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principi occupavano tutto il primo piano, e l’ampia sala, che ora serve alle adunanze del Consiglio provinciale, era stata trasformata in salone da pranzo. All’Intendenza doveva prendere alloggio anche il seguito della duchessa di Calabria, onde non vi rimase camera vuota. L’intendente e la sua signora si erano adattati in due camere remote del secondo piano.

I preparativi non avevano tregua. La commissione per le feste e singolarmente, Enrico Capriati, dava prova di singolare abilità, dovendo provvedere a tante cose. Erano state nominate per i principi e gli arciduchi altre commissioni di ricevimento e di cerimonie, e una di giovani delle primarie famiglie e più distinti negli studi. Ma una nota triste dominava in quell’allegria ufficiale: il Re aveva passata la notte fra atroci sofferenze. Ramaglia adoperò tutte le risorse della professione per lenirgli i dolori, ma invano. Aveva la febbre, non trovava requie in letto, ne gli bastava la forza di stare in piedi. Dimagrava a vista d’occhio e le preoccupazioni morali rendevano più grave lo stato suo. Non era possibile che uscisse per andar incontro alla sposa, e neppure che si levasse un momento, per assistere alla benedizione nuziale, che si compiva a due camere di distanza dalla sua. Aver affrontato quel viaggio nelle condizioni descritte, per prender parte al matrimonio del suo caro Lasa, e non potervi assistere era estremamente triste per lui.

Alle dieci un colpo di cannone annunziò che il Fulminante e il Tancredi erano in vista. Mossero dal palazzo dell’Intendenza e s’avviarono al padiglione, appositamente eretto allo scalo^ le autorità e i personaggi ufficiali in grande uniforme, il cerimoniere Statella, il sindaco Capriati e, insieme con loro, i vescovi della provincia, convenuti a Bari, non che monsignor Gallo, confessore della Regina, e monsignor Rossini, arcivescovo di Acerenza e Matera. Lungo il corso Ferdinando, erano schierate le truppe, sotto il comando del generale Caracciolo di San Vito; il padiglione di sbarco era custodito dalle guardie d’onore e dai granatieri, e i due moli del porto, dalle guardie doganali. I legni mercantili erano parati a festa e le bande musicali non cessavano di sonare l’inno borbonico. Appena il Fulminante dette fondo, furono sparati cento colpi di cannone dal castello, e ogni colpo veniva ripetuto dai grossi bastimenti e dalle barche doganali. Sin dalle prime ore della mattina, l’ampio Corso e