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una tomba? Perchè sarebbe stato più forte di lei che era giovane e bella e innamorata e ardente, l’idoletto freddo e implacabile che le mani di Noris avevano composto nella tomba?
Aveva avuto la sua parte, l’idolo feroce: l’aveva avuto in vita, l’aveva avuto in morte. Ora doveva bastare. Ora, Noris era suo, suo, isolato con lei nella vita come le ali fragili della macchina lo isolavano lassù, con lei, negli spazi senza vie e senza nome, alti sopra la terra tanto che nessun occhio umano poteva ormai intravvederli più! Suo, era Noris, ed ella era padrona della sua vita e per prendere quel cuore avrebbe preso, ove fosse occorso, la sua vita.
Fu come un lampo il pensiero, come un colpo di folgore la vertigine: prendere la vita di Noris e dargli la sua e sentire, per un attimo solo che schiudesse a entrambi l’eternità, la dolcezza suprema del suo amore!
Si sollevò, tese le braccia, gli cinse il capo e lo arrovesciò e Noris sentì sulle sue labbra le labbra ardenti che gli davano e gli bevevano l’anima.
Non resistette alla vertigine: solo le sue mani che avevano abbandonato il volante brancicarono un istante ricercandolo per l’impulso istintivo di ristabilire l’equilibrio dell’apparecchio oscillante.
Ma il viso di Minerva, chino sul suo viso, gli impose in un grido appassionato:
— No!
Ed egli sentì che ella aveva ragione, che così doveva essere, che la morte era il solo degno olocausto capace di riscattare quell’istante.
E lasciò che la catastrofe si compisse.
fine.