La Veste d'Amianto/Parte seconda/VI
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VI.
La pace che Noris si era ripromesso di gustare tornato a Cassano, dopo l’esaurimento prodotto in lui dalla lunga fatica sostenuta per la lotta eroica, non si realizzò subito. Dapprima egli dovette subire per oltre una settimana gli inviti che si moltiplicavano per festeggiamenti che volevano essere omaggio e cortesia e che si traducevano in fatica non compensata da una equivalente soddisfazione: poi, vi fu la questione di Dauro da regolarizzare.
Dauro aveva sperato invano la conquista di Minerva Fabbri. Dopo il colloquio che a questo proposito aveva avuto colla fanciulla, Ettore Noris si era affrettato a scrivergli come non gli fosse consentita nessuna illusione. Minerva non ambiva di diventare sua moglie. Colpito così doppiamente, nell’amore e nell’amor proprio, Giorgio Dauro non aveva più trovato il coraggio di mettere a effetto il progetto ventilato in precedenza con Noris: di venire a Cassano e di stabilirvisi trasformando l’aereodromo in una vasta officina per la fabbricazione dei nuovi motori a energia elettrica aerea.
Non veniva più a Cassano, Giorgio Dauro: andava, invece, a New-York per assumervi stabilmente la direzione della nuova Casa che alcuni capitalisti americani si proponevano di fondare laggiù per lo sfruttamento del nuovo brevetto Dauro-Noris per la fabbricazione dei motori.
Così, assente Giorgio Dauro, la pace era finalmente rientrata all’aereodromo colle prime giornate dell’ottobre languido.
Adesso, tutto pareva ritornato come era stato un tempo. Nella casetta di Ettore Noris, Tripoletta aveva ripreso la sua esistenza di adorazione silenziosa, fatta soltanto un po’ più triste dalla presenza continua di Minerva Fabbri.
Noris non usciva quasi più, si rifugiava in una solitudine assoluta e selvaggia ch’egli diceva necessaria ugualmente al suo corpo e al suo spirito dopo il lungo prodigarsi impostogli dalla prova vittoriosa passata.
Lavorava ancora: anzi, era anche per dedicarsi più interamente al suo lavoro ch’egli si era isolato così e che aveva rifiutato tutte le offerte anche le più lusinghiere di partecipare ai raids autunnali.
No, non si sarebbe mosso da Cassano per tanto tempo. A mantenerlo in relazione col mondo esteriore bastavano i colleghi e gli amici che spessissimo salivano da Genova a trovarlo, a informarsi a qual punto fosse il biplano che egli stava costruendo per una traversata a due non più dell’Oceano, stavolta, ma semplicemente del Mediterraneo. A occupare le sue giornate c’era il lavoro e c’era anche la compagnia di Minerva Fabbri che prolungava il suo soggiorno a Cassano, presa lei pure da un bisogno di tranquillità, di silenzio, di raccolta pace che avvicinava più intimamente il suo spirito a quello di Noris.
Dopo la conversazione singolare dove Minerva si era abbandonata sin quasi a lasciar trapelare il suo amaro segreto, nessuna allusione era più stata fatta dai due giovani all’argomento che ne era stato il soggetto, ma il mutato stato d’animo di Minerva era sempre presente alla mente di Noris e modificava il suo contegno verso la fanciulla che ora egli trattava con una dolcezza affettuosa dove entrava sempre l’intenzione d’un conforto.
Quella dolcezza era morbosa per Minerva: ammolliva la sua volontà, scioglieva il suo orgoglio, rendeva più acuta la sua sensibilità, più profonda la sua tenerezza, creava le ore d’estasi in cui Noris le pareva il più buono, il più bello, il più adorabile fra gli uomini, degno di essere ammirato e adorato fra tutti, anche per quella stessa invulnerabilità che era la ragione del suo tormento e del suo spasimo ma che faceva di lui un’eccezione nobilissima fra tutti gli uomini.
Quelle ore avevano poi la reazione naturale nelle improvvise ribellioni in cui il temperamento della fanciulla prendeva il sopravvento sul suo cuore. Allora, Minerva pareva scuotersi da un letargo di tutto il suo spirito: chiamava a raccolta tutte le sue facoltà critiche per demolire in sè stessa l’idolo, per ridurlo alla proporzione di tutti gli uomini, per imporsi di rispettarlo, di odiarlo, di fuggirlo.
Non si mostrava all’aereodromo, in quei giorni: se ne stava chiusa in casa oppure usciva per la campagna. Faceva anche mille progetti contradditori che avevano tutti per scopo di far cessare quella tormentosa vita: fuggire, andarsene lontano per non tornare mai più, portare la sua casa e la sua vita in un paese dove nessuno conoscesse il nome di Ettore Noris, dove ella potesse ricominciare un’altra esistenza e ritrovare la sua pace; andare, invece, semplicemente all’aereodromo e parlare a Noris e dirgli tutto, con passione adoratrice, con sdegno violento, con abbandono semplice, con spasimo disperato: affrontarlo, insomma, e affrontare insieme il suo destino.
Non risolveva nulla: tutti gli impeti e le rivolte cadevano prima che ella tornasse all’aereodromo e come lo scatto era succeduto a un più o meno lungo periodo di rassegnata malinconia, un altro periodo di calma gli succedeva durante il quale ella trovava sufficiente per il suo amore di poter vivere accanto a Noris, in una intimità quasi fraterna, in una ininterrotta vicinanza, in una solitudine che rendeva impossibile anche qualsiasi tormento di gelosia.
In fondo a tutte le sue contraddizioni e oltre tutte le sue crisi, una realtà sussisteva, questa, che ella si abbandonava alla dolcezza triste del sentimento che la diminuiva tutta e che in quell’abbandono del suo amore ingigantiva, diventava passione di fantasia, dedizione di cuore, desiderio di sensi, fiamma complessa e intensa che avvolgeva tutto il suo essere.
Aveva subìto il fascino della forza di Noris, della sua audacia senza pari, della sua solitudine spirituale: ma adesso amava anche la bellezza di Noris, subiva il fascino della sua giovinezza anche attraverso la sua figura snella, i suoi occhi luminosi, la sua bocca tumida e ardente sotto l’ombra nera dei baffi, il suo camminare elastico, il suo gestire elegante e sobrio. Un tempo il desiderio unico era stato quello di regnare nel suo pensiero e nel suo cuore, di dominare tutta la sua vita come la cosa più alta e più cara: oggi, il desiderio le faceva sognare anche le sue mani bianche e salde intorno alle sue tempia per una carezza che fosse anche segno di dominio, che arrovesciasse lento il suo capo e mettesse sul suo viso l’ombra del caro viso chino a suggellare la sua bocca.
Queste immagini che facevano tremare la sua anima e accelerare le pulsazioni del suo cuore, le venivano sopratutto quando ella si dimenticava a contemplare Noris intento a lavorare dinanzi a lei nell’officina o occupato nell’hangar attorno alle sue macchine. Talvolta, le sue pupille intente sprigionavano una forza magnifica che Noris subiva inconsciamente e alla quale ubbidiva levando lo sguardo in viso della fanciulla. I loro occhi s’incontravano così un attimo: pieni di confusione quelli di Minerva, sereni e un poco interrogatori quelli di Noris. Poi, il giovane sorrideva, tornava al lavoro che prima lo occupava e si limitava a chiedere, talvolta:
— Che pensate?
— Nulla, — dicevano le labbra di Minerva.
E l’altro non insisteva più.
*
Si cominciava a discorrere all’aereodromo degli esperimenti da farsi col biplano di Noris, quasi pronto. Il programma era questo: provare la macchina a Cassano con qualche breve volo che l’aviatore avrebbe compiuto solo: fare un più lungo volo a due da Cassano a Genova e infine avventurarsi ancora a due per la nuova prova, fra Genova e la Corsica.
Quella mattina, all’aereodromo, mentre Noris e Ugo lavoravano soli nell’officina, il giovinetto osò chiedere, come aveva fatto altra volta inutilmente, seguendo il suo pensiero con una frase che pareva esserne la continuazione:
— E nel primo viaggio, sino a Genova, chi è che portate come passeggero?
— Ancora non so, — rispose Noris sorpreso.
Lo sguardo del fanciullo brillò di desiderio e di speranza.
— Oh! allora — egli disse — prendetemi con voi!
Era così inadeguato quell’impeto di fervore alla modestia del favore intercesso che Noris non potè a meno di sorridere.
— Immagina! — esclamò, — se non è che questo! — e soggiunse subito: — Sei modesto nei tuoi desideri, stavolta....
— Eh! purtroppo! quando non è lecito ambire di più!
— Come, non è lecito?
— Voglio dire che poichè l’altro posto è preso, debbo per forza accontentarmi di questo!
Noris guardò stupito il suo giovane allievo.
— L’altro posto è preso? — domandò. — Io non ne so nulla!
Ugo diede un sobbalzo.
— No? non viene? non viene più?
— Ma di chi parli? chi è che dovrebbe o doveva venire con me?
— Ma.... la signorina Fabbri!
Il nome di Minerva pronunziato con un particolare accento dal fanciullo, fece corruscare la fronte a Noris.
— Io non ne so niente, — egli disse. — Chi te lo ha detto?
Non sapeva, Ugo.
— Non so più, — egli confessò confuso, — ma lo credono tutti.
— Tutti, chi?
— Gli operai qui; i colleghi laggiù; gli amici.
— Ma perchè?
Appena formulata la domanda, Noris si pentì. Sul viso limpido e schietto del suo piccolo amico s’era improvvisamente diffusa un’espressione di disagio. Come poteva egli dire a Noris:
— Perchè Minerva Fabbri è la tua amante?
Disse con un sorriso che voleva dissimulare un senso di imbarazzo:
— Perchè pare a tutti naturale che debba essere così.
L’espressione corrusca del viso di Noris si accentuò.
— Si sbagliano tutti, — egli disse con una breve voce recisa che voleva smentire anche, oltre il fatto, le supposizioni e le insinuazioni intuite nella incompleta confidenza del fanciullo.
Ugo osò ancora, con un’audacia che gli era data e dalla gioia di quella smentita e dalla speranza improvvisamente risorta ma anche con una esitazione provocata dall’espressione buia che il viso di Noris aveva assunto:
— Allora... se il posto per il viaggio è libero....
Noris completò per lui la frase:
— Porto te, sì. È convenuto.
Il ragazzo gettò un grido di gioia, si slanciò verso Noris, lo abbracciò, tornò ad esprimere con tutta una gamma di esclamazioni gridate, trillate, gorgheggiate tutta, l’esaltazione della sua anima per l’insperata fortuna e si slanciò fuori, verso il campo.
— Dove vai? — gli gridò Noris.
— A dirlo a tutti.
L’aviatore non lo trattenne. In fondo, non gli dispiaceva che la promessa fatta a Ugo smentisse subite le insinuazioni calunniose fatte su Minerva e su lui, sulla loro amicizia e sui loro rapporti e indovinate attraverso le incomplete confidenze del fanciullo. E non gli dispiaceva neppure che il suo piccolo amico se ne fosse andato e lo avesse lasciato solo, libero di raccogliersi e di ripensare la notizia nuova scoperta.
Dunque, pensavano quello di lui e di Minerva?
Ma chi, precisamente? e perchè? e dove? e quando?
— Tutti! — aveva detto implicitamente Ugo.
E Noris sentiva non solo che il giovinetto era sincero ma, ancora, che la cosa rispondeva alla realtà.
Tutti! Gli amici e colleghi di Genova, gli operai dell’aereodromo, gli abitanti del paese, i villeggianti che egli non conosceva, fors’anche.
— Che sciocchi! — pensò.
Sciocchi e cattivi. Perchè, quella supposizione che avviliva il carattere della sua amicizia con Minerva, che toccava e offendeva la sua rispettabilità? Ma non la conoscevano dunque? E lui, non lo conoscevano? Non avevano dunque più valore la sua fama di invulnerabilità e quella di sdegnosa alterezza della fanciulla?
Su che cosa fondava, infine, i suoi sospetti e le sue insinuazioni la gente sciocca e cattiva?
Minerva veniva spesso all’aereodromo, sì: tutti i giorni ci veniva. Ebbene? e poi? Non vedevano tutti quello che ella faceva all’aereodromo? non erano in grado tutti di controllare ogni suo passo, ogni parola, ogni gesto?
Chissà dove giungevano le supposizioni e le calunnie?
Il pensiero che qualcuno avesse potuto davvero pensarlo l’amante di Minerva, gli diede un impeto improvviso di sdegno. Si fossero almeno limitati ad attribuir loro una simpatia reciproca! Era inesatto anche quello ma non era ignobile!
No. Chi aveva lanciato l’insinuazione aveva dovuto lasciar credere a qualcosa di più di una corrispondenza di sentimenti soltanto. Altrimenti, non sarebbe stata in tutti la sicurezza che attribuiva a Minerva il posto di privilegio accanto a Noris nella prova imminente.
E ci avevano creduto tutti! anche Ugo!
Il suo pensiero evocò i colleghi, evocò gli amici: anche Rolla e Coralli e Folco Ardenza e Paolo Adelio?
Una frase di Paolo Adelio dettagli due giorni prima gli tornava alla memoria:
— Coralli ti detesta.... — gli aveva dichiarato l’amico.
Egli aveva domandato, distratto, credendo a uno scherzo:
— Perchè?
E Adelio aveva replicato:
— Perchè è meno filosofo di me!
Adesso, il significato preciso di quelle parole gli si presentava nitido, chiaro, esatto. Così: come non ci aveva pensato prima? Adelio aveva voluto dire quello. E aveva voluto alludere a quello anche Lorenzo Rolla, quando, a un rifiuto opposto alle sue insistenze perchè andasse a Genova, aveva risposto:
— Si capisce! al tuo posto, nemmeno io mi muoverei.
Tutti, dunque, tutti!
Ma erano pazzi!
Perchè, poi, quella insistenza ad attribuirgli un amore per la Fabbri mentre avevano avute tante prove della sua refrattarietà a qualsiasi suggestione sentimentale, tante prove da creargli intorno una leggenda? e perchè supporre vittima di una stessa suggestione proprio quella fanciulla sola che fra tante che gli erano passate accanto non aveva mai subito della sua vicinanza alcuna specie di fascino?
Cercava ancora una risposta a quella doppia domanda quando la porta dell’officina si riaperse a un tratto e Minerva entrò, cinta per un attimo di un’aureola, di sole che subito ella spense richiudendo dietro di sè.
La sua inattesa comparsa provocò in Noris un’impressione fugace di sorpresa che ella colse.
Disse sorridendo:
— Vi faccio paura?
— Vi pare? non vi aspettavo.
— E forse vi disturbo.
— Non disturbate mai, lo sapete.
— Grazie. Ho visto Ugo. È raggiante.
— Sì: non sperava che lo portassi. Oggi è l’uomo più felice della terra.
— Io lo comprendo. Sapete — soggiunse — che avevo intenzione di chiedervi che prendeste me per compagna di viaggio?
— Ah!
Nessun commento fece Noris, nessuna profferta e la cosa parve così strana a Minerva che ella osservò guardando fisso il giovane, intuendo vagamente in lui una inusitata e inesplicabile disposizione di ostilità.
— Ho fatto bene a giungere in ritardo a quanto pare. Voi mi avreste ricusato, vero?
Risolse di essere schietto Ettore Noris.
— Ecco, — egli disse, — non so quello che vi avrei detto, ma sono contento che giungiate in ritardo.
Un senso di gelo si fece nella fanciulla. Ella dovette raccogliere tutta la sua forza di dissimulazione per osservare con un sorriso:
— Ecco ciò che si chiama parlar chiaro.
— Non dovete offendervene, cara amica. Ho le mie buone ragioni per parlarvi così.
— Si possono conoscere queste ragioni?
— La gente è sciocca e cattiva e io mi debbo preoccupare della vostra rispettabilità....
Aveva parlato senza guardarla, Noris, e una lunga pausa seguì alla sua risposta. Tutto lo stupore di Minerva, tutto il suo sdegno, tutta la sua ansia e le mille domande che si affollavano alla sua mente si erano riflesse sul suo viso bianco levato attonito verso il volto di Noris in un avvicendarsi di espressioni rapidissimo.
— Che cosa dice la gente? — ella domandò poi a un tratto con una voce fredda e arida dove suonava soltanto l’accento dell’amarezza.
— Risparmiatemi di dirvelo poichè lo avete già compreso, — osservò Noris.
Ella ribattè:
— E a voi importa di quello che la gente dice?
Stavolta i loro occhi si incontrarono e nessuno dei due li abbassò e le loro labbra non ebbero bisogno di aggiungere più una sillaba a quanto era stato detto, poichè improvvisa e violenta era scaturita dalle pupille d’entrambi la rivelazione terribile.
*
Lui pure! lui pure!
Quell’amore era entrato nel suo cuore e nella sua vita furtivo e silenzioso come un male che si fosse rivelato insieme presente e già inesorabile. Quando era stato? come era stato? Non trovava!
Da un pezzo durava l’insidia lenta che forse, sulle prime si chiamava soltanto amicizia, fraternità, dolcezza di vita in comune, tepore di femminilità vicina, inavvertito fascino di bellezza, di giovinezza, che aveva preso un altro nome e un altro viso quando dai cari occhi ora sgorgata improvvisa, insospettata, inattesa la confessione.
Dio, quell’istante dolcissimo e terribile che valeva un eternità! quella commozione che nessuna parola aveva profanato! quel silenzio dove i loro due cuori avevano parlato il linguaggio fatale e misterioso del destino!
Sì, era la confessione dei cari occhi pieni di trepidazione e d’estasi che aveva rivelato a Noris l’ignorato segreto non mai neppure intuito! Avevano parlato di amore — come tanti altri non meno profondi, non meno appassionati — quei cari occhi, e stavolta la rivelazione, invece di chiudere il cuore di Noris in un senso di strazio e di gelo, vi aveva fatto scaturire improvvisa la fiamma!
La bellissima, l’ardente, la saggia, che gli faceva omaggio della sua anima, della sua vita e della sua alterezza insieme e ancora della sua orgogliosa forza, aveva dunque compiuto il miracolo di riattaccarlo alla vita, di strapparlo alla morte?
Noris se lo chiedeva, adesso, passati due giorni da quel giorno che un orizzonte nuovo aveva dischiuso alla sua anima, e durante i quali egli era vissuto solo, astenendosi anche dall’incontrarsi con Minerva, per interrogare nel silenzio il suo cuore e la sua fede.
Ahimè! l’antica fede che lo aveva fatto devoto a una tomba e ligio a un ricordo, per anni, attraverso tutte le sollecitazioni della vita, non era impallidita nel suo cuore ma attraversava una rude prova.
Ancora si levava alta e corrucciata a chiedere la voce di quella fede, ma invano Noris cercava dentro di sè la forza di ubbidire al richiamo che, come sempre, come sempre gli imponeva ancore la rinunzia!
No, le sue labbra, non avevano parlato, ma egli sapeva bene che la fiamma era dentro il suo cuore e che per mantenersi devoto alla fede antica egli avrebbe dovuto sopprimerla dentro di sè anche a costo di soffrire e di far soffrire, di morire e di far morire....
Egli sapeva anche il modo di uccidere la fiamma. Togliere qualsiasi illusione a Minerva Fabbri, smentire colle parole la confessione dei propri occhi, dirle che il suo amore lo lasciava insensibile come insensibile lo avevano lasciato l’amore e lo strazio di tutte le sue sorelle di passione e di dolore, fuggire, abbandonarla, salvarsi, strapparsi alla dolcezza di quella vicinanza che l’aveva perduto e andare a vivere lontano, ancora tra i fantasmi d’oltre tomba....
Egli sapeva il modo d’uccidere la fiamma: tante volte vi aveva soffiato sopra, per spegnerla nel cuore delle dolenti, delle dolcissime che invano lo avevano amato! E non erano valsi il pianto e le preghiere e l’ardore a temperare la crudeltà della energia che la fede giurata faceva inesorabile!
Ma l’amore di questa silenziosa trovava le vie del suo turbamento più che se si fosse espresso con parole.
Gli suggeriva anche pensieri che erano concessioni fatte alla sua improvvisa debolezza, al segreto suo desiderio di conciliare la giurata fede con quella dolcezza nuova tutta interiore che egli si riprometteva di non lasciar trasparire mai, di non mutare mai in tradimento.
Minerva stessa gli mostrava, a questo proposito, la via da seguire. Non aveva ella sempre taciuto? Non portava silenziosa la sua corona di spine sopra il suo cuore sanguinante? Perchè non avrebbe trovato lui pure la forza di soffrire poichè ella aveva quella di tacere?
No, non correva alcun pericolo la fede giurata alla piccola tomba che per lui s’era dischiusa. E non doveva, non poteva serbargli rancore la morta che riposava in quella tomba poichè egli le offriva un olocausto nuovo: il proprio dolore, oltre l’amore; una fede che il sacrificio avvalorava.
A questo fermo proposito di fedeltà materiale assoluta volle conformare i suoi rapporti con Minerva e perchè nulla nel suo contegno tradisse il suo turbamento interiore si impose il còmpito di sorvegliare ogni gesto, ogni parola.
Quando Minerva tornò all’aereodromo, fu stupita di trovare un Noris più freddo, più chiuso, più circospetto dell’amico di un tempo, un Noris che evitava di restar solo con lei, di parlarle senza bisogno, di guardarla, persino. Sulle prime quella scoperta la sorprese, poi la riempì di gioia, poi la sdegnò.
Non si era dunque ingannata il giorno in cui aveva veduto tremare nello sguardo del giovane la luce nuova che scopriva la sua anima sino in fondo. Si era ingannata, invece, quando aveva creduto nella vittoria del suscitato amore sulla ignorata nemica d’oltre tomba. Ancora a quella avrebbe arriso la vittoria nel duello che aveva per posta la felicità e l’infelicità di tutta la sua vita.
Cominciò a odiarla come avrebbe odiato una rivale viva e le parve di coinvolgere in quell’odio che era strazio e disperazione anche Noris. Perchè, perchè si ostinava in quella fedeltà sterile e inutile che era resistenza e offesa a tutti i richiami della vita? Perchè non si ribellava alla morta implacabile che voleva come omaggio d’amore tanto tributo di spasimo imposto e sofferto?
La frase sfuggitale un giorno a New-York, discorrendo con Noris, le ritornava adesso insistente:
— Così, una rottura d’aneurisma è diventata la tragedia di tutto una vita!
Ma le tragedie si moltiplicavano intorno alla tomba che pareva chiudere un idolo implacabile e sinistro e la ribellione vana alterava, oltre il carattere, anche il cuore di Minerva, la rendeva aspra, sarcastica, amara, cattiva.
Ugo sarebbe stato il compagno di viaggio di Noris nella traversata da Genova alla Corsica.
Minerva Fabbri avrebbe accompagnato l’aviatore nel breve volo da Cassano a Genova. Ella gli aveva chiesto questo favore, presenti gli amici comuni: Adelio, Rolla, Ugo, Folco Ardenza, e Noris preso alla sprovvista in presenza di testimoni, non aveva trovato un plausibile pretesto per rifiutare.
La cosa era stata convenuta tre giorni prima: il volo aveva luogo quella mattina di fine ottobre, con un cielo e un’aria limpide come di maggio.
Il biplano costrutto nell’officina di Noris era sul vasto campo dall’alba, e gli facevano scolta d’onore soltanto i meccanici di Noris e gli operai. Ugo mancava: era partito prestissimo per Genova dove attendevano anche tutti gli amici e i colleghi dell’aviatore e donde nel pomeriggio di quello stesso giorno Noris si sarebbe innalzato per la traversata fino alla Corsica. Della prova nuova, questa era la prima parte: ma si compiva così senza solennità che poteva sembrare soltanto un volo di prova.
Anche senza entusiasmo, si compiva. Noris aveva il viso chiuso e cupo dei giorni di tempesta interiore e i suoi uomini che lo attorniavano, intenti a eseguire gli ordini brevi e rapidi ch’egli impartiva, rispettavano taciturni quel suo evidente malcontento e lo riflettevano sui loro visi.
Era scontento di sè, Ettore Noris. Per la prima volta, nel corso della sua carriera d’aviatore, egli si accingeva a una prova importante senza entusiasmo; per la prima volta non sentiva accenderlo dentro, quella fiamma di esaltazione che metteva la sua fredda serenità al disopra, d’ogni esitazione possibile; per la prima volta — infine — non vedeva delinearsi sull’orizzonte dell’incognita imminente, più vivo e più tangibile del fantasma della possibile morte, il viso ridente e invitante della piccola adorata d’un tempo, morta per lui! Era lontana dai suoi occhi, remoto — gli pareva — persino nel ricordo il profilo purissimo e delicato della piccola Eva, lontano, avvertibile appena quanto occorreva per distinguerne l’espressione d’insofferente corruccio.
Eva non lo assisteva in questa prova nuova, e questa constatazione gli pareva di sinistro presagio.
Eva era lontana e vicina gli era invece Minerva e più vicina gli sarebbe stata lassù: egli la sentiva già dentro di sè, quasi contro alle sue spalle e sentiva il suo sguardo nel cervello, nel sangue, nel brivido lungo che dalla nuca scendeva a ricercargli le vertebre, nel senso di disagio e d’irrequietezza che lo investiva tutto togliendogli ogni serenità.
L’irrequietezza lo prendeva già fin da ora: nasceva dal suo scontento, frutto di contraddizioni infinite, conteneva il rimorso del suo cuore per il corruccio che gli allontanava l’immagine della piccola amica morta, ma anche l’impazienza perchè Minerva tardava a giungere e un segreto timore di un contrattempo qualsiasi che le impedisse di accompagnarlo.
Quest’ultima ragione della sua inquietudine doveva prevalere sopra tutte le altre perchè quando Minerva apparve dopo un istante, più del solito pallida per l’emozione ma anche più bella per l’intensità quasi dolorosa della espressione del suo viso, un’onda di gioia gonfiò il cuore del giovane e fugò per un istante tutte le ombre del suo spirito.
Per un istante. Nessuno si avvide dell’improvviso gaudio interiore come nessuno aveva penetrato le ragioni della sua inquietudine. Anche l’accoglienza che egli fece a Minerva fu dettata tutta soltanto dalla sua volontà, non dall’impulso.
— Siete in ritardo, — le disse levando fuori l’orologio.
— Davvero? non mi pare.
L’orologio diede ragione alla fanciulla: la partenza era stata fissata per le otto e mancavano ancora dieci minuti a quell’ora.
Subito Noris si pentì dell’osservazione fatta che poteva venire interpretata da Minerva come un indice della sua impazienza, che così venne interpretata infatti perchè una luce improvvisa di gioia si accese nelle pupille della fanciulla levate interrogatrici verso il viso di Ettore Noris con tanta adorazione, con tanta implorazione dentro che egli ne ebbe come un senso di vertigine. Aspra e violenta come l’impressione subita fu la reazione. E Minerva non vide che questa, non avvertì che questa tradotta nel modo freddo e quasi villano con cui Noris le rivolse e l’invito di prendere il suo posto e le ultime raccomandazioni.
Ella avvertì appena le sue parole: meccanicamente vi ubbidì, prese posto sul sedile posteriore dell’apparecchio e vi rimase assorta, stordita come da una mazzata dall’incomprensibile contegno di Noris, avvilita, disfatta, con una voglia acuta di piangere che tutto il suo orgoglio e tutta la sua volontà bastarono appena a dominare.
Forse, il giovane avvertì quella prostrazione perchè nell’atto di salire a sua volta sull’apparecchio porse la mano alla fanciulla e disse con dolcezza:
— Buon viaggio a noi!
Prima che Minerva si fosse riavuta dalla sorpresa, Noris era già al suo posto e le volgeva le spalle e il motore levava la sua voce fragorosa nel silenzio dello spazio pieno di sole e d’azzurro.
Ma erano bastati quel gesto e quella frase per commuovere in un altro senso tutta la sua sensibilità acutizzata sino alla morbosità dall’amore e dallo spasimo. Ancora avrebbe voluto piangere, adesso, mentre l’aereoplano saliva in larghe volate verso l’azzurro, ma non più d’avvilimento.
Di tenerezza e di disperazione avrebbe voluto piangere, adesso, per l’impeto che la sollevava verso Noris, per l’amore che indovinava in lui e per l’inutilità di quell’amore del quale era più forte la fedeltà sterile d’un ricordo vano. Perchè? perchè?
L’ebbrezza del volo esaltava la sua passione esasperata. Perchè avrebbe dovuto toccare alla morta la vittoria in quel duello fra l’amore e una tomba? Perchè sarebbe stato più forte di lei che era giovane e bella e innamorata e ardente, l’idoletto freddo e implacabile che le mani di Noris avevano composto nella tomba?
Aveva avuto la sua parte, l’idolo feroce: l’aveva avuto in vita, l’aveva avuto in morte. Ora doveva bastare. Ora, Noris era suo, suo, isolato con lei nella vita come le ali fragili della macchina lo isolavano lassù, con lei, negli spazi senza vie e senza nome, alti sopra la terra tanto che nessun occhio umano poteva ormai intravvederli più! Suo, era Noris, ed ella era padrona della sua vita e per prendere quel cuore avrebbe preso, ove fosse occorso, la sua vita.
Fu come un lampo il pensiero, come un colpo di folgore la vertigine: prendere la vita di Noris e dargli la sua e sentire, per un attimo solo che schiudesse a entrambi l’eternità, la dolcezza suprema del suo amore!
Si sollevò, tese le braccia, gli cinse il capo e lo arrovesciò e Noris sentì sulle sue labbra le labbra ardenti che gli davano e gli bevevano l’anima.
Non resistette alla vertigine: solo le sue mani che avevano abbandonato il volante brancicarono un istante ricercandolo per l’impulso istintivo di ristabilire l’equilibrio dell’apparecchio oscillante.
Ma il viso di Minerva, chino sul suo viso, gli impose in un grido appassionato:
— No!
Ed egli sentì che ella aveva ragione, che così doveva essere, che la morte era il solo degno olocausto capace di riscattare quell’istante.
E lasciò che la catastrofe si compisse.
fine.