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ginio lavorava, dove anzi si poteva credere che pontificasse. Ma non dubitate, se ne ricattavano in sala da pranzo, quei cari demonietti, saltandogli sulle spalle, scomponendogli la divisa dei capelli, abbracciandolo stretto. Ora piaceva a Lamberto di accomodarsi sulle sue ginocchia, per ripassare sulla tavola centinaia d’immagini, dicendo a chi voleva levarlo di lì, che sulla sedia ci stava male, non potendo arrivare coi gomiti sul piano della tavola. Ora saltava in mente a Guido di arrampicarsi sulla spalliera della sedia, di girargli intorno alla testa le sue belle braccine, tanto da giungergli con le manine sugli occhi, per gridargli: indovina chi sono. Sei Lamberto; doveva rispondere invariabilmente Virginio. Ah, vedi? te l'ho fatta; conchiudeva non meno invariabilmente il piccino.

Lamberto e Guido erano stati vestiti da principio di nero; sei mesi dopo, di grigio. Ora tornavano al bianco, al rosso, al turchino. Anche la contessa aveva seguito il colore dei bimbi; finito il lutto e il mezzo lutto, era ritornata alle tinte predilette. Con la medesima calma di Virginio, quando lavorava, Fulvia aveva messa la gramaglia e l’aveva lasciata, senza ostentazione da principio, senza giubilo in fine.

Uno di quei giorni, la bella signora aveva attaccato con Virginio un discorso che da parecchio tempo meditava di fargli.

— Signor Lorini, si lascia dire una cosa? Lei lavora troppo. Permetta anche a me di fare qualche cosa qui dentro.

— A Lei, signora! che dice? Ma, prima di tutto, io non ho troppo lavoro. E poi, che cosa vorrebbe far Lei? farsi veder qui a pianterreno? mettersi a contatto con gente d’ogni specie?

— Ebbene, che importa ciò? Mi faccia questa grazia, mi associi ai suo lavoro.

— No, perdoni, non posso.... e, se mi permette di dirlo, non voglio.

— Sempre Lei! — esclamò Fulvia!

— Sempre; — rispose Virginio.

BARRILI. La figlia del re. 20