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in pace a casa Bertòla. Anche le ciarle si erano molto chetate in paese; e questo per una buonissima ragione. Da principio si era mormorato, criticato, censurato l’orgoglio dei Bertòla; poi, dopo le disgrazie avvenute, si era passati alla commiserazione, diventata generale dopo la fuga e le ladrerie del signor conte Spilamberti. Ora non si può star sempre lì a compatire il prossimo; la gente se ne stanca assai più presto che non di leggergli la vita.
Lamberto e Guido, i due cari innocenti, i soli ignari di tutto, rallegravano dei loro amabili strepiti la casa del nonno. Spesso saltavano al collo del signor Demetrio; più spesso al collo del signor Virginio, gran distributore di belle immagini e figurine di carta. Senza avvedersene, il signor Virginio ripigliava a fare con essi come aveva fatto vent'anni prima con la madre loro. Par compir l’opera, metteva fuori una scatola con le lettere dell’alfabeto, espresse in altrettanti tasselli di legno. Per il piccolo Guido non erano che un balocco; per Lamberto, che aveva toccati i quattro anni, erano già un esercizio. Il primogenito di Fulvia, nella prima settimana, imparò a conoscere le vocali.
La bella mamma pensosa assisteva alle lezioni, seguitando a lavorare. Non ricamava, cuciva; le pareva troppo da gran signora, il ricamare; amava meglio attendere alle più umili occupazioni del tagliare, imbastire, cucire e rammendare le vesticciuole, i calzoncini, le camicine, e tutto l’altro della biancheria dei piccini. Al signor Demetrio pareva che quello non fosse lavoro per lei, e che una cucitrice presa alla giornata non sarebbe stata la morte Domini. Ma lei non voleva saperne.
— Non è per l’economia; — diceva Fulvia, sorridendo. — So bene che s’incomincierebbe troppo tardi, se mai. Ma mi piace far così; sono contenta così; sono nata borghesuccia; della mia condizione mi ritornano gl’istinti, e mi piacciono.
Il signor Demetrio faceva una spallata, e se ne andava regolarmente pei fatti suoi. Quasi sa-