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casa di suo padre; son dunque in casa sua, e non posso aver segreti per nessuno dei due.
— Bene, bene! — conchiuse Fulvia. — Chi sa che non mi venga voglia di procedere, quando Ella meno se l'aspetti, ad una ispezione minuta nel suo santuario! —
Virginio trasse un sospiro. Povero santuario, ahimè! dov’egli era vissuto tanto dolente! Eppure, così l'anima nostra si avvezza ai luoghi delle sue afflizioni, che egli ne aveva sentita la mancanza acerbissima per tutto il tempo ch’era rimasto lontano di là, nella solitudine di Bercignasco. Che giorno felice per lui, quando aveva potuto far ritorno al suo covo! Lo ritrovava tal quale lo aveva lasciato. Il signor Demetrio, che si era impossessato delle chiavi, glielo dischiudeva sotto gli occhi, dicendogli: «non c’eri tu, ragazzo, e non c’è mai entrato nessuno». Là dentro passava lunghe ore leggendo, più spesso meditando, contemplando, come un triste cenobita. La cameretta del solitario non è poi altro che un nido, un involucro geloso, quasi una coscienza più vasta, ma ugualmente chiusa, dove nessuno penetra, e donde la mente spazia liberamente da per tutto.
Quante cose del passato, là dentro, quanti ricordi, quante immagini gli richiamava ogni oggetto! Da quella stanza, come porgeva l'orecchio a tutte le voci della casa! Quante volte, nel cuor della notte, essendo la bambina ammalata, si era levato di là per andarla a visitare, per chinarsi sulla sua culla, a spiarne i moti, a studiarne il respiro! E là, quando Fulvia si era fatta più grande, là aveva pensati i temi dei còmpiti quotidiani di lei; là aveva preso a disamina, l'un dopo l'altro, tutti i libri di scuola, dal sillabario alla grammatica, dalle letture del primo grado fino a quella famosa antologia del Mauri, per adempiere meglio che per lui si potesse il suo ufficio di maestro. Ma poi, colpa sua, non lo aveva più continuato; la fanciulla era andata per suo consiglio in educazione dalle Dame Inglesi di Lodi, e la camera del povero maestro era ri-