La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII

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CAPITOLO XVIII


Sommario: Partenza per Andria — Da Foggia a Cerignola — Il bandito Niccola Morra — La colonia di San Ferdinando — A Canosa e ad Andria — Feste e aneddoti — L’arrivo a Bitonto — La visita dei Sovrani all’orfanotrofio Maria Cristina — Si giunge ad Acquaviva — Monsignor Falconi e il suo discorso — A Gioia e a Mottola — Il giudice Pirchio — La grazia dei Massafresi — Particolari intimi sulla fermata a Taranto — A Lecce — Una risposta curiosa — Lo stato di salute del Re — La visita al duomo e lo spettacolo al teatro — Un inno di Mastracchi — Il Re infermo — Si chiama il dottor Leone — Il flebotomo Marotta cava sangue al Re — Particolari e aneddoti — Il dottor Ramaglia e il dottor D’Arpe — Le passeggiate dei principi — Incidenti al duca di Calabria — La visita al liceo dei gesuiti — L’arrivo degli arciduchi d’Austria — Il Re migliora — Si decide la partenza per Bari — I preparativi di Gallipoli per festeggiare i Sovrani.


La mattina seguente, alle undici, il Re dopo di aver ascoltata la messa, detta nell’oratorio del palazzo da monsignor Frasoolla, accompagnato dalle autorità e dalle guardie d’onore in grande uniforme, parti per Andria, quarta tappa del viaggio. A Foggia ebbe un numero infinito di suppliche. Le carrozze reali traversavano le vie in mezzo a fitta calca di popolo, che applaudiva fragorosamente. Ferdinando II, prendendo commiato, promise che sarebbe tornato con gli sposi, per rimanervi qualche giorno. Ma parve a tutti pallido e triste: nella notte aveva sentito aggravarsi il suo malessere.

Da Foggia a Cerignola, gli abitanti di Orta, di Ortona, di Stornara e di Stornarella — grosse borgate a destra e a sinistra del Cervaro e del Carapella e che si chiamavano siti reali — attendevano, lungo la via, i Sovrani con le rappresentanze municipali e guardie urbane con bandiera. Applausi ed [p. 364 modifica]acclamazioni accolsero gli augusti viaggiatori, che, dopo aver fatta colazione al rilievo del passo di Orta, proseguirono al galoppo. Benchè si fosse nella mite Puglia, soffiava una tramontana tagliente. A poca distanza da Cerignola s’incontrò un plotone di cavalleggieri, che circondarono le carrozze reali. A Cerignola si dovevano cambiare i cavalli. Il Decurionato aveva fatto innalzare un arco trionfale all’ingresso della città, ma il popolo si era riversato fuori dell’abitato per quasi un miglio. Il vescovo, monsignor Todisco Grande, il sindaco Raffaele Palieri, il capo urbano Giuseppe Manfredi e gli altri decurioni e notabili, aspettavano le Loro Maestà sotto l’arco di trionfo sin dalle dieci, ma le carrozze reali non furono in vista che verso le due. I postiglioni dovettero far rallentare il passo ai cavalli, tanta era la folla che premeva da ogni parte. A un certo punto, un personaggio del seguito, che non fu distinto chi fosse, sceso di carrozza, si collocò allo sportello dalla parte del Re, per allontanare i più audaci. Al capitano Stoker, che comandava 1 cavalleggieri e teneva indietro il popolo a colpi di piattonate, Ferdinando II intimò di rimettere la sciabola nel fodero.

Quel miglio di strada durò un’eternità. Giunti che si fu finalmente all’arco di trionfo, nè il sindaco, nè il vescovo potettero per la ressa recitare le preparate concioni. Cerignola eccedeva in applausi e in acclamazioni, forse per far dimenticare al Re che era la patria del famoso bandito Niccola Morra, il quale, evaso da Nisida, scorrazzava quelle campagne. Le autorità non riuscivano a prenderlo e i suoi favoreggiatori, per paura e per guadagno, erano molti; anzi il Re credeva che i proprietari lo celassero per far opposizione a lui e screditare il governo in faccia all’Europa. Attorno al nome di Niccola Morra si era formata una leggenda di simpatia e di paura. Si raccontava che, vestito da gran signore, avesse largamente soccorsa una povera donna; in abito monacale, generosamente aiutato un vecchio infermo e, vestito da mendicante, avesse schiaffeggiato l’intendente Guerra nella villa di Foggia, senza che questi opponesse resistenza. I suoi ricatti erano celebri. Al ricco Antonio Padula di Candela aveva estorti ottomila ducati; a Leone Maury, sopraintendente dei beni del duca di Bisaccia, duemila piastre; l’arciprete se lo era veduto innanzi in sagrestia; il tenente dei gendarmi, nella caserma; ma sopra tutti restò famoso [p. 365 modifica]il ricatto di Gaetano Pavoncelli, giovane figliuolo di Federico Pavoncelli, che aveva soccorso sino all’ultimo giorno il padre di Niccola e tenuto questo al fonte battesimale. Il giovane Pavoncelli riusci però a fuggire, e il riscatto non fu pagato. Prima d’intraprendere il viaggio, il Re aveva mostrato desiderio che Niccola Morra, insieme col suo compagno Buchicchio, fosse preso o indotto a costituirsi. Federico Lupi, il nostro Mostaccione, era stato mandato a Cerignola alcuni giorni prima, perchè fossero adempiuti i desideri sovrani, ma inutilmente. Tra la folla, che circondava ed applaudiva il Re, si notava un gruppo di donne, dalle quali partivano le grida più alte di “grazia„ e di “misericordia„. Una di quelle, più ardita delle altre, quasi sollevata dalla folla, s’appressò alla carrozza e, afferratasi allo sportello, dalla parte del Re, si diè ad urlare: “Maestà, grazia, grazia per Niccola Morra„. Era Teresa Cibelli, zia del bandito. Ferdinando, a quel nome, si scosse ed appoggiato il braccio sulle spalle di lei le disse a voce alta: “Digli che si presenti; si presenti; avrà la grazia .... digli che avrà la grazia„ . Quanti l’intesero mandarono un grido di gioia, e le donne piansero per la commozione, poichè Niccola Morra rappresentava, per il popolino, la ribellione alle prepotenze dei signori. Il Morra non segui però il consiglio del Re; più tardi, ferito, mentre tentava il ricatto di Giovanni Barone, ricco proprietario di Foggia, andò in prigione; ne uscì e, scontata la pena, tornò in patria. Vive tuttora e ha fatte pubblicare le sue memorie, non prive d’interesse.1

Intanto si erano attaccati i nuovi cavalli alle carrozze, e i Sovrani e i principi partirono fra le acclamazioni del popolo cerignolano.


Anzi che andar difilato verso Canosa, il Re volle divergere, per qualche miglio, dalla strada consolare e visitare la colonia agricola di San Ferdinando, fondata da lui vent’anni prima, a fine di sottrarre alla malaria le misere famiglie, che abitavano attorno alle saline di Barletta. Egli aveva distribuiti gratuitamente i terreni da coltivarsi, fornito i capitali agricoli, e [p. 366 modifica]istituita una cassa di prestanza e un monte frumentario. La famiglia reale visitò la chiesa in mezzo agli applausi dei coloni; poi si recò al Comune, ed ivi il Re, preso conto dello stato della colonia, ordinò la costruzione di altre 140 case e diè ascolto a quanti dovevano porgergli suppliche. Fu notato che due sole suppliche furono presentate, ed una dalla figlia della levatrice, Anna Maria Forte, giovane ventenne, molto avvenente, di bella taglia e sveltissima, la quale chiese al Re la grazia di una quota di terra e di un po’ di suppellettile di casa, cca sò zita e m’agghia marità.2 Il Re promise, ma precipitando gli eventi, la promessa non fu mantenuta.

Il sole era al tramonto e il freddo intenso. Lungo la strada s’incontravano gruppi di pastori e di terrazzani plaudenti o intontiti, e gruppi più fitti al monumentale ponte sull’Ofanto. Si giunse, ch’era già notte, a Canosa che splendeva per migliaia di lumi, ma questo spettacolo non commosse punto il Re, il quale pel gran freddo era tutto avvolto nel suo cappotto militare, aveva scialli sulle gambe e, di tratto in tratto, prendeva qualche sorso di rum. I cittadini di Canosa erano usciti fuori dell’abitato incontro ai Sovrani, con alla testa Salvatore Mandarini intendente di Bari, il sottointendente di Barletta, Niccola Santoro, ed altre autorità della provincia di Bari, nella quale si entra dal ponte sull’Ofanto. Sotto l’arco trionfale, eretto all’ingresso della città, era stato innalzato un baldacchino. Il Re smontò, non senza stento; ricevette le autorità comunali e il clero palatino. Tutti portavano torce e davano allo spettacolo un’aria lugubre. Il Capitolo presentò al Re, in coppa d’argento, i due pani tradizionali: cerimonia stabilita da Guglielmo Normanno, come segno di regio patronato. Poi si avanzarono due gruppi di giovanetto vestite di bianco e di ragazzi, che accompagnati dalle bande musicali cantarono un inno. Il cocchio reale cominciò allora a muoversi, a stento, in mezzo alla folla che urlava evviva, dava suppliche e chiedeva grazie.

Si mosse alla fine per Andria, dove erano preparate più clamorose accoglienze. Si correva a tutta lena. Per fortuna non v’erano altre fermate. La popolazione di Andria si riversava per le vie: luminarie, archi di trionfo e grida festose. I Sovrani furono ricevuti dal vescovo Giovanni Longobardi, dal sindaco [p. 367 modifica]Giovanni Iannuzzi, da quasi tutti i decurioni e notabili, e dalle guardie d’onore Riccardo Iannuzzi, caporale, Riccardo Porro e Niccola Fasoli del fu Filippo. Scesero all’episcopio, dove, oltre la famiglia reale, alloggiò una parte del seguito. Il vescovo aveva provveduto all’alloggio con mobili fatti venire apposta da Trani. Le guardie urbane facevano ala. Le comandava Francesco Marchio, ed era sottocapo urbano Filippo Griffi, che il Re aveva conosciuto nell’altro viaggio del 1839 in Puglia, anzi gli aveva dato il soprannome di mamozio. La famiglia reale si mostrò al balcone, ed il pubblico, che gremiva la vasta piazza sottostante, non si stancava di applaudire. Poi si pranzò, ed è superfluo aggiungere che, sebbene il vescovo avesse tutto preparato sontuosamente, i cibi per i Sovrani furono serviti dalla cucina reale.

Il giorno dopo, 12 gennaio, ricorrendo il natalizio del Re, Ferdinando II aveva prescritto che, come al solito, si tenesse gran gala in tutto il Regno, si vestisse la grande uniforme dalle milizie, ed avessero luogo le consuete salve e l’illuminazione dei pubblici edifizii e dei teatri; e così pure per il 16, natalizio del duca di Calabria. Egli ad Andria si senti un po’ meglio. Occupò le prime ore del mattino a dare udienze; più tardi s’intrattenne con Murena e Bianchini, ed alle 10, ammise le autorità civili, militari ed ecclesiastiche, al real baciamano. Compiuto il quale, la famiglia reale si recò al duomo, per ascoltarvi la messa, pontificata da monsignor Longobardi. Dal palazzo vescovile, per andare al duomo, si scendeva una scala segreta, angusta e buia, a capo e a pie della quale erano state collocate due sentinelle. Il Re si maravigliò della presenza di esse e, rivolto ad un piantone, bruscamente gli chiese: “Nè, tu, che fai ccà?„ “Maestà, rispose quello, sono di piantone„ . E il Re: “iatevenne, m’abbastano duie canuonice ’e ccà; iatevenne„.3 Dal palazzo vescovile al duomo erano schierate le guardie urbane, in uniforme, ma senza kepì, perchè, ne ignoro il motivo, già da tempo era stato loro tolto. Mentre il Re passava, Raffaele Giannetti, caposquadriglia, gli si accostò e lo richiese di una grazia. Ed avendo il Re dimandato qual grazia volesse, Giannetti lo pregò di ripristinare pe’ suoi militi l’uso del kepì. Nel duomo si [p. 368 modifica]ascoltò la messa pontificale, ed il Re pregò inginocchiato, innanzi all’immagine di San Riccardo, patrono della città.

Uscito dal duomo, il real corteo si recò al santuario della Madonna dei Miracoli, dove si leggevano queste due iscrizioni: Ai favori di Maria de’ miracoli — elettissimi — il devoto popolo andriano — riconoscente aggiunge — questo non ultimo — dell’ospitare i principi suoi) e dall’altra parte: Dio — nella giustizia e clemenza — di Ferdinando II — la gente andriese — in questo dì memorando — festeggiante adora.

Queste due iscrizioni per quanto ampollose eran vinte da quella che si leggeva all’ingresso della città: Alle Maestà — di Ferdinando II e di Maria Teresa — ottimi augusti — che di lor presenza con la real famiglia — questo popolo fedele onorano — saluto omaggio riconoscenza; ed anche da una delle tre, poste sulla macchina in piazza del municipio e che diceva: Nel numero dei popoli soggetti — la potenza dei Re — nell’amore nella festa del popolo — la gloria di Ferdinando II. Nel santuario, ventiquattro orfane, vestite di bianco, cantarono un inno. Poi ci fu la benedizione. Risaliti nelle carrozze, i Reali presero commiato dalle autorità, e, traversando le vie di Andria a trotto serrato, in mezzo a fitta calca di popolo plaudente, mossero alla volta di Acquaviva.


Da Andria ad Acquaviva, fu una marcia trionfale. I grossi paesi, lungo la strada percorsa dagli augusti viaggiatori. Cerato, Ruvo, Terlizzi, Bitonto, Palo, Bitetto, San Nicandro, erano in festa. Dappertutto sorgevano baldacchini, archi di trionfo e festoni di mortella; le case erano addobbate con arazzi e coperte di seta, e l’inno borbonico risuonava a ogni passo. Lungo quei paesi popolosi, a poca distanza l’uno dall’altro, le carrozze reali trottarono quasi sempre fra guardie d’onore, sindaci e decurioni, magistrati e vescovi, capitoli e confraternite, e fra un fitto stuolo di cittadini che, tratti dalla curiosità o dalla vanità, volevano vedere i Sovrani, acclamarli, e fare augurii al principe ereditario per le sue nozze. Le pubblicazioni del tempo, nonostante la rettorica, rivelano, abbastanza esattamente, quanto riuscissero clamorose quelle accoglienze. Le quali, però, a Ferdinando II, che da tre giorni era tormentato da dolorosa lombaggine, arrecavano assai mediocre sollievo, e solo divertivano in qualche [p. 369 modifica]modo i principi, soprattutto il giovane conte di Caserta, che si studiava di ritrarre i tipi più comici di quei sindaci e di quei decurioni, e con tali facezie riusciva a strappare qualche sorriso al padre. La città, che più si distinse, fu Bitonto, culla di nobili e di cavalieri di Spagna. N’era sindaco il nobile Vincenzo Sylos Labini, il quale, nella confusione del ricevimento, perde il cappello. Il Sylos morì senatore del Regno d’Italia. I Sovrani si fermarono colà due ore. L’arco di trionfo rizzato sulla porta della città ricordava le gesta guerresche di Carlo III, e ampollose, al pari delle altre dianzi ricordate, ne erano le iscrizioni.

La famiglia reale si recò prima in quel magnifico duomo, uno dei più splendidi monumenti dell’arte pugliese sotto i Normanni e gli Svevi, dove dal vescovo, monsignor Matarozzi, fu impartita la benedizione, e passò poi all’orfanotrofio Maria Cristina, affidato alle monache di San Vincenzo de’ Paoli. Vi erano raccolte più di 200 orfanelle, ed una pronunziò, dinanzi alle Loro Maestà, un discorso d’occasione, il quale fu detto essere stato scritto dal canonico Comes e che finiva con queste parole: “Sì, Sire! Voi spargete la beneficenza in tutti gli angoli del vostro Reame, e qui ne abbiamo raccolto i frutti abbondevoli ancor noi, che se tolte alla corruzione de’ trivii siamo spinte sulla via della religione e della virtù, noi lo dobbiamo a Voi, che siete il padre dell’orfano e del derelitto„. Poi fu da tutte cantato un inno. La Regina ammirò i ricami eseguiti dalle orfanelle, e non fa parca di lodi, e il Re ricevette le autorità, che ammise al baciamano. Nella chiesa dell’orfanotrofio il vescovo diè ai Sovrani e ai principi un’altra benedizione, prima della partenza. Superiora del pio ricovero era suor Teresa Cecilia Goyeneche, francese, che io ho conosciuta, perchè morta da soli due anni; una monaca piena di talento, sana e ardita. Mi disse un giorno che la interrogai sul viaggio reale, ch’ella “avait remarquè que le Roi ètait malade„, perchè era taciturno e triste, aveva gran fretta di partire e pareva che si annoiasse di tutto e fosse molto stanco. Mi disse pure, che, quando i Sovrani e i principi visitarono il refettorio, il duca di Calabria, avendo sete, tolse dalla tavola un boccale d’acqua e lo bevve d’un fiato, e tutti restarono ammirati di quest’atto de vrai soldat.

Non valsero a dissuadere il Re dal lasciare Bitonto le caldissime preghiere del conte Vincenzo Gentile, il quale, per [p. 370 modifica]sottrarlo ai rigori della stagione e alla rigidezza delle prime ore della sera, gli offri ospitalità in casa sua, addobbata con opulenza, e dove era preparato un sontuoso pranzo per i Sovrani, i principi e tutto il seguito. Egli giunse a pregare il Re in ginocchio, perche rimanesse, ma il Re voleva, a tutti i costi, arrivare la sera in Acquaviva; e benché fosse già notte, ordinò che si partisse di galoppo. Il conte Gentile restò così mortificato della non accettata ospitalità, che per consolarsene in qualche modo, aprì per tre giorni di seguito il suo palazzo, perchè ciascuno vedesse la sala da pranzo, che aveva apparecchiata, con cuochi e camerieri fatti venire da Napoli.

Lungo la via da Bitonto ad Acquaviva furono fatte brevissime fermate a Palo, a Bitetto ed a San Nicandro.

Si giunse in Acquaviva alle dieci di sera. I preparativi per le feste erano stati diretti da monsignor Falconi. Case riccamente addobbate, alti archi di trionfo ed epigrafi riboccanti d’iperboli. Quella sulla porta della città, sotto l’immagine di Maria Santissima di Costantinopoli, diceva cosi: Vergine di Costantinopoli — Madre di Dio e degli uomini — di questa città dopo Dio — speranza prima — tu, che ne’ nostri bisogni — la seconda prece non attendi — questa grazia — impetraci dal figlio tuo — che questi angioli di viaggiatori — che innanzi al tuo santuario — umilmente si prostrano — mai non muoiano — alla tua gloria, al nostro amore — alla felicità de’ loro popoli.

Sotto quest’arco di trionfo, all’ingresso della città, attendevano il Re, il clero con monsignor Falconi alla testa, le autorità circondariali e municipali e i primarii cittadini, con ceri accesi in mano. Vi erano pure sessanta bambini, vestiti con pantaloni bianchi e giacchette celesti e rami d’ulivo in mano. Quei poveri bambini tremavano dal freddo. Il Re non sostò un momento e andò dritto al palazzo dell’arciprete. I dolori gli si erano rincruditi, con lo stare in vettura tante ore.


Monsignor Falconi, direttore supremo delle feste e scrittore delle epigrafi, era sontuoso in tutto: nello stile, nelle immagini, nei conviti, nelle abitudini. Alto e vigoroso della persona, egli era nativo di Capracotta; ed essendo stato, per alcuni anni, segretario dell’arcivescovo Clary a Bari, aveva rivendicata la palatinità delle chiese di Acquaviva e Altamura e ne aveva [p. 371 modifica]ottenuto titolo di arciprete mitrato e giurisdizione episcopale: beneficio, che gli fruttava circa seimila ducati l’anno. Era fratello del procuratore generale Falconi, e zio dell’attuale deputato e sottosegretario di Stato per la giustizia. Tanta fiducia riponeva in lui Ferdinando II, che volle pernottare ad Acquaviva, ad ogni costo, nel palazzo dell’arciprete, non in quello che fu di casa Mari, e passò poi in possesso di don Sante Alberotanza. Nel palazzo di don Sante alloggiarono Murena, Bianchini ed altri del seguito e vi stettero assai a disagio. Il principe e la principessa della Scaletta furono obbligati a passare la lunga notte in veglia, tanti erano gl’insetti che popolavano la camera loro destinata. Il Re apparve a tutti dimagrito e invecchiato. Al pranzo dei Sovrani provvide la cucina reale; agli altri, molto suntuosamente, monsignor Falconi, che aveva un ottimo cuoco. Il vino fu offerto da don Girolamo Jacobellis, il quale, prima di consegnarlo, lo assaggiò alla presenza di molti, forse per eccesso di prudenza; ma il vino servì al seguito, non alla famiglia reale. Il Re si ritirò quasi subito con la Regina, nella sua camera da letto. Il solaio di questa, essendo poggiato su travi perchè malsicuro, era stato fatto da monsignor Falconi puntellare.

La mattina del 13, Ferdinando II si levò di buon’ora, e dopo di avere atteso agli affari della provincia e del circondario, accolse gli omaggi delle autorità, del clero e dei maggiorenti e diede pubblica udienza. Molte furono le suppliche presentate; Acquaviva rigurgitava di forestieri. V erano convenute le guardie d’onore del circondario, i sindaci e i decurioni dei comuni vicini. La piazza, che separa l’episcopio dalla chiesa, era brulicante di popolo, e gremiti i balconi, le finestre e le terrazze. Tutti sventolavano fazzoletti e bandiere e applaudivano al Re, che, alle dieci, usci dal palazzo vescovile, insieme con la Regina e coi principi reali e si recò, a piedi, alla vicina chiesa cattedrale. A una povera donna, che lo richiedeva di elemosina, fece largire trenta ducati. Alla porta della chiesa le guardie d’onore e le urbane facevano ala e, sull’ingresso, aspettava monsignor Falconi, circondato dal capitolo. Prima di benedire la famiglia reale con l’acqua santa, monsignore pronunziò un discorso, che, per le strane iperboli contenutevi, merita essere esumato. Con citazioni delle sacre carte, il prelato cominciò dal delineare la [p. 372 modifica]figura del vero Re, immagine di Dio in terra, e poiché tutte le virtù, che debbono adornare un Re, egli rinveniva, in grado eminente, in Ferdinando II, la cui gloria è esaltata dalle prime intelligenze europee, così chiudeva la sua conclone: “Sì, o Sire, d’oggi innanzi pregheremo ancor più; e pregheremo Dio che vi conservi lunga serie di anni alla sua Divina gloria, all’amore de’ vostri popoli, che vi amano, e vi amano di cuore, ed alle delizie della Vostra Famiglia. Pregheremo che tenga lungi da voi ogni generazione di amarezze: che vi dia giorni sereni e tranquilli, e che compia ogni vostro desiderio, ch’essendo desiderio di padre, e di padre il più pio, il più giusto, il più te nero de’ suoi figli, non può non essere accetto e caro a lui, Re dei Re, Sole di giustizia, Padre primo dei popoli tutti della terra. Pregheremo infine che vi colmi di ogni maniera di grazie con cotesta fulgidissima Stella che allato vi splende, esempio anch’Ella di virtù preclarissimo, e col principe ereditario, erede veramente dell'ingegno e della pietà, della giustizia e degli altri pregi di mente e di cuore del padre, e cogli altri Reali principi e principesse„. Dopo il sermone, che il Re ascoltò in piedi sulla soglia, preceduti da monsignor Falconi, gli augusti viaggiatori entrarono nella chiesa, prendendo posto presso l’aitar maggiore. Dopo il canto del Domine salvum fac regem, l’arciprete invitò il Re a prender possesso dello stallo canonicale che, come prima dignità del capitolo, gli spettava nelle chiese palatine. Compiuta la cerimonia del possesso, la famiglia reale si recò ad ascoltare la messa, detta dallo stesso prelato nella cappella della Vergine delle Grazie.


I Sovrani ed i principi furono ai presenti modello di devozione. Finita la messa, uscirono dalla chiesa. Alla porta si trovavano pronte le carrozze, attorno alle quali erano i sessanta bambini, che li avevano ricevuti all’arrivo, nello stesso costume e cogli stessi rami d’ulivo. Prima di salire in vettura, il Re si fermò dinanzi alla chiesa, rivolgendo al prelato varie domande sulla sua architettura. Si parti alle 11 per Gioia, in mezzo alle acclamazioni del popolo. Le autorità accompagnarono i Sovrani sino a Gioia. All’ingresso di questo grosso comune, era stato innalzato un grande arco trionfale, sormontato da epigrafe esprimente che i gioiesi, con sensi di devoto e figliale attaccamento — esultanti — imploravano lunghi e sereni giorni [p. 373 modifica]ai Sovrani. La fermata di Gioia fu breve. Questa era l’ultima tappa di Terra di Bari, ma in Terra d’Otranto dimostrazioni ancora più clamorose attendevano il Re. Da Noci, Castellaneta, Laterza, Ginosa, Palagianello, Palagiano, Montemesola, Grottaglie e Mottola erano accorsi cittadini e autorità in folla, e da tre giorni bivaccavano a San Basilio, grande tenuta del duca di Sangro (dove ora sorge un bel monumento, che la pietà paterna ha innalzato all’unico infelice figliuolo) circa quattromila persone, comprese parecchie compagnie di guardie urbane, con bandiere e bande. V’erano arrivati, nella mattina, l’intendente della provincia Sozi Carafa, il sottointendente di Taranto, De Monaco e altre autorità. Era stato eretto, anche laggiù, un arco di stile dorico con relative epigrafi. Acclamazioni e applausi, accompagnati dall’inno reale, salutarono i Sovrani al loro apparire. Questi si fermarono il tempo necessario per il cambio dei cavalli, ma non discesero dalla vettura. Parve che il Re ricevesse freddamente il Sozi Carafa, memore, si disse, della inchiesta, fatta fare due anni prima dal magistrato don Scipione Jocca, sui lavori stradali della provincia, e che riusci sfavorevole all’intendente, rimasto in carica, si aggiunse, per protezione della Regina; ma erano voci create forse da malignità. Sozi Carafa, che io ho conosciuto nel 1870, modesto impiegato in una casa di spedizioni marittime, morì poverissimo; e, politica a parte, fu uno dei migliori funzionarli mandati a reggere la Terra d’Otranto. Da San Basilio la strada sale pittorescamente, per quattro miglia, sulla collina di Mottola. E di mano in mano che gli augusti viaggiatori avanzavano, seguiti da tutta quella turba a piedi e a cavallo, nel maggiore disordine, ma sempre plaudente ed acclamante, si dispiegava ai loro occhi il maraviglioso panorama del golfo di Taranto, coi monti di Basilicata e della lontana Calabria. Essendo stati cambiati i cavalli a San Basilio, e dovendo essere ricambiati a Massatra, i Sovrani non sostarono a Mottola che qualche minuto. Nel punto, in cui a’ incrociano le quattro strade, innanzi alla locanda del paese, era accorsa tutta la cittadinanza, con alla testa il sindaco notar Leonardo Caramia, i decurioni, il giudice regio e le signore, le quali avevano apparecchiato il cioccolatte da offrire ai Sovrani e imparato il cerimoniale dell’offerta ma questi non presero nulla. Sollevò l’ilarità generale il giudice regio Pirchio, giovane robusto ed elegante, che nella [p. 374 modifica]confusione, volendo passare dalla parte della strada, dov’era aperto lo sportello della carrozza reale, non vide un muocchio di sassi e vi ruzzolò sopra, rialzandosi col viso pesto e gli abiti sporchi. Il Re non si potè tenere dal ridere, quando se lo vide dinanzi conciato a quel modo. Delle tre guardie d’onore di Mottola, due erano andate incontro alle Loro Maestà a San Basilio, don Giovannino Mignozzi e don Angelo Cardinali, e la terza, don Titta Sabato, era confuso nella folla in abito borghese, perchè attendibile.

Partiti da Mottola, i Reali passarono sotto un altro arco di trionfo a Massafra, eretto in segno di fedelissima sudditanza. A Massafra, ch’era l’ultimo cambio di cavalli, prima di arrivare a Taranto, i Sovrani sostarono dieci minuti, ricevendo gli omaggi delle autorità. I Massafresi si abbandonarono alle più sfrenate esultanze e gridavano a coro: “grazie, grazie, Maestà„ . Il Re chiese: “e che grazia volete?„ e quelli, con più alte grida: “basta che t’avimmo visto. Maestà„. Il Re, cui tardava di proseguire il viaggio, di tutte quelle dimostrazioni grottesche era seccato. Era già il sesto giorno di viaggio; il moto della carrozza aumentava le sue sofferenze, e però aveva fretta di arrivare a Lecce, dove contava riposarsi a lungo.


Si giunse a Taranto alle 4 1/2. Uno squadrone di dragoni precedeva le carrozze reali, salutate, al loro apparire, da acclamazioni ed applausi di tutti i tarantini, usciti fuori dalla città, incontro ai Sovrani. Attendevano, alla porta di Napoli, il sindaco Giacinto Mannarini, un uomo di corporatura enorme, e tutti i decurioni, fra i quali, ricordo, Tommaso Giura, Luigi Grassi, Michele Franco, Francesco Piccione, Gaetano Latagliata, Gaetano Portacci e Niccola Greco. Vi erano i rappresentanti delle confraternite e delle corporazioni religiose. L’intendente Sozi Carafa non sapeva darsi pace della fredda accoglienza, che il Re gli aveva fatta a San Basilio. Il Re, senza fermarsi, si diresse all’episcopio; e poiché la carrozza reale a stento poteva procedere fra le anguste vie della città, e in mezzo ad una folla acclamante che faceva ressa da ogni parte, i gendarmi adoperavano il calcio dei fucili per far largo. Ferdinando li rimproverò aspramente, e furono coperte d’applausi le sue parole: “Voi non sapete fare il vostro dovere; il gendarme non deve battere, deve occupare il posto„. E giunto all’episcopio, dove lo [p. 375 modifica]attendevano monsignor Rotondo, arcivescovo di Taranto, monsignor Margarita, vescovo di Oria, e tutte le dignità capitolari, suo primo atto fu di punire con gli arresti in fortezza il comandante dello squadrone di cavalleria, perchè i cavalli erano quasi sfiniti dalla stanchezza. E al figlio del comandante, che tentò intercedere per il padre, rispose parole severe. Il Re era di pessimo umore. Appena scese di carrozza, il comandante del castello gliene presentò le chiavi, sopra un cuscino di velluto. Il Re le respinse, dicendo: “Stanno bene affidate„; ed avendogli il comandante chiesto se si dovessero fare le salve d’onore, il Re rispose: “Fate tutto quello che mi spetta„. E così il cannone cominciò a tuonare. Prima che il comandante s’allontanasse, Ferdinando gli chiese, sorridendo: “Che fanno ’e fratielli? Ce stanno fratielli a Taranto?4 Egli chiamava con questo nome i liberali, e specialmente i repubblicani. Il comandante lo rassicurò, dicendogli essere Taranto città tranquilla e fedele.

Sull’episcopio salirono soltanto la Regina e i principi; il Re andò invece a vedere la batteria Carducci, allora in costruzione. Rimproverò la lentezza dei lavori; disse che si era speso troppo, e usci in queste parole: “Se se mettessero ’e pezze che se so spese, una ’n coppa all’alta, se farìa na torre chiù alta ’e chesta ccà„.5 Poi si recò, con la Regina e i principi, nella cattedrale, dove fu cantato un Te Deum. Dappertutto lo seguiva una fitta calca di popolo; le vie, che egli attraversava, erano riccamente addobbate, ne avevano fine gli applausi e le acclamazioni. Dalla cattedrale si andò di nuovo all’arcivescovado, dove monsignor Rotondo aveva fatto preparare un lauto pranzo, ma il Re, la Regina e i principi non vollero accettar nulla, e all’arcivescovo, che insisteva perchè sedessero a tavola, Ferdinando II rispose che preferiva che gli si fosse apprestata qualche cosa in una cesta, per mangiarne lungo la strada. Osservando l’ampiezza delle sale dell’episcopio, disse iperbolicamente al vescovo, ch’egli aveva un palazzo più vasto della Reggia di Caserta. Al sottointendente De Monaco, il Re ordinò che si nettasse il porto e si riaprissero la salina e la salinella di San Giorgio: due [p. 376 modifica]piccole lagune, concesse fin dai 1849 dal demanio dello Stato in enfiteusi perpetua ai signori Onofrio Scarfoglio, Giovanni Milena e Luigi Epifani, con l’obbligo delle spese per mantenere la bonifica, la quale manutenzione era trascurata con danno della città. Cosa strana: di autorità municipali nessuna potè giungere al Re, e però non ebbero l’opportunità di esporgli i bisogni del paese, come avevano in animo. Il Decurionato deliberò, il 19 gennaio, d’inviare per questo un’apposita deputazione a Lecce, la quale fu composta dal sindaco Mannarini, don Gaetano Portacci, don Domenico Sebastio di Santacroce, il commendatore Ferdinando Denotaristefani e Cataldo Nitti “benemerito cittadino — sono parole testuali del verbale della deliberazione — che tanto seppe con la sua opera data alla luce interessarsi al sollievo della povertà di Taranto; i quali tutti, scienti delle bisogna del paese, troveranno modo come supplicare la Munificenza del Principe Regnante, ed ottenere a questa città tutti i possibili e duraturi vantaggi„. Nel breve ricevimento delle autorità, la Regina si faceva baciare la mano, coperta da un guanto di filo di Scozia. Alle nove i Reali partirono per Lecce, tra le solite ovazioni.


Da Taranto a Lecce, il viaggio si compi tutto di notte. A pochi chilometri da Taranto scesero tutti alla masseria Cimino, a destra della strada, dove erano magnifiche robinie. Era un bel chiaro di luna, che si rifletteva sulle onde tranquille del mare Piccolo, e benchè fosse nelle prime ore della sera, il mite clima messapico temperava il rigore della stagione. La principessa della Scaletta, superstite di quel viaggio, ricorda con caratteristica compiacenza quella fermata e le barzellette del Re, al quale parve per un istante che tornasse il buon umore. Cenarono in piedi e si rimisero in viaggio. L’ampia strada consolare era densa di popolo, e qua e là sorgevano archi di trionfo, con lumi ed epigrafi. Gli abitanti di San Giorgio, Carosino, Fragagnano, Monteparano, Sava, Manduria, Oria, erano accorsi con i corpi municipali, le guardie d’onore e le guardie urbane, sfidando i rigori di una notte d’inverno, benchè non freddissima. Ma il Re passò senza fermarsi. Traversò Manduria a trotto serrato, ch’era scorsa la mezzanotte. Manduria, patria di Niccola Schiavoni e di altri condannati e profughi politici, era città [p. 377 modifica]antipatica al Re. La vecchia madre dello Schiavoni aveva preparata una domanda di grazia da consegnare al Sovrano, ma non le fu possibile. Si arrivò a Lecce alle cinque, ed era notte fitta. Gli augusti viaggiatori erano aspettati dal giorno avanti, e nessuno credeva che sarebbero giunti in quell’ora, così mattutina e fredda. Le autorità ne ebbero avviso solo alle quattro, quando giunse improvvisamente la staffetta, che precedeva di cinque miglia la carrozza reale. La notizia si diffuse subito per la città, ma mancò il tempo di eseguire quanto era stato stabilito. Si era fissato che alcune signore sarebbero andate incontro alla Regina fuor di porta Napoli, ad offrirle dei fiori, mentre il sindaco avrebbe presentato al Re, secondo l’antico costume, le chiavi della città; ma non se ne potè far nulla. Poca gente si trovò ragunata a porta di Napoli, dove si era innalzato un arco di trionfo. Le autorità preferirono attendere i Sovrani sullo scalone del palazzo dell’Intendenza, dove il Re con la famiglia e il seguito doveva alloggiare. All’arredamento del palazzo per la circostanza avevano concorso le famiglie leccesi più cospicue. Pensini prestò la biancheria da tavola e da letto; Panzera e Romano, la mobilia e i lampadari, e Romano, ch’era sindaco, anche l’argenteria da tavola e da sala.

La carrozza reale, scoperta ai lati e tirata da quattro cavalli storni romani, giunse a trotto serrato, a porta di Napoli. La precedevano quattro dragoni, che illuminavano la via con torcie a vento; altri sei dragoni la seguivano. Tutte le campane delle chiese suonavano a festa, nè mancarono le solite acclamazioni. Al Re, nel salutare gli astanti, cadde di mano il berretto di color amaranto; un popolano lo raccolse, ma Ferdinando II non lo rivolle e, aperta una valigia, che aveva dinanzi, ne prese un altro. Le guardie d’onore, Giuseppe Libertini, Francesco Quarta, Francesco Russo, Gesualdo Sanguinetti, Pasquale Ceino, Attilio Jurlaro, Giuseppe Tresca-Giovinazzi, Pasquale Sauli, il cavalier Venturi formavano il drappello di servizio, ma Ludovico Tarsia e Giuseppe Maggi, di Martina Franca, bei giovani, aitanti della persona, si distinsero, per forza di resistenza, nel seguire al trotto serrato le carrozze del Re e dei principi, senza dar segno di stanchezza. Lentamente le vetture reali percorsero il viale di Napoli, illuminato con legna di pino su canestri di ferro, e le vie del Vescovado e delle Quattro Farmacie, addobbate con parati di carta. La meschinità degli [p. 378 modifica]addobbi era compensata dall’ampollosità delle epigrafi, che si leggevano in ogni punto e superanti in iperbole tutte le altre. Una diceva: Vieni — o Ferdinando Augusto — fra i plausi ed i voti — della tua Lecce — se lontana di sito — vicinissima d’affetto; e un’altra: Reputò assai lontana la Reggia — Ferdinando II — principe munificentissimo — per intendere i voti e le suppliche — della Città di Matennio e sino a lei venne sollecito — malgrado i rigori jemali — 13 gennaio 1859 — per interrogarla egli stesso — e a tutti i bisogni di lei — paternamente provvedere.

Alle finestre e ai terrazzini, nonostante l’ora incomoda, si sporgeva una moltitudine di signore e di signori, plaudenti e sventolanti bandiere e fazzoletti. La signora Stella Donadeo, vedova di Michele Spada di Spinazzola, che nonostante fosse fresca di parto, volle godersi quello spettacolo, ne prese una malattia, per la quale morì. Il cortile del palazzo dell’Intendenza era illuminato a luce elettrica: portentosa novità dovuta al padre Miozzi, professore di fìsica nel collegio reale dei gesuiti e al professore Giuseppe Balsamo, che poi fu deputato per alcuni anni. La carrozza reale entrò nel grande atrio del palazzo e si fermò innanzi allo scalone, dove erano convenuti il sindaco, don Pasquale Romano, i decurioni Giovambattista Guarino e Pasquale Pensini, il segretario generale de Nava, il presidente e i giudici del tribunale, nonché donna Maria Morelli, la baronessa Gualtieri, il barone Giovanni Casotti, il sacerdote Giuseppe Centonze, ex-cappellano militare, e altri pochi. Lungo lo scalone, da una parte facevano ala gli alunni del collegio dei gesuiti, dall’altra gli impiegati: tutti avevano torce accese in mano.

Sceso di carrozza, il Re chiese scusa di esser giunto in ora cosi mattutina e di aver disturbate tante persone; poi, tirando su con tutt’e due le mani i calzoni, com’era suo costume, disse alla guardia d’onore, Tommaso Caputo, che aveva accanto: “Fa molto freddo, guardia„; e il Caputo prontamente rispose: “Maestà, questo freddo non è bastato a intiepidire la devozione della cittadinanza, che ha voluto vedervi e salutarvi„. La risposta piacque al Re, che la ripetè nel ricevimento delle autorità. Si fermò, quindi, ad ammirare il cortile illuminato a luce elettrica, e poi cominciò a salire l’erto scalone quasi penosamente. Dopo i primi scalini, notò un ufficiale di ponti e strade, addetto alla piazza di Lecce, Luigi Lamonica e, fermandosi dinanzi a lui, [p. 379 modifica]lo rimproverò severamente per le cattive informazioni, che disse aver ricevute sul suo conto; del che è facile immaginare quanto il pover’uomo si sentisse umiliato. Entrò nel suo appartamento dicendo che aveva freddo e chiese del fuoco. In nessuna sala si erano accesi i caminetti: si provvide come meglio si potè, ricorrendosi persino all’espediente di mettere cenere calda in catinelle, per riscaldare mani e piedi. Il Re non volle che una tazza di brodo e la bevve con le spalle appoggiate ad uno de’ caminetti, che s’eran potuti accendere. E dopo un quarto d’ora, licenziato il seguito e fatti ringraziare gli altri, insieme con la Regina, si ritirò nella sua camera da letto, dove Galizia aveva distesa e apparecchiata la branda da campo, che era servita anche ad Ariano, a Foggia e ad Acquaviva. Il Re si buttò sulla branda, vinto dalla stanchezza, si fece coprire bene e riposò poche ore.


Si levò alle sette, e dopo aver ascoltata, con la Regina e i principi, la messa, detta dal vecchio monsignor Caputo nella cappella del palazzo, si trattenne con Murena e con Bianchini circa le cose dello Stato, e con Sozi Carafa su gli affari della provincia. Più tardi ammise al baciamano tutte le autorità e die’ udienza pubblica a quanti volevano chiedergli grazie, e furono molti. Il Re era in piedi nel grande salone dell’Intendenza, la Regina gli sedeva a destra, e intorno i principi. Alle loro spalle, e a qualche distanza, stavano il principe e la principessa della Scaletta e gli altri dignitarii; alla porta del salone, l’intendente. Si recarono ad ossequiare i Sovrani, prima degli altri, oltre a monsignor Caputo, monsignor Vetta, vescovo di Nardo, monsignor Francesco Bruni, vescovo di Ugento, quasi tutti i signori di Lecce e della provincia, i priori delle congregazioni laicali e i capi degli Ordini religiosi. Le signore erano presentate alla Regina dalla moglie del sindaco, donna Felicetta Romano dei baroni Casotti. Alle due, i Sovrani e i principi, in carrozze offerte dai signori leccesi, andarono a visitare il duomo, aprendosi a stento un varco in mezzo alla folla plaudente. Nella navata maggiore erano schierati, in doppia ala, fin dal mattino, i dragoni della guardia; uno di essi, stanco dalla lunga attesa, cadde svenuto, ma si riebbe subito. I Sovrani si assisero sotto il trono del vescovo, il quale si collocò dirimpetto, in cornu epistolae e, dopo un enfatico discorso e il canto del Te Deum, impartì loro la [p. 380 modifica]benedizione. I principi, i dignitari, il sindaco e le altre autorità sedettero negli stalli canonicali. Il Re volle poi vedere l’altare di Sant’Oronzo, patrono di Lecce, ed accortosi che fra gli ornamenti mancava un paliotto d’argento, fece promessa di questo dono, promessa che, solo pochi anni or sono, venne sciolta dal figlio Francesco.

Usciti dal duomo, i Sovrani e i principi visitarono l’educandato delle fanciulle, detto delle Angiolille, diretto dalle suore della Carità; furono molto soddisfatti dei lavori delle alunne, e udirono composizioni poetiche per la circostanza. Erano fra le educande due nipotine di Niccola Schiavoni. Le ragazze, piangenti, presentarono al Re una supplica, ma il Re passò innanzi senza darsene per inteso. Tornati al palazzo, i Sovrani tennero circolo, cui presero parte le signore leccesi presentate nella mattina. Alle sei di sera, una sera splendida ma rigidissima, l’atrio dell’Intendenza fu di nuovo illuminato con la luce elettrica del padre Miozzi. La grande lampada era stata collocata nel mezzo del cortile; dagli archi pendevano candelabri, e ai lati, enormi fanali, con effetto veramente magnifico.

Alle sette era fissato lo spettacolo di gala al teatro, col Trovatore, ma il Re, saputo che in Lecce si trovava il noto buffo napoletano Mazzarra, disse: “Che Trovatore e Trovatore, voglio sentì don Checco; me voglio divertì„ . E, in poche ore, si dovette allestire il nuovo spettacolo. Il teatro, teatro così per dire, era allora dov’è presentemente il Paisiello: un locale vecchio e affumicato, a cui si addossavano catapecchie cadenti. Lo addobbarono alla meglio, con festoni di fiori, e con triplicata illuminazione. Il palco di mezzo fu destinato alla Corte. Molti spettatori occupavano gli altri palchi, ma la platea era sul principio quasi vuota per l’alto prezzo del biglietto di entrata, sei carlini, stabilito dal direttore don Alfonso Scarfoglio, onde l’intendente ordinò ingresso gratuito a quanti fossero decentemente vestiti, e così la platea si riempi in un attimo. All’ingresso prestavano servizio le guardie d’onore. Il Re venne ricevuto dalla commissione nel piccolo atrio; e poichè le cerimonie del ricevimento furono lunghe, dovè restare a capo scoperto per qualche minuto, sulla porta, mentre soffiava forte la borea di fuori e penetrava nella platea. La sua alta persona sporgeva quasi tutta fuori del palchetto, angusto per lui. Due gendarmi si [p. 381 modifica]collocarono sul palcoscenico, presso ai due palchi di proscenio. La Regina sedeva allato al Re, e i principi presero posto in un palchetto accanto. Alzato il telone, gli alunni del reale ospizio di San Ferdinando cantarono un inno achillinesco, scritto per la circostanza da Enrico Mastracchi e musicato dal maestro Carlo Cesi. Cominciava:

Salve, o Re, che tua gloria ponesti
Nella pietà, che in fronte ti brilla;
Tu qual astro sui poveri mesti
Balenasti di lieto fulgor.

E finiva:

Ah, se un dì funestissimo, il tempo
Da quest’alme il tuo nome cancelli;
In quel dì restin muti gli augelli
Manchi al sole l’usato splendor.

Il poeta serbò fede ai Borboni, e io lo conobbi, venticinque anni dopo, in Roma, direttore d’un giornale clericale e borbonico impenitente.

Durante la rappresentazione, Ferdinando II parlò con Murena, con l’intendente, col ricevitore generale Daspuro e con le altre autorità. E poiché, come ho detto, aveva l’abitudine di tirarsi su per la cintola i calzoni, gli spettatori dovettero levarsi, quattro cinque volte, in piedi, credendo che egli si levasse per andar via. Alla fine del primo atto si alzò veramente per tornare all’Intendenza. Era stanchissimo; la notte avanti non aveva dormito; in teatro aveva sentito più forti brividi di freddo, nonostante il pesante cappotto militare. All’Intendenza ebbe luogo una suntuosa cena, dopo che dal balcone i Sovrani ebbero veduti i fuochi artificiali, che chiusero le feste di quel giorno. Alle dieci il Re si mise a letto. La partenza per Bari era fissata la mattina seguente, alle nove e mezzo.


Ma nella notte il Re si senti peggio. Crebbe il suo dolore ai lombi e un senso di oppressione gl’impedi di chiudere occhio. Aveva la febbre. All’alba (era di sabato) l’intendente fu chiamato in tutta fretta dalla Regina; ed entrato nell’appartamento reale, apprese in anticamera il malessere e la insonnia del Re, nella notte. Dopo un momento comparve la Regina, che [p. 382 modifica]lo richiese di un medico. “Ne abbiamo due, Maestà, rispose Sozi Carafa, il D’Arpe e il Leone; di maggior grido e valore il primo, ma vecchio liberale; l’altro più giovane, anche liberale, ma uomo d’ordine„. “Si chiami il secondo„, ordinò la Regina. E fu chiamato il dottor Giuseppe Leone, di famiglia liberale, bel giovane, intelligente e assai stimato nella sua professione. Non vide subito il Re, ma dai sintomi della malattia, che la Regina gli espose, giudicò impossibile la partenza e fu risoluto di non partire. Le rappresentanze, venute per ossequiare i Sovrani, insieme con le rispettive bande musicali, formavano una folla, che assordava la città con grida ed evviva e occupavano tutto l’atrio dell’Intendenza e la spianata tra il palazzo e la villa. Nella giornata il Re si aggravò di più, nè migliorò durante la notte tanto da tener desto tutto il palazzo. Era cresciuta la febbre, sentiva una gravezza al capo e un peso allo stomaco; diventati più tormentosi i dolori ai lombi. La mattina seguente, 16, volle di suo capo cavarsi sangue. Fu mandato a chiamare il miglior flebotomo di Lecce che tuttora vive, don Antonio Marotta.

Il Marotta, sorpreso dell’invito, che ebbe da un gendarme, corse all’Intendenza. Il primo che vide fu Sozi Carafa, il quale per dargli coraggio gli disse: “Marotta, come salassi me, salassa Sua Maestà„. Indi entrò nella camera del Re, dove già stavano la Regina e il dottor Leone. All’inchino del Marotta, Ferdinando II rispose: Bongiorno, masto„, e si levò a sedere sul letto, rimboccando la manica destra della camicia da notte, una camicia a righe bianche e azzurre. Poi entrarono i tre principi che gli baciarono la mano, dicendo: “Buon giorno, papà; come state?„, e si allinearono come tre soldati accanto al letto. Ferdinando II chiese al Marotta se avesse portata una lancetta nuova, e poichè quegli rispose di no, volle che lavasse quella, che aveva, accuratamente. Allora entrarono i servi con tutto l’occorrente per il salasso. Il Re scese dal letto, si avvicinò alle immagini che stavano sopra il cassettone e, inchinato il capo, si unse la fronte con l’olio delle lampade che ardevano avanti ad esse. Il Marotta compì, con molta cura, il suo ufficio e al primo zampillo di sangue, un sangue di color rosso cupo, quasi nero, gridò: “Salute, Maestà„ . Due servi in ginocchio reggevano la catinella. Compiuto il salasso, il Re chiese: “Quanto me n’avite [p. 383 modifica]cacciato? — “Dieci once; questa è la regola, Maestà„, rispose il Maretta. E il Re, stringendogli il braccio: “Grazie, masto; m’avite data ’a salute; ’o signore v’’o renne, figlio mio„.6 Il duca di Calabria porse il taffetà per rimarginare la ferita. Al Maretta furon date trenta piastre per il suo servizio; ma il salasso non restituì punto il benessere al Re, come lui credeva; anzi il male si inaspri di più. Lo tormentavano con maggiore insistenza la tosse, il vomito e il peso allo stomaco, tanto che il dottor Leone, credendo che si trattasse di congestione polmonare con complicazione gastrica, prescrisse dell’acetato ammoniacale.


In città si sapeva che Ferdinando II era indisposto, ma nessuno immaginava la gravità del caso, perchè alle guardie d’onore e a quanti prestavano servizio presso i Sovrani, si erano impartiti ordini rigorosi di serbare il silenzio. Si accreditava la voce che tutto dipendesse dai disagi del viaggio, dalla rigidità della stagione e che si trattasse di lieve catarro. Il Re non voleva medicine, dicendo che lo stomaco non gli permetteva di prenderne. Per fargli bere l’acetato ammoniacale e per togliergli dall’animo ogni sospetto, il dottor Leone andò egli stesso alla farmacia Greco, insieme col maestro di casa Martello, che dirigeva il servizio all’Intendenza e se ne fece preparare dal farmacista, Pasquale Greco, due pozioni in due bicchieri distinti. Tornato dal Re, gli disse che un bicchiere era per Sua Maestà e uno per sè. Ferdinando II gli dichiarò di avere in lui piena fiducia; ma, nonostante, il dottor Leone bevve la pozione. Il Re sorrise e bevve la sua. Dopo quella volta, egli prese qualunque cosa gli fosse ordinata dal medico, che successivamente gli prescrisse sale inglese, tartaro e olio di ricino, ma con poco sollievo dell’infermo, che, non potendosi levare e volendo ascoltare ogni giorno la messa, ordinò che si preparasse l’altare sopra un tavolino, nella medesima camera sua. Monsignor Caputo vi celebrava la messa, assistito dai canonici Cosma e Campanaro, che furono poi nominati cavalieri dell’Ordine di Francesco I. La Regina sedeva accanto al letto del suo augusto consorte e non l’abbandonava mai. Ella ed i principi si facevano servire il pranzo nella camera dell’infermo su di una [p. 384 modifica]tavola, che vi si portava ogni volta. Lunghi discorsi faceva il Re col dottor Leone, il quale, pregato dalla Regina, non abbandonava, neppure di notte, l’Intendenza. Ferdinando II, un giorno, lo interrogò sulle sue idee politiche, ed alle franche dichiarazioni ricevutene replicò confutandole con un lungo discorso, nel quale si affermò il Sovrano più liberale d’Italia.

Nonostante le cure del dottor Leone, il male non accennava a cedere. Per maggior sicurezza, la Regina, fin dal secondo giorno, aveva telegrafato al dottor Ramaglia di partir subito per Lecce. Ma il Ramaglia arrivò cinque giorni dopo. Scese all’albergo, oggi del Risorgimento, e di là, in marsina e cravatta bianca, si recò all’Intendenza, tra la molta maraviglia di quanti videro questo vecchietto elegante e vispo, che nessuno conosceva, non alto di statura, ma dall’aspetto signorile e sorridente, accompagnato da un giovane, non più alto di lui. Quando poi si seppe che il primo era don Pietro Ramaglia, e il secondo il suo assistente Domenico Capozzi (che doveva più tardi acquistarsi un nome da uguagliare quello del maestro), cominciarono i primi sospetti sulla gravità della malattia. Giunto al palazzo, il Ramaglia fu ricevuto dalla Regina, che non gli volle far vedere subito il Re per non allarmarlo, ma lo informò largamente del suo stato.

I due dottori ebbero un primo colloquio o consulto. Il Ramaglia, che aveva la debolezza, cresciuta con gli anni, di credere d’intuir le malattie senza esaminare l’infermo, giudicò, da principio, il male del Re una febbre reumatico-biliosa. Il dottor Leone l’aveva definita reumatico-catarrale, con complicazione gastrica; ma il Ramaglia insistè per la biliosa, perchè egli sapeva, aggiunse, a quali dispiaceri fosse andato soggetto il Re. Dopo averlo visitato, Ramaglia confermò la sua diagnosi, ma forse capi che il caso era più grave di quanto avesse supposto. E poichè si era maravigliato di non vedere presso il Re il valoroso dottor d’Arpe, suo amicissimo, volle andare a vederlo e gli chiese: “E non ti chiamarono per il Re infermo?„ — “Non sono il medico del tempo„, rispose il D’Arpe. “Curiamo la febbre, disse il Ramaglia, ma temo che lo sfacelo andrà più oltre„; e seguitò a curare la febbre, la quale dai sintomi, che si manifestarono posteriormente, apparve causata da quell’ascesso all’inguine, che, non curato da principio, come si doveva, avvelenò il sangue [p. 385 modifica]dell’infermo e lo portò alla tomba. Il Ramaglia aveva tutto il tipo del medico cortigiano: epperò cercava innanzitutto d’illudere sè stesso circa la gravità del male, se pure non si voglia ritenere quel che molti ritennero fin d’allora, ch’egli non avesse capita la malattia, e per non confessarlo, dichiarasse più tardi immaginarii i primi dubbi del dottor Niccola Longo di Bari. Era loquacissimo, sempre disposto al riso, alla barzelletta e all’adulazione. I maligni dicevano che, dopo il desinare, rifiutasse di far visite.


La notizia della malattia del Re, nonostante l’assoluto divieto di parlarne, si diffuse rapidamente nella giornata del 16, perchè ricorrendo in quel giorno il natalizio del duca di Calabria, la Corte non prese parte alle feste preparate. La mattina si distribuirono ventiquattro letti e ottanta camicie ai poveri, per il valore di trecento ducati e cento ducati furono largiti in elemosine. Suonarono le bande nelle piazze e a mezzogiorno si cantò in duomo un solenne Te Deum, con l’intervento delle autorità in grande uniforme, ma l’assenza dei principi contribuì ad accreditare le notizie allarmanti circa la salute del Re. A fine di attenuare questa impressione, il Re volle che nei giorni seguenti continuassero le feste, e i tre principi, scortati da dragoni a cavallo e da guardie d’onore, facessero lunghe passeggiate in carrozza sino ai paeselli intorno Lecce, e uscissero a piedi per la città, visitando gli stabilimenti e gl’istituti pii. In una di queste passeggiate, un operaio di Caballino chiese al duca di Calabria un ricordo e questi gli fece dare una piastra d’argento. Un altro giorno tornando in carrozza da un giro lungo le mura, accompagnato dalle guardie d’onore Tommaso Caputo, Alessandro e Gaetano Sauli di Tricase e dalle guardie Carducci e Liberatore di Taranto, che, a cavallo facevano da battistrada, vide fermo all’angolo del palazzo Libertini, don Luigi de Vitis, un prete stravagante, il quale dopo il 1860 gettò la sottana alle ortiche. Appena il principe gli fu vicino, il prete cavò dall’abito una supplica, ma la mossa fu così rapida che si credette a un attentato, e le guardie d’onore si strinsero intomo al duca di Calabria, e dietro a loro si formò subito un po’ di folla. Però, visto che si trattava di ben altro, tutti risero, ma Francesco, impaurito, gridò alle guardie d’onore: “Caricate questa folla„, e volle rientrare in palazzo. I principi visitarono l’orto [p. 386 modifica]sperimentale e l’orto agrario, non che il liceo e il convitto, di cui era rettore il padre Carlo Maria Blois, napoletano, fratello dell’ ingegnere di ponti e strade, Fedele Blois, che accompagnando il duca di Calabria a vedere i lavori di fortificazione a Gaeta, cadde e si ruppe un braccio. Francesco ricordò il doloroso incidente al padre Blois. Nella cappella del collegio, il duca di Calabria s’inginocchiò al disotto del gradino dell’altare, dicendo: “Sul gradino, no, perchè questo è il posto dei preti„ . Pietro Acclavio di Taranto, alunno del convitto, declamò in quella occasione una poesia scritta dal padre Baroni, maestro di rettorica, per accompagnare il dono d’un quadro rappresentante la Madonna col bambino. La poesia cominciava cosi:

L’immagin di Colei che t’ama tanto
E che tu riami ....

Durante la visita al collegio, l’intendente Sozi Carafa, stanco e assonnato, si buttò sopra un divano e i principi nell’uscire lo sorpresero che russava. I principi videro anche gli orfanotrofi di San Ferdinando e di Santa Filomena e il convitto delle suore della Carità. Queste, per mezzo dell’intendente, avevano mandati alla Regina alcuni oggetti tessuti con lana di pesce che si raccoglie nelle acque di Taranto.

L’arrivo del Ramaglia aveva convinto tutti che le condizioni di Sua Maestà erano piuttosto gravi, ma, qualche giorno dopo la venuta del celebre medico, si verificò un notevole miglioramento. Diminuì la febbre, anzi scomparve addirittura il 23, vigilia dell’arrivo in Brindisi degli arciduchi d’Austria, Guglielmo e Ranieri e dell’arciduchessa Maria. L’arciduca Guglielmo e l’arciduchessa Maria erano germani della Regina Maria Teresa, e l’arciduca Ranieri era marito dell’arciduchessa Maria. Andavano a Lecce per informarsi della vera malattia di Ferdinando II, della quale erano pervenute notizie allarmanti alla Corte austriaca, e per fissare il giorno della partenza di Maria Sofia, la quale aspettava da più di una settimana a Vienna, col suo seguito.

Gli arciduchi la mattina del 24 sbarcarono dal vapore Elisabetta nel porto di Brindisi e furono ricevuti dall’intendente, mandatovi dal Re apposta. Partiti subito alla volta di Lecce, furono incontrati, a mezza strada, dai principi Francesco, [p. 387 modifica]Luigi e Alfonso: questi ultimi, loro nipoti. Giunsero in Lecce a mezzogiorno e si recarono subito dal Re, che li accolse con affetto. Questi si era levato, non aveva febbre e assistette al pranzo, conversando allegramente cogl’imperiali congiunti. Si stabili di far sbarcare la sposa, non più a Manfredonia, ma a Bari, nei primi giorni di febbraio. Egli, il Re, partirebbe da Lecce, continuando il miglioramento, fra due o tre giorni e gli arciduchi promisero che si sarebbero trovati a Bari per l’arrivo della sposa e per assistere alla benedizione nuziale. La sera stessa ripartirono per Brindisi, che, impaziente di mostrare i magnifici preparativi fatti per il Re, colse l’occasione del ritorno dei cognati di lui, per illuminare la marina. Sotto un padiglione, l’arcivescovo, il sottointendente e le autorità civili e militari attendevano gli arciduchi, i quali, accolti gli omaggi, fra le acclamazioni tornarono a bordo dell’Elisabetta, che salpò per Palermo e Napoli.

Intanto l’annunzio della miglioria del Re, telegrafato anche a Vienna, si diffuse per la città e le dimostrazioni di gioia ricominciarono. Si volle cantare un Te Deum in duomo e s’invitò all’uopo papa Enrico Lupinacci, il miglior cantore ecclesiastico di Lecce; ma papa Enrico, buon liberale, nonostante le insistenze del Sozi Carafa, si finse infreddato e non volle cantare. Il Re riprese gli affari dello Stato e anche quelli della provincia, vietò al comune di Lecce di metter mano ad abbellimenti della città, per non aumentare i grani addizionali e promise una succursale del Banco di Napoli, promessa che non fu poi mantenuta.

La mattina del martedì, 25 gennaio, che era una bellissima giornata, Ferdinando II, sentendosi sempre meglio, mostrò desiderio di uscire, ed avendovi i medici acconsentito, usci infatti a piedi per la città, con tutta la famiglia. Li seguiva una folla sterminata e acclamante. Camminava lentamente ed era pallidissimo. Al ritorno, l’artista Antonio Maccagnani gli offri una statuetta di Sant’Oronzo, in cartapesta. Ferdinando gradi il dono e ordinò al maestro di casa di portarla nella sua camera da letto; anzi, per maggior sicurezza, lo seguì egli stesso per indicargli il posto preciso, dove la voleva collocata. Nell’attraversare il gran salone, il cui pavimento era incerato, raccomandò al Martello di guardarsi dal ruzzolare, temendo che la statuetta avesse [p. 388 modifica]a rompersi. La sera di quel giorno, il Ramaglia consigliò la Regina ad affrettare la partenza. Il Re stava bensì meglio, ma sentiva una grande prostrazione di forze, e i due medici non erano veramente tranquilli sulle condizioni di lui, anzi prevedevano una ricaduta e volevano evitare il pericolo, che questa avvenisse a Lecce, cioè a un punto estremo del Regno.

All’una pomeridiana del giorno appresso, la famiglia reale si recò in carrozza, con tutto il seguito, a visitare i vicini comuni di San Cesario e di Lequile. La visita era impreveduta e nulla vi si trovò preparato. Tornati a Lecce, gli augusti viaggiatori si recarono al duomo, dove furono ricevuti dal vescovo, dal capitolo e da tutto il clero, sotto un ricco baldacchino, sorretto dai canonici. Dopo aver ricevuta la benedizione, pregarono sull’altare di Sant’Oronzo; poi, rimontati in carrozza, fecero un giro intomo le mura e, alle 4, ritornarono all’Intendenza. La partenza fa fissata per il domani. Se alcuni paesi della provincia rimanevano delusi nelle loro speranze di vedere il Re, dopo di aver preparati archi e trofei, la salute del Sovrano imponeva di passar sopra a questi riguardi. Fra le città deluse va ricordata Gallipoli, che aveva fatti preparativi straordinarii e apparecchiata una ricca lancia, per condurre il Re e la famiglia reale a vedere i lavori del porto. Le iscrizioni di Gallipoli erano addirittura secentistiche. Uditene una, che, a caratteri cubitali, si leggeva sulla banchina del porto: Qui — allo schermo della sacra parola del Re — muti tacciono i venti — e nel pietoso seno della misericordia — dileguasi il fremito dell’uragano — ancora una parola — e il truce demone della tempesta — abbandonerà per sempre — le rive Gallipoline.7






Note

  1. Pasquale Ardito, Le avventure di Niccola Morra, ex bandito pugliese. — Monopoli, Gherzi, 1896.
  2. Vuol dire: perchè sono ragazza e mi debbo maritare.
  3. Andate, mi bastano due canonici di qui: andate.
  4. Che fanno i fratelli? Ci son fratelli a Taranto?
  5. Se si mettessero le piastre, che si sono spese, l’una sull’altra, si farebbe una torre più alta di questa qui.
  6. Grazie maestro; m’avete data la salute: il Signore ve ne renda merito, figlio mio.
  7. Altri particolari circa la dimora di Ferdinando II a Lecce, particolari d’importanza tutta locale, sono riferiti nell’interessante libro di Niccola Bernardini, che vide la luce a Lecce nel 1895, dal titolo: Ferdinando II a Lecce.