Buffano e il generale Caracciolo di San Vito. Imperiale e Buffano partirono insieme da Napoli, accompagnati dai due impiegati della segreteria particolare del Be, Giovanni Amati e Buitz de Balestreros, che poi fu segretario particolare di Francesco II. Giunti a Foggia, ebbero ordine telegrafico di fermarsi colà, perchè a Bari non vi era modo di alloggiarli. Dopo qualche giorno Buffano e Imperiale proseguirono per Bari, ma Amati e Buitz tornarono a Napoli. A Foggia erano pure parecchi servi di cucina, che più tardi raggiunsero la Corte a Bari. Il Re ordinò che a Bari si recassero alcune compagnie di granatieri della guardia reale, due squadroni di dragoni, nonché cacciatori e gendarmi a cavallo. Rinascevano gli entusiasmi, che, per qualche giorno, lo stato di salute del Sovrano aveva sopiti.
Il dì seguente, altre feste per l’arrivo degli arciduchi Guglielmo e Ranieri e dell’arciduchessa Maria. L’intendente, per ordine sovrano, andò a incontrarli a Giovinazzo. Gli arciduchi erano arrivati a Napoli, a bordo dell’Elisabetta, il 30 gennaio, e andarono subito a salutare la famiglia regnante di Toscana, la quale vi era giunta il 22, prendendo alloggio alla Foresteria, per assistere alle feste nuziali, non ostante l’ansia in cui viveva per la malattia della giovane arciduchessa Anna, moglie del principe ereditario Ferdinando. La famiglia granducale era quasi al completo. Oltre al granduca Leopoldo, alla granduchessa Maria Antonia, sorella del Re, all’arciduca e all’arciduchessa ereditarii, all’arciduca Carlo e all’arciduchessa Maria Luisa, ultimi dei sei figliuoli di Leopoldo II, c’era un seguito numeroso. L’arciduchessa Anna, di 23 anni, sorella minore della duchessa di Genova, infermatasi a Firenze, era curata dai medici fiorentini Capecchi e Del Punta. Il granduca aveva chiesto al Re un buon medico napoletano, e il Re aveva mandato a Firenze don Franco Rosati, nel quale riponeva una fiducia assai maggiore che nel Ramaglia. Sotto le cure del Rosati la principessa parve guarita; ma quando la famiglia granducale venne a Napoli, il male riapparve e, in breve, degenerò in tisi. La curò anche in Napoli il Rosati, che abitava nello stesso palazzo della Foresteria, e si chiamò pure da Firenze il Del Punta, che giunse solo in tempo per firmare col Rosati gli ultimi bollettini. Morì il 10 febbraio; e, percossa da sì grave sciagura, la famiglia non ebbe più l’animo di rimanere a Napoli, e fatto quindi trasportare, due giorni dopo la morte, il cadavere della povera arciduchessa a Firenze, dove trovò sepoltura in San Lorenzo, l’addolorata famiglia partì, la mattina del 21 febbraio, imbarcandosi per Livorno. I napoletani restarono maravigliati della semplicità della Corte toscana. Il Granduca, noto nella Corte col nome di Popò di Toscana, per distinguerlo da Popò, conte di Siracusa; e l’uno e l’altro chiamati familiarmente dai figliuoli di Ferdinando II, zì Popò, faceva lunghe passeggiate a piedi, entrava nei cafi^, pagando per lo più una piastra e rifiutando il resto. Così avvenne, che fu un giorno riconosciuto al caffè di Testa d’oro e festeggiato dai camerieri e dal padrone. Un lungo viaggio da Firenze a Napoli, una grave disgrazia domestica e un ritorno malinconico, senza vedere i Sovrani, né gli sposi, commossero profondamente gli animi de* napoletani. L’arciduca Ferdinando si consolò però ben presto della perdita della buona e graziosa moglie, passando a seconde nozze, due anni dopo, colla figliuola della duchessa di Parma. Le maniere di lui, piuttosto rudi e qualche volta violente, mal si confacevano con quelle della arciduchessa, e quel matrimonio non fu modello di felicità coniugale.
Gli arciduchi d’Austria, dunque, giunti la mattina del 30 da Palermo, andarono il 31 a Caserta per visitare i piccoli principi, e le principesse. Ne tornarono lo stesso giorno, assistettero, la sera, allo spettacolo del San Carlo e ripartirono, la notte, per Bari, con vetture speciali di posta. Avevano salute di ferro e mantennero la promessa fatta al Re, a Lecce, due settimane prima.
Quel giovedì, 3 di febbraio, fu una giornata di primavera. Il mare tranquillo aveva la sua caratteristica tinta azzurra carica, per cui si disegnavano, distintamente, sul lontano orizzonte, le ampie e bianche vele latine delle tradizionali “paranze„.3 Le strade, che conducevano a Bari, formicolavano di carrozze da viaggio e signorili, e di chars à bancs. Da ogni parte della provincia, ma soprattutto, da Barletta e da Trani, da Bisceglie e da Molfetta, da Bitonto e da Cerato, da Terlizzi, da Mola e da Fasano, accorreva gente a frotte. I grossi casali intorno Bari rimasero quasi vuoti. Non duchessa di Calabria, non duchessa di Baviera, la sposa era stata battezzata col nome familiare di Maria Sofia. L’iperbole pugliese si sfogava ampiamente sul conto di lei. Si decantava la bellezza della sua persona, la nobiltà del portamento, l’aristocrazia delle maniere, i suoi gusti e l’eleganza delle sue acconciature. Nessuno l’aveva vista, ma tutti ne parlavano, come se fossero stati a Monaco per anni e anni e ne avessero goduta la confidenza, e avidi ne aspettavano una parola, un segno, uno sguardo di considerazione benigna. Bari era splendida per movimento, non mai veduto; per importanza e numero di personaggi che ospitava e per lo storico avvenimento, che si compiva dentro le sue mura. Non vi era famiglia senza ospiti; e le case più distinte alloggiavano i personaggi di maggior conto. All’Intendenza, oltre alle Loro Maestà e ai tre principi, dimoravano, al secondo piano, gli arciduchi d’Austria e al mezzanino, il principe e la principessa della Scaletta. Il Re, la Regina e i principi occupavano tutto il primo piano, e l’ampia sala, che ora serve alle adunanze del Consiglio provinciale, era stata trasformata in salone da pranzo. All’Intendenza doveva prendere alloggio anche il seguito della duchessa di Calabria, onde non vi rimase camera vuota. L’intendente e la sua signora si erano adattati in due camere remote del secondo piano.
I preparativi non avevano tregua. La commissione per le feste e singolarmente, Enrico Capriati, dava prova di singolare abilità, dovendo provvedere a tante cose. Erano state nominate per i principi e gli arciduchi altre commissioni di ricevimento e di cerimonie, e una di giovani delle primarie famiglie e più distinti negli studi. Ma una nota triste dominava in quell’allegria ufficiale: il Re aveva passata la notte fra atroci sofferenze. Ramaglia adoperò tutte le risorse della professione per lenirgli i dolori, ma invano. Aveva la febbre, non trovava requie in letto, ne gli bastava la forza di stare in piedi. Dimagrava a vista d’occhio e le preoccupazioni morali rendevano più grave lo stato suo. Non era possibile che uscisse per andar incontro alla sposa, e neppure che si levasse un momento, per assistere alla benedizione nuziale, che si compiva a due camere di distanza dalla sua. Aver affrontato quel viaggio nelle condizioni descritte, per prender parte al matrimonio del suo caro Lasa, e non potervi assistere era estremamente triste per lui.
Alle dieci un colpo di cannone annunziò che il Fulminante e il Tancredi erano in vista. Mossero dal palazzo dell’Intendenza e s’avviarono al padiglione, appositamente eretto allo scalo^ le autorità e i personaggi ufficiali in grande uniforme, il cerimoniere Statella, il sindaco Capriati e, insieme con loro, i vescovi della provincia, convenuti a Bari, non che monsignor Gallo, confessore della Regina, e monsignor Rossini, arcivescovo di Acerenza e Matera. Lungo il corso Ferdinando, erano schierate le truppe, sotto il comando del generale Caracciolo di San Vito; il padiglione di sbarco era custodito dalle guardie d’onore e dai granatieri, e i due moli del porto, dalle guardie doganali. I legni mercantili erano parati a festa e le bande musicali non cessavano di sonare l’inno borbonico. Appena il Fulminante dette fondo, furono sparati cento colpi di cannone dal castello, e ogni colpo veniva ripetuto dai grossi bastimenti e dalle barche doganali. Sin dalle prime ore della mattina, l’ampio Corso e la più ampia via della piazza coperta e le mura bizantine che scendono a picco nel mare, erano gremite di una folla straordinaria e pittoresca.
Il corteggio reale era formato da dieci carrozze, circondate e seguite da guardie d’onore a cavallo. Era uno spettacolo imponente, ma il Re non c’era. A spiegare i commenti della folla circa l’assenza di lui, si fece correre la voce, che Sua Maestà non aveva voluto esporsi alla brezza marina, essendo ancora indisposto. Nella prima carrozza sedevano il marchese Imperiale, il duca di Sangro e il principe della Scaletta; nella seconda la Regina e il duca di Calabria, in divisa di colonnello degli usseri, con la fascia di San Gennaro e il Toson d’oro; nella terza, 1 conti di Trani e di Caserta, coi colonnelli Cappetta e Nicoli; nella quarta, gli arciduchi Guglielmo e Ranieri e l’arciduchessa Maria, e nelle altre carrozze Murena, Bianchini in grande uniforme, la principessa della Scaletta, la baronessa Andriana, dama di compagnia dell’arciduchessa Maria, i generali Ferrari, Del Re e Nunziante, e i colonnelli Severino e Latour. Le carrozze procedevano lente, in mezzo al popolo festante. Giunti al padiglione, il duca di Calabria, la Regina, i principi e gli arciduchi, accompagnati dalla principessa della Scaletta, dal marchese Imperiale e dai generali Ferrari e Del Re, montarono su ricche lance e andarono a bordo. La lancia reale era comandata dall’ufficiale Vincenzo Criscuolo, figlio di don Raffaele.
Grande l’animazione a bordo della fregata. La duchessa di Calabria aveva un po’ sofferto lungo il tragitto; era piuttosto pallida, anche per l’emozione e col binoccolo guardava la città, il porto e il padiglione. Più che dalle dame di compagnia, partite con lei da Trieste, era stata assistita da donna Nina Rizzo, la quale non si tolse un momento dal suo fianco e, fin d’allora, prese su lei quel forte ascendente, che crebbe in seguito, come si vedrà. A lei, e al maggiordomo Leopoldo Raucci, Maria Sofia aveva più volte domandato, con infantile curiosità, durante il viaggio, se il duca di Calabria fosse veramente brutto, come n’era corsa voce a Monaco; e donna Nina e il Raucci l’avevano rassicurata che non era punto brutto ed era poi tanto buono; ma quando lo vide nella lancia reale, nel bel costume di colonnello degli usseri, ne riportò una grata impressione, e dogli incontro sulla scaletta, con molta disinvoltura gli porse la mano e lo salutò con queste parole: “Bon jour, Francois„. Ed egli afferrandole tutte e due le mani, la baciò in fronte, dicendole, non senza qualche imbarazzo: “Bon jour, Marie„, e rimasero soli a parlare in un angolo del bastimento, sino a che non fu tutto pronto per lo sbarco. La duchessa fu abbracciata e baciata da Maria Teresa, che le presentò i suoi figli, anch’essi in divisa militare. Le domande della duchessa non avevano tregua. Chiese della salute del Re e mostrossi dolente di non vederlo; chiese della città e di tante cose, alle quali domande Francesco rispondeva impacciato, sia per l’emozione di trovarsi innanzi alla sposa, più bella ancora del suo ritratto, sia perchè, pur conoscendo il francese, lo parlava con difficoltà. Poi si montò nelle lance e si scese a terra. Nel padiglione fu fatta la presentazione dei rispettivi seguiti e delle autorità; e indi con lo stesso ordine di prima, il corteo si diresse all’Intendenza. La sposa vestiva un elegante abito da viaggio, con magnifiche pellicce, e fu naturalmente la più festeggiata. I suoi occhi neri, i copiosi capelli castagni, bizzarramente acconciati, l’alta ed elegante persona, l’espressione dolce e infantile del volto, e tutta l’aria di grande dama le conquistarono ad un tratto le simpatie di tutti, che a coro la proclamarono bellissima, felicitandone Francesco. Le grida salivano al cielo, e gli applausi continuarono insistenti sino al palazzo, al cui balcone gli sposi, chiamati dalle grida festive della moltitudine assiepata in piazza, si dovettero ripetutamente mostrare.
Francesco non entrava nei panni dalla gioia, ma era impacciato e confuso. Il suo volto, adombrato appena da due baffetti neri nascenti, non era atteggiato ad altro sentimento che a quello d’una puerile contentezza. Ritiratisi dal balcone, il duca e la duchessa di Calabria, con Maria Teresa e i principi, andarono nella camera del Re. Fu commovente l’incontro fra quella giovane creatura, fiorente di salute e di brio, e il Sovrano, invecchiato dal male e sofferentissimo. Ferdinando II si era levato a sedere sul letto; abbracciò la nuora e la tenne, qualche minuto, così abbracciata, piangendo per la commozione. Chiese notizie del viaggio e si scusò di averla fatta trattenere tanti giorni a Vienna. Conversarono insieme più di mezz’ora, con grande diletto di tutt’e due, e sin da quel momento si stabilì, fra suocero e nuora, una simpatia vicendevole. Uscita dalla camera del Re, la sposa si ritirò nel suo piccolo appartamento, per apparecchiarsi alla solenne cerimonia della benedizione nuziale, fissata per le due. Maria Teresa l’accompagnò nelle stanze a lei destinate, che erano le due a destra del salone con l’altra più piccola, quella d’angolo, trasformata in camera da toilette. Aiutata da donna Nina Rizzo, mutò l’abito da viaggio in una ricchissima veste bianca, guarnita di merletti preziosi e con grande crinolina, calzò lunghi guanti bianchi e si attaccò al capo un tralcio di fiori d’arancio, al quale era raccomandato un lungo velo, che nascondeva i suoi splendidi capelli e scendeva sino a terra.
Alle due, tutto era pronto per la cerimonia. Nel salone del palazzo era stato innalzato un altare con l’immagine della Vergine Immacolata, e un trono in velluto, ricamato in oro per i Sovrani. Ai lati del trono, le sedie per i principi e gli arciduchi. Le autorità, i vescovi, i personaggi ufficiali stavano tutti al loro posto. Solenne il momento, ma non tutti eran composti a gravità, anzi molti ridevano, studiandosi di non farsi scorgere. Che cos’era avvenuto? L’irrequieto conte di Caserta aveva trovato modo di appiccare sull’uniforme di un alto funzionario una coda di carta, e questo spettacolo, naturalmente, suscitava il riso di tutti. Nessuno osava togliere la coda, e fu un gentiluomo, che, accortosene, abilmente la strappò senza che quegli se ne accorgesse. Entrata nel salone la famiglia reale, tranne il Re, gli sposi furono fatti sedere su due sedie, collocate di fronte all’altare. Monsignor Pedicini, assistito dai canonici metropolitani e dai palatini, celebrò la messa, fece un discorso d’occasione agli sposi e li benedisse con l’acqua santa. Poi fu cantato il Te Deum, durante il quale le navi da guerra fecero le loro salve, e le bande musicali suonarono l’inno borbonico. Compiuta la funzione, alla quale conferi maggiore solennità la benedizione papale, mandata per telegrafo da Pio IX, la famiglia reale rientrò nei suoi appartamenti, e Ferdinando II, cui era stato riferito il comico incidente, chiamato il conte di Caserta, lo rimproverò aspramente e gl’inflisse tre giorni di chiusura in camera, che poi, a intercessione della madre, ridusse a uno solo. Il ragazzo raccontava egli stesso la storiella della coda e confessava che il Re gli aveva detto: “Guagliò, sti scherzi non se fanno; so scherzi ’e lazzaro„.4
Venuta la sera, sulla piazza di fronte al palazzo, brulicante di popolo e sfarzosamente illuminata, come tutta la città, s’innalzarono palloni in gran numero e di forme svariatissime, tra uno strimpellare assordante di bande musicali. Più tardi, nella stessa piazza, da un coro formato di dilettanti, tutti con ceri accesi in mano, fu cantato, in onore degli sposi, un inno composto da Giulio Petroni e musicato dal maestro Curci, sull’aria dell’inno borbonico. All’Intendenza ci fu gran pranzo ufficiale, nel quale furono serviti i tradizionali maccheroni di zita, preparati da Vito di Dio. Dopo il pranzo, il duca e la duchessa di Calabria andarono ad augurare la buona notte al Re, che li abbracciò entrambi, e si ritirarono nelle loro stanze. La camera da letto degli sposi era la seconda, a destra del gran salone, la stessa dove alloggiò Re Umberto, l’ultima volta che stette a Bari. Mandarini, appena fu ufficialmente certo che la sposa sarebbe sbarcata a Bari, aveva chiamato il sindaco Capriati, per ordinargli di allestire in modo conveniente la camera nuziale. Il Capriati, che, proprio in quei giorni, avea acquistato un ricco talamo nuziale per una sua nipote, mandò quel talamo all’Intendenza. Biancherie e materasse vennero date da suo fratello Enrico. Sino alla camera da letto, gli sposi furono accompagnati dalla Regina, che li lasciò sulla soglia, dopo averli baciati. Nella camera nuziale non entrò, col duca e la duchessa di Calabria, che donna Nina Rizzo; anzi, veramente, Francesco non entrò, ma attese, timidissimo, nella camera precedente, che la Rizzo gli annunziasse che la sposa si era messa a letto. Francesco continuava a mostrarsi stranamente confuso, e passò il tempo a recitar preci, sino a che gli parve, che Maria Sofia avesse preso sonno, nè prima di allora, chetamente per non destarla, andò a letto. E così fu per tutto il tempo che stettero a Bari, il che spiega forse la tristezza di lei, il suo desiderio di svaghi d’altro genere, e il bisogno, che sentiva qualche volta di piangere.
Le commozioni di quel giorno e l’abbattimento morale del Re, inchiodato in letto, fra tanta clamorosa gioia, ufficiale e pubblica, aggravarono rapidamente e in modo allarmante, le condizioni di sua salute. La notte dal 3 al 4 febbraio, la prima della presunta luna di miele del duca e della duchessa di Calabria, fu angosciosa per lui. La Regina e Ramaglia non si tolsero dalla sua camera. Il male faceva progressi, e le sofferenze dell’infermo diventavano insopportabili. Lontano dalla capitale, in una città di provincia, dove non tutto si poteva ottenere e dove non era possibile serbare il segreto, Ramaglia, col solo aiuto del giovane dottor Capozzi, si trovava a disagio, nè voleva assumersi, più oltre, una grave responsabilità. La mattina del 6 febbraio disse alla Regina che sarebbe necessario chiamar da Lecce il dottor Leone, e coll’assenso del Re, da lei informatone, si telegrafò all’intendente Sozi Carafa, L’ordine di recarsi immediatamente a Bari sorprese il dottor Leone fuori di casa. Non ebbe neppure il tempo di correre a salutare sua madre; montò in carrozza e, la sera stessa, giunse a Bari. L’indomani ci fu lungo consulto tra lui e Ramaglia, ed entrambi non si nascosero la gravità del male, nè la difficoltà della cura, perchè cominciava a verificarsi qualche fenomeno di competenza chirurgica. Furono, due giorni dopo, chiamati a consulto il dottor Niccola Longo di Modugno, il dottor Vincenzo Ghiaia di Rutigliano, residente a Bari, e il dottor Enrico Ferrara di Bitonto, tutti in fama di dotti medici, e al consulto assistettero la Regina ed il duca di Calabria, il quale, prima che il consulto cominciasse, intonò il Veni Creator Spiritus. Ramaglia fece una lunga relazione, ma ai tre nuovi medici dichiarò che loro non era concesso di visitare il Re, per non procurargli penose emozioni. Tutti approvarono la diagnosi, che fu criticata più tardi, come quella che non aveva tenuto abbastanza conto dei fenomeni, che richiedevano la pronta mano del chirurgo. In quei tempi la chirurgia non era arrivata al punto di aprire l’addome, come si fa oggi. Si rimproverò a Ramaglia di non aver prevenuto il pericolo di un processo interno di suppurazione, nè intuito che la febbre era sostenuta dalla infiammazione dei muscoli posti in fondo e nella parte posteriore del bacino, per effetto degli sforzi enormi, che il Re aveva fatto, salendo prima su in Ariano e, poi su per l’erta, non meno faticosa di Camporeale, fra il ghiaccio della strada e il nevischio che cadeva abbondante. Il Longo, il Chiaia e il Ferrara andarono via dal consulto malcontenti e quasi mortificati di non aver veduto l’infermo, non senza comunicarsi a vicenda i loro dubbii circa l’esattezza della diagnosi del Ramaglia.
I principi non parevano impensieriti della malattia del padre, anche perchè s’imponeva loro di prender parte alle feste, per non accrescere le inquietudini e le prevenzioni. La sera del giorno 4, in cui maggiormente si accentuò il peggioramento, e giunse Leone da Lecce, il duca e la duchessa di Calabria, i principi, gli arciduchi d’Austria coi loro seguiti e tutti i personaggi ufficiali assistettero allo spettacolo, dato in loro onore al teatro Piccinni, illuminato a cera, con festoni di fiori e ghirlande e riboccante di spettatori. Le signore di Bari vi erano tutte, in acconciature vistose. Alle prime file della platea sedevano gli ufficiali superiori e le guardie d’onore, in grande uniforme, mentre i granatieri vi prestavano servizio d’onore. L’aspetto della sala era semplicemente magnifico. Tutti gli sguardi erano diretti alla duchessa di Calabria, che indossava uno splendido abito bianco, con ampia crinolina e portava al collo e sulla testa splendidi diamanti. Quando entrò nel palco reale, sorridente e un po’ impacciata, tutti si levarono in piedi e fu un applauso unanime, al quale ella rispose ringraziando più confusa che commossa. Un coro numeroso di signorine e di giovani dilettanti cantò un inno, composto anche esso dal Petroni e musicato dal De Giosa. Gli augusti personaggi si trattennero quasi sino alla fine, e gli stessi applausi, che li avevano salutati all’arrivo, li salutarono nell’uscire. Quello spettacolo pose fine alle feste nuziali. Nell’interno della Corte cominciò il giorno dopo un periodo di timori e di ansie, che non si riusciva più a nascondere.
I principi e gli arciduchi non trovavano distrazioni che in passeggiate per la città, e in brevi corse nei borghi vicini; e i principi, quando non uscivano, salivano sulla grande terrazza dell’Intendenza e si divertivano a saltare. Nei primi giorni, gli sposi non parteciparono a questi giuochi. Sofia avrebbe preferito uscire sempre a cavallo, ma non permettendolo il marito, usciva anche in carrozza. Le prime nubi fra loro ebbero origine da questo, ne alla Rizzo riusciva dissiparle. Dopo alcuni giorni, anche gli sposi presero parte alle biricchinate dei principi. Uno degli scherzi preferiti, anzi quello prediletto dal conte di Caserta, era di andar a scostare i banchi dei letti dei familiari, in modo che questi montandovi sopra, nell’andare a letto, ruzzolavano giù. In quell’agglomeramento di ospiti e di familiari nell’Intendenza, più volte ripetettero questo scherzo, che li divertiva tanto. E il conte di Trani ne fece uno più crudele al segretario generale dell’Intendenza, Giuseppe de Filippi, che era stato sottointendente a Melfi, e che, in occasione delle nozze, aveva, anche lui pubblicato un sonetto apologetico a Ferdinando II. Era un brav’uomo, complimentoso e tutto inchini, il quale, durante tutto il soggiorno del Re a Bari, non smesse mai l’uniforme. Un giorno il conte di Trani chiese delle arance, e il De Filippi, invece di ordinare a un cameriere di portarne in un vasoio, le portò egli stesso sulla terrazza. Questo eccesso di zelo, anzi di servilismo, indispose Luigi e Alfonso così al vivo, che decisero di liberarsi di lui su due piedi. Il conte di Trani invitò il De Filippi a partecipare al giuoco dei soldati, e il De Filippi non se lo lasciò ripetere. Lo mise prima sull’attenti, e poi gli ordinò di andare in avanti, sempre, sempre in avanti, sino all’uscio della scala, che il principe gli chiuse alle spalle con una grande risata. Non fu visto più, e i giuochi continuarono più liberamente. Maria Sofia si trovava volentieri in compagnia dei cognati, veri scolari in vacanza, i quali la chiamavano familiarmente Sofia, e la distraevano dalle sue ugge. Nel pomeriggio del 26, la duchessa e i cognati fecero una gita in mare, per divertirsi alla pesca. S’imbarcarono al nuovo porto, nella loro lancia e non si allontanarono dalle acque della costiera. Alcuni pescatori, chiamati in loro aiuto, concorsero a rendere abbondante la pesca e furono regalati di trenta piastre. Un altro giorno. Maria Sofia offerse al marito e ai principi di preparar di sua mano una frittata, alla bavarese, per mangiarla a colazione. Detto fatto. Le fu portato, insieme alle uova, un braciere, sul quale fu posto un fornello, ma mancavano una padella e un cucchiaio. Si diè allora l’incarico al sindaco Capriati di scendere e comprare una padella e un grosso cucchiaio; e il sindaco, il quale era in abito nero e calzoni corti, essendo quel giorno di servizio, scese in piazza e compro l’occorrente, ma il risultato finale fu un fiasco: la frittata non riusci, furono bruciati tre tovaglioli e bruciato il tappeto; si fè un gran ridere e Maria Sofìa rinunciò ad ogni pretesa di cuciniera. La padella, chiamata nel dialettale barese fresòla, e il cucchiaio furono conservati dal sindaco per memoria e sono posseduti dalla vedova di lui.
Le sofferenze del Re non avevano tregua. Gli assistenti, nel voltarlo sulla branda, per fargli cambiar posizione, bencbè usassero tutte le cautele possibili, non riuscivano a calmare i suoi atroci dolori. Egli si adirava, li rimproverava, li minacciava anche, ma poi, calmatosi, chiedeva loro scusa e quasi perdono. Il dolore acuto al femore impensieriva i medici, che vi facevano applicare grossi empiastri di semi di lino. Ma l’osso non si sentiva più al suo posto, ed era cominciato nella parte esterna corrispondente un arrossimento, per il quale Ramaglia e Leone cominciarono a prevedere la possibilità di una pronta operazione chirurgica; ma nessuno di loro era chirurgo, nè era facile persuadere il Re a farsi toccare dai ferri. Fu chiamato nuovamente il dottor Longo, che sulle prime si ricusò, dubitando che, neanche questa volta, gli avrebbero fatto vedere l’infermo; ma le insistenze dei parenti e degli amici lo indussero ad accettare l’invito. Fu subito introdotto nella camera del Re, che gli porse la mano e lo pregò di procurare di attenuare le sue sofferenze. Il Longo l’osservò minutamente e lo rassicurò che sarebbe guarito, sottoponendosi a una cura rigorosa. Si tenne nuovo consulto fra lui. Ramaglia e Leone, alla presenza del principe ereditario. Il Longo manifestò il parere che la causa efficiente del male fosse un ascesso alla regione femorale, e perciò consigliava l’uso dei risolventi; e questi non riuscendo, disse creder necessaria l’opera del chirurgo. Ramaglia non potè far a meno di convenirne; e pur non dando grande importanza all’ascesso, non disconobbe che si dovesse tenerlo di mira.
Ferdinando II fini col mostrar chiaramente di non aver più fiducia nei medici e nella medicina. Cominciò fin d’allora l’esposizione delle reliquie miracolose nella sua camera da letto, trasformata via via in un piccolo santuario. V’erano esposte immagini sacre, scapolari, pezzi di tuniche di santi, bottiglie di manna di San Niccola e di olio della lampada della Madonna di Capurso. Il Re, nel parossismo del dolore, recitava, a voce alta, speciali preghiere e invocava i santi e la Madonna Immacolata, nella quale aveva una divozione immensa. Era fiducioso di guarire, ma per opera della divinità, non degli uomini.
La sposa era arrivata, le cerimonie si eran compiute e la Corte non accennava a tornare a Napoli. La provincia era tutta in festa; e in quelle città, che la famiglia reale avrebbe toccato nel viaggio di ritorno, i preparativi non avevano fine. Erano dappertutto archi di trionfo, bandiere e luminarie con lamparielli. Molfetta aveva costruito all’ingresso un grande arco di trionfo, sul quale era scritto: al Re Ferdinando II, la devota Malfetta, e le autorità si davano moto, e i seminaristi non avevano requie, perchè dovevano essere l’ornamento maggiore della città, e perciò destinati a tutti i ricevimenti. Ma il ritardo cominciava già a suscitare commenti, e le voci più strane circolavano: persino quella che la partenza fosse ritardata dall’imminente sgravo della Regina, che non era incinta. Trani invidiava a Bari la lunga dimora della Corte, e un signore tranese scriveva in quei giorni ad un suo amico di Bari: “l’affare procede ben per le lunghe, poiché si parla di sgravo di S. M. la Regina a Bari. Quanti piaceri per i baresi! Alla fine avranno pure il piacere che la Real Principessa faccia la stessa funzione a Bari. Per ora si diverte a pescar merluzzi. Bisogna convenire essere una giovane molto virtuosa. A Trani almeno si sarebbero divertiti a vedere la gran copia di maschere, che la sera vanno girando e, dove si fermano, armano gran ballo„. L’arcivescovo di Trani si dava un gran da fare, nella speranza che il Re passando per quella città si fermasse nel suo palazzo e lo aveva alla meglio addobbato con mobili ed utensili presi a prestito dalle famiglie più agiate. Già nel 1836 Ferdinando era stato in quello stesso palazzo, ospite dell’arcivescovo De Franci, già suo istitutore e maestro.
Oltre il solito arco di trionfo e le solite luminarie, che si erano preparate per la città, facea molto parlare di se l’apparato in legno, fatto costruire sulla facciata della propria casa, nella piazza, dal giudice regio, don Niccola Ferrara, famoso improvvisatore di versi, che si possono leggere dall’alto in basso e dal basso in alto; da destra a sinistra e da sinistra a destra; uniti e spezzati; ed in qualunque modo letti, sono sconclusionati sempre. Questo strano tipo, dunque, volendo farsi merito, ideò una specie di altare che chiamavano tosello, elevato sui balconi della sua casa, e ricoperto con drappo di damasco rosso e merletti del suo letto nuziale. Il tosello avea la forma di un gran baldacchino, sormontato dalla corona regale, e nel mezzo due ritratti incorniciati delle LL. MM. E vi ardevano davanti, nelle prime ore della sera, otto grandi torce a vento. Lo spettacolo durò quasi un mese, a capo del quale il povero Ferrara, vide una sera andare in fiamme tutto l’apparato, per il forte vento che spirava. E questo fu l’incidente più comico di quel periodo a Trani. Gli altri magistrati, che allora vivevano con rappresentanza e carrozza, guardavano con un senso d’invidia lo sfarzo del giudice e non poco godettero del caso capitatogli. Ferrara aveva per i suoi versi una fama non dissimile dall’Ingarriga e dal Fenicia; ma, tranne questa debolezza, era un brav’uomo ed è morto da poco, vecchissimo.
In Napoli, nonostante le notizie ottimiste del foglio ufficiale e il silenzio mantenuto sulle vere condizioni del Re, cominciava a diffondersi la persuasione che si trattasse di cosa molto grave. Gli stessi membri della famiglia reale, rimasti là, non erano tranquilli. Il conte di Siracusa volle recarsi di persona a vedere il fratello; e, insieme col capitano Ayala, suo cavaliere di compagnia, giunse a Bari alle 7 pomeridiane del giorno 16. Alloggiò al terzo piano del palazzo dell’Intendenza. Vide prima la Regina, poi Ramaglia e Leone, che ho informarono di ogni cosa tutto, e lo pregarono di non mostrarsi quella sera stessa al Re, per non allarmarlo. Occorreva anzi prevenirlo con qualche studio. Il conte di Siracusa lo vide, quindi la mattina seguente; e si racconta che, scendendo le scale per recarsi nell’appartamento di lui, ordinasse alla sentinella, posta sul pianerottolo, di non gridare il saluto militare. L’incontro dei due fratelli fu commovente. Si abbracciarono a lungo, e il Re apparve a don Leopoldo più disfatto di quanto questi avesse immaginato. Parlarono, da soli a soli, parecchio tempo, ed il conte usci con gli occhi gonfi e visibilmente triste dalla camera del fratello. Durante il giorno, visitò la basilica di San Nicoola, il porto, il castello, il teatro, e fatta una corsa a Carbonara e a Ceglie, riparti la mattina del 18.
La lunga permanenza in Bari degli arciduchi Guglielmo e Ranieri, che i loro legami di parentela col Re non riuscivano interamente a giustificare, e la breve apparizione del conte di Siracusa, accrebbero i sospetti che i principi imperiali avessero la missione di stringere un’alleanza offensiva e difensiva fra l’Austria e il Re di Napoli. Nulla lo prova, ma non era però inverisimile. Gli avvenimenti incalzavano; tutto lasciava credere che l’imperatore Napoleone sarebbe sceso, nella prossima primavera, alleato del Piemonte, a cacciar l’Austria dal Lombardo-Veneto; la cospirazione liberale a Napoli usciva dal campo delle inconcludenze settarie, e la polizia, nonostante i suoi eccessi, si mostrava impotente a soffocarla. Si attribuì al viaggio del conte di Siracusa lo scopo di dissuadere il Re da quest’alleanza. Sono supposizioni, ripeto; ma allora le fantasie erano eccitate. La sola cosa vera è che i ministri non avevano voce nella politica estera, la quale dipendeva solo dal Re. E v’ha di più. Da dieci anni, Ferdinando II non aveva ministro degli affari esteri, ma un direttore, che fu costantemente il Carafa, fedele, anzi passivo esecutore degli ordini del Sovrano e che, semplice e bonario, non era sgradito ai diplomatici. Devotissimo al Re, gli spediva ogni giorno durante l’assenza, una relazione minuta sulla politica estera, e ne attendeva gli ordini. Quando questi ritardavano, n’era desolato, e correva da Troja, il quale di politica estera non s’intendeva addirittura nulla, e che invariabilmente gli rispondeva: “Vui che dicite? scrivete a ’o Re„. 5 E Carafa riscriveva. È anche probabile che, se nel febbraio del 1859 vi fu qualche tentativo di alleanza fra Vienna e Napoli, il Carafa ne rimanesse completamente al buio. Difatti, quando cessò di essere direttore degli affari esteri, giurava che la prolungata visita degli arciduchi austriaci a Bari, non ebbe altro scopo che il matrimonio del duca di Calabria e la salute del Re. Ma, tutto considerato, di un’alleanza coll’Austria, sembra che Ferdinando II non avesse mai voluto sapere, neppure in quei giorni.
Note
- ↑ Ricevitore son rovinato; mi sento la testa come un trombone.
- ↑ Monsignore, sono mezzo morto.
- ↑ Son chiamate “paranze„ lungo tutto il litorale adriatico italiano, le barche da pesca, che vanno per il mare a coppie, essendo raccomandati i due estremi della rete a ciascuna di esse, e distendendosi questa nel mare intermedio fra le due barche. Le paranze pugliesi si distinguono dalle marchigiane e dalle chioggiotte, per l’ampia vela tutta bianca, men tre queste hanno la vela gialla o rossastra, o variamente colorata. La forma del bastimento è identica.
- ↑ Ragazzo, questi scherzi non si fanno; sono scherzi da lazzaro.
- ↑ Voi che dite? Scrivete al Re.