La Teseide/Libro quarto

Libro quarto

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LA TESEIDE

LIBRO QUARTO




ARGOMENTO


Dimostra il quarto dipartito Arcita
     Con grieve tempo il suo rammaricare,
     Mutato il nome, per sicura vita;
     E di Beozia a Corinto l’andare;
E quindi appresso la sua dipartita,
     E in Micena poscia l’arrivare,
     Dove con Menelao con ismarrita
     Mente si pose per famiglio a stare.
Quindi ad Egina a Peleo se ne vene;
     E con lui non potendo lungamente
     Durar, non conosciuto entrò in Atene:
E di Teseo divenuto servente,
     Quindi dimostra la vita che tene,
     Facendol noto a Panfil primamente.


1


Quanto può fare il tempo più guazzoso,
     Cotanto o più il faceva Orione,
     Molto nel cielo allora poderoso,
     Colle Pleiade in sua operazione:
     Ed Eolo d’altra parte più ventoso
     Il faceva che mai, quella stagione
     Ch’uscì d’Atene il doloroso Arcita
     Senza speranza mai di far reddita.

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2


Grand’era l’acqua, il vento e ’l balenare
     Quel dì ch’Arcita si partì d’Atene,
     Dal termine costretto dell’andare,
     Posto che ’l dove e’ non sapesse bene:
     Ma non pertanto sol per soddisfare
     A Peritoo (avendo ancora spene
     Del ritornar), dolente a capo chino
     In ver Beozia prese il suo cammino.

3


Poco era Arcita d’Atene partuto,
     Quand’egli a’ suoi scudieri: amici cari
     Io non intendo d’esser conosciuto
     Mentre che duran questi tempi amari:
     Perocchè forse, se fosse saputo
     Là dove fossi, i’ non viverei guari;
     E però non Arcita, ma Penteo
     Mi nominate in questo tempo reo.

4


E poi col tempo iniquo cavalcando
     Lo innamorato Arcita, si voltava
     Ispesse volte la città mirando;
     E quindi lei veduta sospirava,
     Seco sovente così ragionando:
     Deh quanto puote amor! poichè mi grava
     Partir del loco ch’io dovrei odiare,
     Se degnamente volessi operare.

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5


E quinci alla cagion che a ciò ’l traeva,
     Ciò era Emilia bella e grazïosa,
     Subitamente l’animo volgeva;
     Onde con voce alquanto più pietosa,
     Fra sè parlando, misero diceva:
     O nobile donzella, ed amorosa
     Più ch’altra fosse mai, esempio degno
     Delle bellezze dell’eterno regno;

6


Dove, partendom’io contra volere,
     Posto che tu giammai non fosti mia,
     Essendo io tuo, ti lascio, o bel piacere?
     Perchè non m’era la prigion men ria,
     Potendo alcuna volta te vedere,
     Ch’avere il mondo tutto in mia balia
     Senza di te, cui io più che me amo,
     Nè altra cosa ch’al mondo sia bramo?

7


Deh se io fossi in la mia libertate
     Dimorato in Atene tanto, ch’io
     Un poco pur la tua novella etate
     Avessi, oimè, accesa del disio
     Del quale io ardo, credo, in veritate,
     Che sentirei il lungo esilio mio
     Con men dolor, sentendo que’ sospiri
     In te per me ch’i’ ho per te, e’ disiri.

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8


Ma tu appena non conosci amore,
     Non che tu m’ami, e però non ti cale
     Del mio intollerabile dolore;
     Nè puoi compassione al mio gran male
     Portare: e ciò che dammi duol maggiore,
     E con asprezza più il core assale,
     È che mi par vederti maritata
     Ad uom che mai non t’avrà più amata.

9


E così ’l mio fedele e buon servire
     Sarà perduto, ed angosciosamente
     Lontan da te mi converrà morire:
     Deh or foss’io pur certo solamente
     Che per tal morte tu dovessi dire,
     Certo costui mi amò ben fedelmente;
     E’ me ne incresce: poi dove ch’i’ gissi,
     Altro che ben non credo ch’io sentissi.

10


O lasso a me, or che vo io cercando
     Ne’ sospir dispietati ed angosciosi,
     Che vanno ognora in me multiplicando,
     Ciò ch’essere non può? O tenebrosi
     Regni di Dite, se alcun tormentando
     In voi tenete, dite che si posi,
     Poichè vivendo i’ son colui che porto
     Sol, pene più che altro vivo o morto.

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11


Poi ad Amor le sue voci volgea
     Con troppo più orribile favella,
     Dolendosi di lui; poscia dicea:
     Oimè, Fortuna dispietata e fella,
     Che t’ho io fatto che sì mi se’ rea?
     O morte trista vien che ’l cor t’appella:
     Congiungi me col tuo colpo feroce
     Co’ miei passati nell’infernal foce.

12


Così piangendo con seco Penteo,
     Più doloroso assai che non appare,
     Il dì seguente del regno d’Egeo
     Uscì co’ suoi, e cominciò ad entrare
     In quel che già felice assai poteo,
     Cioè in Beozia; e dopo alquanto andare,
     Parnaso avendo dietro a sè lasciato,
     Alla distrutta Tebe fu arrivato.

13


E vide tutta quella regïone
     Esser diserta allora d’abitanti:
     Perch’egli cominciò: o Anfione,
     Se tu, intanto che co’ dolci canti
     Della tua lira, tocca con ragione
     Per chiuder Tebe, i monti circustanti
     Chiamasti, avessi immaginato questo,
     Forse ti sarie stato il suon molesto.

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14


Dove son ora le case eminenti
     Del nostro primo Cadmo? E dove sono,
     O Semele, le camere piacenti
     Per te a quel che dal più alto trono
     Governa il cielo, e per le qua’ le genti
     Tebane mai non meritar perdono
     Da Giuno? E quelle dove son d’Alcmena
     Che doppia notte volle a farsi piena?

15


Ove di Dionisio appaion ora,
     Misero a me, gli trionfi indiani?
     E dove son gli eccelsi segni ancora
     De’ popoli silvestri lidiani?
     Nessuno qui al presente ne dimora:
     Li re son morti, e voi tristi Tebani
     Dispersi gite, e in cenere è tornato
     Quel che di noi fu già tanto lodato.

16


Ov’è lo spesso popol, ov’è Laio,
     Dov’è Edippo dolente ove i figliuoli?
     Ogni cosa distrutta ha il foco graio;
     E per multiplicar li nostri duoli
     Coa vergogna, le femmine il primaio
     Vi accesero. O Giunon, dunque che vuoli
     Del nostro miser sangue più omai?
     Non ti pare aver fatto ancora assai?

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17


Piccola forza omai al tuo furore
     Finire ha luogo, ch’io e Palemone:
     Nè altri più del sangue di Agenore
     Rimasi siamo: ed egli è in prigione,
     Ed io in tristo esilio; nè peggiore
     Stato potresti donarci o Giunone,
     Fuor se ci uccidi; e questo per conforto
     Disidera ciascun d’esser già morto.

18


E detto ciò, con ira sospirando,
     Da quella torse il viso disdegnoso,
     Co’ suoi scudieri ver Corinto andando;
     Nella qual giunto, assai piccol riposo
     Fece, ma ver Micena cavalcando,
     In essa, quasi fuor di sè, pensoso
     Pervenne quivi, e così sconosciuto,
     A servir Menelao fu ricevuto.

19


Egli era ancora molto giovinetto,
     Siccome barba non aver mostrava;
     Bello era assai e di gentile aspetto,
     Ed a gran pena quel ch’era celava:
     Ben l’avie fatto alquanto palidetto
     L’amorosa fatica ch’e’ portava;
     Ma non così che molto non piacesse
     A chiunque era quel che lui vedesse.

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20


Egli era già vicin d’un anno stato
     Con Menelao in gran doglia e tormento:
     Nè mai, benchè n’avesse domandato
     Celatamente del suo intendimento,
     Nessuna cosa non avea spiato:
     Perchè ad Egina gli venne in talento
     D’andar, là dove regnava Peleo,
     E concedendol Menelao, il feo.

21


Quivi sperava di poter udire
     D’Emilïa novelle tal fiata;
     Questa sola cagion nel fece gire:
     Egli avea già la forma sì mutata,
     Che di sè cosa non sentì mai dire;
     Sicchè a fidanza colla sua brigata
     Prese il cammino e gissene ad Egina,
     Là dove giunse la terza mattina.

22


Quivi in maniera di pover valletto,
     Non degli suoi maggior, ma compagnone,
     Al servigio del re, senza sospetto,
     Fu ricevuto, e messo in commessione;
     Ed obbedendo a ciò che gli era detto,
     Sì fece a modo che un vil garzone,
     Acciocch’egli potesse ivi durare,
     Fin che fortuna lo volesse atare.

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23


Quivi sovente con seco piangea
     La sua fortuna e la sua trista vita,
     E spesse volte con sospir dicea:
     O doglioso più ch’altro e tristo Arcita!
     Se’ fatto fante, là dove solea
     Esser tua casa di fanti fornita:
     Così fortuna insieme e povertate
     T’ha concio, e il voler tua libertate.

24


Per liber esser, più servo che mai
     Se’ divenuto, misero, dolente:
     A real sangue che vitupero hai
     Sed e’ mi conoscesse questa gente!
     Certo per mio peccar nol meritai,
     Ma di Creonte la spietata mente
     Di questo, lasso a me, cagione è stato
     Ed ancor dello stare impregionato.

25


Così, senza nell’animo riposo
     Aver giammai, in doglia sempre stava;
     E l’essere già stato glorïoso
     Vie più che gli altri danni il tormentava:
     E vorria innanzi sempre bisognoso
     Essere stato, e ’n vita trista e prava,
     Che aver avuto tal fiata bene,
     Ed ora sostener gravose pene.

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26


E benchè di più cose e’ fosse afflitto,
     E che di viver gli giovasse poco,
     Sopra d’ogn’altra doglia era trafitto
     Da amor nel core, e non trovava loco;
     E giorno e notte senza alcun rispitto
     Sospir gettava caldi come foco;
     E lagrimando sovente doleasi,
     E ben nel viso il suo dolor pareasi.

27


Egli era tutto quanto divenuto
     Sì magro, che assai agevolmente
     Ciascun suo osso si sarie veduto:
     Nè credo che Erisitone altrimente
     Fosse nel viso, ch’era egli, paruto,
     Nel tempo della sua fame dolente:
     E non pur solamente pallid’era,
     Ma la sua pelle parea quasi nera.

28


E nella testa appena si vedieno
     Gli occhi dolenti, e le guance lanute
     Di folto pelo e nuovo comparieno;
     E le sue ciglia pilose ed agute
     A riguardare orribile il facieno,
     Le chiome tutte rigide ed irsute:
     E sì era del tutto trasmutato,
     Che nullo non l’avria raffigurato.

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29


La voce similmente era fuggita,
     Ed ancora la forza corporale:
     Perchè a tutti una cosa ora reddita
     Qua sù di sopra dal chiostro infernale
     Parea, piuttosto ch’altra stata in vita:
     Nè la cagion, onde venía tal male,
     Nessun da lui giammai saputo avea,
     Ma una per un’altra ne dicea.

30


Come d’Atene lì nessun venia,
     Onestamente, e con savio parlare,
     Di molte cose domandandol pria,
     D’Emilia trascorrea nel ragionare:
     E domandava s’ella fosse o fia
     Nelli tempi vicin per maritare,
     E d’altre cose circustanti molte;
     Benchè ciò gli avvenisse rade volte.

31


Ma li dolenti fati, i qua’ tirando
     Gian d’una in altra miseria costui,
     Vegnendosi il suo fine appropinquando
     Con poca festa rallegravan lui,
     Diversamente l’opere menando
     Quando per esso e quando per altrui,
     Finchè al veduto termine pervenne,
     Dove si ruppe ’l fil che ’n vita il tenne.

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32


Per avventura un dì, com’era usato,
     Penteo soletto alla marina gio,
     E ’n verso Atene col viso voltato
     Mirava fisamente e con disio;
     E quasi il vento ch’indi era spirato,
     Più ch’altro gli pareva mite e pio,
     Ei ricevendol, dicea seco stesso:
     Questo fu ad Emilia molto presso.

33


E mentre che ’n tal guisa dimorava,
     Una barchetta dentro al porto entrare
     Vide: laonde ad essa s’appressava,
     E cominciò di loro a domandare
     D’onde venieno; ed un che ’n essa stava,
     Disse: d’Atene, e là crediam tornare
     Assai di corto; s’ tu vorrai venire,
     Qui su potrai con esso noi salire.

34


A cotal voce sospirò Penteo:
     Poi tratto quel da parte, pianamente
     Il domandò che era di Teseo,
     E di più cose diligentemente:
     Alle qua’ tutte que’ gli soddisfeo:
     E poi della reina ultimamente,
     E della bella Emilia domandando,
     Così rispose quegli al suo domando:

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35


Qualunque iddea nel cielo è più bella,
     Nel cospetto di lei parrebbe oscura;
     Ella è più chiara che alcuna stella,
     Nè dicesi che mai bella figura
     Fosse veduta tanto com’è quella:
     Ver è che per la sua disavventura
     L’altr’ieri morì Acate, a cui sposa
     Esser doveva quella fresca rosa.

36


Ed altre cose molte più gli disse,
     Le qua’ mison Penteo in gran pensiero,
     E ’l tramortito amor quasi rivisse,
     E il disio più focoso e più fiero
     Parve subitamente divenisse;
     Nè ciò gli parve a sostener leggiero:
     E ’n sè conobbe che in tal disiare
     Non potrebbe or come già fe’ durare.

37


E’ si sentiva sì venuto meno,
     Che appena si poteva sostenere;
     Onde se quelle pene che ’l cocieno
     Non mitigasse d’Emilia il vedere,
     Assai in breve lui ucciderieno:
     Perchè diliberò pur di volere
     In ogni modo ritornare a Atene,
     Ad alleggiare o a finir sue pene.

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38


Fra sè dicendo: i’ son sì trasmutato
     Da quel ch’esser solea, che conosciuto
     I’ non sarò, e vivrò consolato,
     Me ristorando del male ch’ho avuto,
     Vedendo il bell’aspetto ove fu nato
     Il disio che mi tiene ed ha tenuto:
     E s’al servigio di Teseo potessi
     Esser, non so che poi più mi chiedessi.

39


Se forse è sì crudel la mia ventura
     Ch’i’ sia riconosciuto, e’ m’è il morire
     Più grazïoso che vita sì dura
     Com’io fo, e sempre mai languire:
     E poi su tal proposta si assicura,
     E si dispon del tutto a ciò seguire;
     E mill’anni gli par che quello sia,
     Tanto vedere Emilia egli disia.

40


E’ non tardò di mettere ad effetto
     Cotal pensiero, anzi commiato prese,
     E in ver di quella navicò soletto,
     E in pochi giorni lì giunto discese
     In maniera di povero valletto,
     E in Atene con tema si mese:
     E acciò ch’egli Emilia vedesse,
     Stette più dì nè fu chi ’l conoscesse.

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41


Quando s’avvide ben ch’era del tutto
     Fuor delle menti di tutte persone,
     E che l’angoscia e ’l doloroso lutto
     Or gli tornava in consolazione;
     Disse fra sè: ancor sentirò frutto
     Della mia lunga tribulazione:
     E la fortuna, a me stata nemica,
     Sott’altro aspetto mi fia forse amica.

42


Quindi agli eccelsi templi se ne gio
     Del grande Apollo, e innanzi alle sue are
     S’inginocchiò, e con sembiante pio
     Volendo quivi i suoi preghi donare,
     Subito molto pianto lo impedio,
     Venutogli da nuovo ammemorare
     Quel ch’e’ già fu, e quel che ora egli era:
     Poi cominciò in sì fatta maniera.

43


O luminoso Iddio che tutto vedi,
     E ’l cielo e ’l mondo e l’acque parimente,
     E con luce continova procedi,
     Tal che tenébra non t’è resistente,
     E sì tra noi col tuo girar provvedi,
     Ched e’ ci nasce e vive ogni semente,
     Volgi ver me il tuo occhio pietoso,
     E a questa volta mi sia grazioso.

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44


A me non legne, nè fuoco nè incenso,
     Non degno armento alla tua deitate,
     Non lauree corone ed or pur censo
     Mi fosse a soddisfar necessitate;
     E quinci vien che con giusto compenso
     Non son da me le tue are onorate:
     E tu tel vedi, che di ciò ingannare
     Non ti potrei perch’io ’l volessi fare.

45


Di lagrime, di affanni e di sospiri,
     D’ogni infortunio e povertate intera
     Son io fornito, e ancor di disiri
     D’amor, vie più che bisogno non m’era:
     Di questo a te, che l’universo giri,
     Vo sagrifizio con nuova maniera:
     Prendigli per accetti, i’ te ne priego,
     Ed al mio domandar non metter niego.

46


Siccome te alcuna volta Amore
     Costrinse il chiaro cielo abbandonare,
     E lungo Anfriso in forma di pastore
     Del grande Admeto gli armenti guardare,
     Così or me il possente signore
     Qui in Atene ha fatto ritornare,
     Contra al mandato che mi fe’ Teseo
     Allora ch’a Peritoo mi rendeo.

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47


E benchè angoscia trasformato m’abbia
     Il nuovo nome, di ciò ch’io solea
     Altra volta esser la smarrita labbia
     Prego mi serbi, o nuova in me la crea:
     Sotto la qual coverta la mia rabbia
     Vedendo Emilia, contento mi stea:
     Ed a servir Teseo sia ricevuto,
     Senza mai esser lì riconosciuto.

48


Se ciò mi fai, ed io sia rivestito
     Giammai del mio, siccome tu se’ degno
     T’onorerò. Ed egli fu esaudito
     D’ogni suo prego, e conobbene segno:
     Perchè del tempio tosto dipartito,
     A fornir sua intenzion pose l’ingegno:
     Poi si pensò come fatto venisse
     Ch’esser potesse che Teseo servisse.

49


Com’egli avea con seco immaginato,
     Così l’immaginar seguì l’effetto;
     E s’egli avesse a lingua domandato,
     Non gli sarie sì ben venuto detto;
     Perocch’e’ fu con Teseo allogato,
     Nè fu dell’esser suo preso sospetto,
     Nè domandato fu chi fosse o d’onde,
     Così le cose gli andaron seconde.

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50


E’ non fu prima a tal partito giunto,
     Che ’l suo aspetto un pochetto più chiaro
     Si fe’, che pria parea così compunto;
     E dipartissi il suo dolore amaro
     Il qual l’avea col lagrimar consunto,
     E le sue membra forza ripigliaro;
     Ma tutte altre allegrezze furon nulla
     A petto a quando e’ vide la fanciulla.

51


Teseo facendo una mirabil festa,
     Tra le altre donne Emilia fe’ venire;
     La qual più ch’altra leggiadra ed onesta,
     Piacevol, bella e molto da gradire,
     Ornata assai in una verde vesta;
     Tal che di sè a ciascun faceva dire
     Lode maravigliose, e tal dicea
     Che veramente ell’era Citerea.

52


Ma oltre a tutti gli altri con disio
     La rimirava più lieto Penteo,
     Dicendo seco: o Giove, sommo iddio,
     Sed e’ mi fa omai morir Teseo,
     Alli tuoi regni me ne verrò io,
     Omai non mi può nuocer tempo reo,
     E di buon cuor perdono alla fortuna,
     Se mai di mal mi fece cosa alcuna.

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53


Poich’ella mi ha condotto a cotal porto,
     Che veggio il chiaro viso di colei
     Ch’è sommo mio diletto e mio conforto,
     Fuggan da me gli sospiri e gli omei,
     Fugga il disio che aveva d’esser morto;
     Siemi ben sommo il rimirar costei:
     Questo mi basti: e sì dicendo, fiso
     Sempre mirava l’angelico viso.

54


Maggior letizia non credo sentisse
     Allor Tereo, quando gli fu concesso
     Per Pandion che Filomena gisse
     Alla sua suora in Tracia con esso,
     Che or Penteo: ma come che avvenisse,
     Essendogli ella non molto di cesso,
     In ver di lui alquanto gli occhi alzati,
     Ebbe li suoi di botto affigurati.

55


Mirabil cosa a dir quella d’amore:
     Che rade volte è che la cosa amata,
     Quantunque ell’abbia mal abile il core
     D’esser per tal oggetto innamorata,
     Pur nella mente porta l’amadore:
     E quantunque ella si mostri adirata,
     Non le dispiaccia, e se non ama altrui,
     Poco o assai convien ch’ami colui.

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56


Era, com’è già detto, giovinetta
     Emilia, tanto ch’ella non sentia
     Quanto nel core amor punge e diletta,
     Allor che prima Arcita n’andò via
     Lei rimirando, come su si detta;
     Il quale ancor che la fortuna ria
     Così deforme l’avesse renduto,
     Da essa sola fu riconosciuto.

57


Ella nol vide prima, che ridendo
     Con seco disse: questi è quell’Arcita
     Il quale vidi dipartir piangendo:
     Ah misera dolente la sua vita!
     Che fa egli qui, o che va e’ caendo?
     Non conosce e’ che se fosse sentita
     La sua venuta da Teseo, morire
     Gli converrebbe, od in prigion reddire?

58


Ver è che tanto fu discreta e saggia,
     Che mai di ciò non parlò a nessuno,
     Ed a lui fa sembianti che non l’aggia
     Giammai veduto più in luogo alcuno:
     Ma ben si maraviglia quale spiaggia
     Di bianco l’abbia fatto così bruno
     E dimagrato, che par pur la fame
     Nel suo aspetto, e pien di tutte brame.

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59


Incominciò il nobile Penteo,
     Ammaestrato da fervente amore,
     Sì a servir sollecito Teseo,
     Ed a ciascun degli altri, per onore,
     Che egli in tutto suo segreto il feo,
     Amando lui più ch’altro servitore,
     E simile l’amava la regina
     Di buon amore, ed anco la fantina.

60


E benchè la fortuna l’aiutasse,
     E fosse a lui benigna ritornata,
     Mai dal diritto senno lui non trasse,
     Nè ’l fece folleggiare una fïata:
     E posto che ferventemente amasse,
     Sempre teneva sua voglia celata,
     Tanto che alcun non se n’accorse mai,
     Benchè facesse per amore assai.

61


Siccome i’ dico, saviamente amava,
     Nè si lasciava a voglia trasportare,
     Ed a luogo ed a tempo rimirava
     Emilia bella, e ben lo sapia fare;
     Ed ella savia talor se n’andava
     Mostrando non saper che fosse amare:
     Ma pur l’età già era innanzi tanto
     Ch’ella di ciò ne conosceva alquanto.

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62


Esso cantava e faceva gran festa,
     Faceva prove e vestia riccamente,
     E di ghirlande la sua bionda testa
     Ornava e facea bella assai sovente,
     E in fatti d’arme facea manifesta
     La sua virtù, che assai era possente:
     Ma duol sentiva, in quanto esso credea
     Emilia non sentir per cui ’l facea.

63


Ed e’ non gliele ardiva a discoprire,
     Ed isperava e non sapea in che cosa,
     Donde sentiva sovente martire:
     Ma per celar la sua voglia amorosa,
     E per lasciar li sospir fuori uscire,
     Che facean troppo l’anima angosciosa,
     Avie in usanza talvolta soletto
     D’andarsene a dormire in un boschetto.

64


E questo aveva in costume di fare
     Nel tempo caldo, ch’era fresco il loco,
     Ed era sì rimoto dell’andare
     Di ciaschedun, che ben poteva il foco
     D’amor con voci fuor lasciare andare,
     Ed a sua posta lungamente e poco:
     E non era lontan dalla cittate
     Più di tre miglia giuste e misurate.

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65


Egli era bello, e d’alberi novelli
     Tutto fronzuto e di nuova verdura,
     Ed era lieto di canti d’uccelli,
     Di chiare fonti fresche a dismisura,
     Che sopra l’erbe facevan ruscelli
     Freddi e nemici d’ogni gran calura:
     Conigli, cervi, lepri e cavriuoli
     Vi si prendean co’ cani e co’ lacciuoli.

66


Com’io dico, in quello assai sovente,
     Quando con arme e quando senza, gire
     Penteo usava, e ’n su l’erba recente
     Sotto un bel pino si ponea a dormire;
     A ciò invitato dall’acqua corrente
     Che mormorava: ma del suo disire
     Focoso, prima che s’addormentasse,
     Con Amor convenia si lamentasse;

67


E così cominciava egli a parlare:
     I' non pensava, Amor, che tu potessi
     Tanto in un cuor d’un uomo adoperare,
     Ch’al piacer d’una donna sì ’l traessi
     Ch’ogni altra cosa il facessi obliare,
     E ’n potenza di lei tutto ’l ponessi;
     Come hai tu posto tutto quanto il mio,
     Che altro che servirla non disio.

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68


Ma tu m’hai fatto in alcun caso torto;
     Perocch’io amo, e non son punto amato:
     Ond’io non spero mai d’aver conforto,
     Ed hammi sì tutto l’ardir levato,
     Che dir non so, e tu te ne se’ accorto,
     Perchè troppo m’hai posto in alto stato,
     A quel che a mia fortuna si conviene,
     Ch’io non son ricco d’altro che di pene.

69


Deh quanto mi saria stata più cara
     La morte, che aspettar la sua saetta!
     Oh quanto dicer può che l’abbia amara
     Qualunque è quel che dolente l’aspetta;
     Perocchè in essa poco ben ripara,
     A rispetto del male ch’ella getta:
     E però s’io mi dolgo n’ho ragione,
     Vedendo me legato in tua prigione.

70


Ma tu se’ tanto e tal, caro signore,
     Ch’ogni mia doglia puoi volgere in pace,
     Facendo ch’ella me senta nel cuore,
     Qual’ella dentro al mio sentir si face:
     Ed io, siccome umíle servidore,
     Ti prego il facci, Amore, se ti piace:
     Deh chi sarà di me poi più contento,
     Se per me prova quel che per lei sento?

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71


Io viverò tutto tempo gioioso,
     Nè biasmerò giammai tua signoria:
     Io ti farò sagrificio pietoso,
     Signor mio caro, della vita mia,
     E sempre il tuo onore in grazioso
     Verso da me lieto cantato fia:
     Adunque fallo, se di me ti cale,
     Ch’io mi consumo per soverchio male.

72


Questo ripete spesso, con sospiri
     Chiamando Emilia, e nel dir sì contenta;
     E quasi in mezzo delli suol martiri
     Istanco tutto quivi si addormenta;
     E mentre il ciel co’ suoi eterni giri
     L’aere tien di vera luce spenta,
     Si stava, e sempre si svegliava allora
     Che da Titon partita vien l’Aurora.

73


Allor sentendo cantar Filomena,
     Che si fa lieta del morto Tereo,
     Si drizza, e ’l polo con vista serena
     Mirato un pezzo lauda Penteo
     La man di Giove d’ogni grazia piena,
     Che lavoro sì grande e bello feo:
     Poi ad Emilia il suo pensier voltava,
     Vedendo Citerea che si levava,

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74


Mostrando innanzi al Sol la sua chiarezza,
     Alla qual gli occhi d’Emilia lucenti
     Assomigliava e la mira bellezza:
     E gli augelletti del giorno contenti
     Davan cantando in su’ rami dolcezza:
     Perchè a Penteo i pensier più cocenti
     Si facevan ogni ora, e più a quelli
     Davan gli orecchi, sì li parean belli.

75


E quando aveva gran pezza ascoltato,
     Mirava in verso il cielo, e sì dicea:
     O chiaro Febo, per cui luminato
     È tutto ’l mondo, e tu, piacente Iddea,
     Del cui valor m’ha ’l tuo figliuol piagato
     Vie troppo più che io non mi credea,
     Mettete in me sì del vostro valore,
     Che io non pera per soverchio amore,

76


Deh date al mio amor fine piacente,
     Sì ch’io non mora per fedele amare:
     Per giovinezza Emilia non sente
     Che cosa sia ancora innamorare;
     Nè come piace conosce niente,
     Se ad Amor non gliel fate mostrare:
     Ed io non l’oso più fare assentire
     Tant’è la mia paura del morire.

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77


E così vivo in speranza dubbiosa,
     E ’l mio adoperare è senza frutto:
     Perch’io ti prego, o Venere amorosa,
     Entrale in core omai; e me, che tutto
     Son senza fallo suo, fa’ che pietosa
     Senta sì che si termini il mio lutto:
     E tu, Febo, la fa’ tanto discreta,
     Che la mia voglia in sè ritenga cheta.

78


E queste e altre più parole ancora
     Metteva in nota lo giovine amante:
     Ma dopo che vedea chiara l’aurora,
     E le stelle partite tutte quante,
     Senza far quivi più lunga dimora,
     Ad Atene tornava assai festante,
     Ed alla zambra del signor n’andava,
     Per lui servir, se nulla bisognava.

79


Questa maniera teneva Penteo
     Molto sovente fuor d’ogni paura;
     Ed a grado servendo il buon Teseo,
     Di suo amore ognora avie più cura;
     Ma poco ne avanzava; e questo reo
     Gli parea molto: onde di sua ventura
     Una mattina con grieve parlare
     Così si cominciò a rammarcare.

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80


O misera Fortuna, de’ viventi
     Quanto dai moti spessi alle tue cose!
     E come abbassi li sangui e le genti,
     E quando vuogli ancora graziose
     Le vilissime fai, e non consenti
     Di leggi avere in sè maravigliose:
     Siccome uom vede in me, che son verace
     Esempio del girar che fai fallace.

81


Di real sangue, lasso, generato
     Venni nel mondo, e d’ogni pena ostello,
     E con gran cura in ricchezze allevato
     Nella città di Bacco, tapinello
     Vissi: e con gioia venni in grande stato,
     Senza pensar al tuo operar fello:
     Poi per altrui peccato, e non per mio,
     La gioia e il regno e ’l sangue mio perio.

82


E fui del campo per morto doglioso
     Ferito, tolto e recato a Teseo,
     Il qual siccome signor poderoso,
     Come gli piacque imprigionar mi feo:
     Quivi, per farmi peggio, l’amoroso
     Dardo mi entrò nel cor focoso e reo
     Per la bellezza d’Emilia piacente,
     Che mai di me non si curò niente.

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83


E cominciai di nuovo a sospirare
     Per tal cagione, ed a sostener pene,
     Nè mi pareva assai avere a fare
     Di sostener di Teseo le catene;
     Delle qua’ Peritoo mi fe’ cacciare,
     Onde convenne partirmi d’Atene,
     Credendo aver mio affare migliorato,
     E di gran lunga il trovai peggiorato.

84


Ch’io mi ritrovai pover pellegrino
     Del regno mio cacciato, e per amore
     Gir sospirando a guisa di tapino;
     E là dove altra volta fui signore,
     Servo divenni, per lo gran dichino
     Della fortuna; e non potendo il core
     Più sofferir, da Peleo fe’ partita,
     Penteo essendo tornato d’Arcita.

85


E sì d’Emilia strinse la bellezza,
     Che di Teseo cacciai via la paura;
     E qui mi misi per la mia mattezza
     A ritornare con mente sicura,
     Essendo suo nimico, alla sua altezza
     Divenni servidor con somma cura;
     Sì ch’io Emilia vedessi sovente,
     Colei ch’è donna mia veracemente.

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86


Ed essa, oimè, del mio grave tormento
     Nulla si cura, nè pensa este cose;
     Sicchè io servo vie peggio che al vento,
     E stonne sempre in pene dolorose:
     Ed or mi avesser sol fatto contento
     D’un bel guardarmi le luci amorose,
     Ma tu, crudel Fortuna, mi ci nuoci,
     Ch’oguor con nuovo fuoco e più mi cuoci.

87


Di tanto sol seconda mi se’ stata
     Che ’l nome mio hai ben tenuto cheto,
     Ed haimi ancor tanta grazia donata,
     Che al servir m’hai fatto mansueto,
     E di Teseo la grazia mi hai prestata,
     Di che io son venuto molto lieto:
     Ma tutto è nulla, s’Emilia non fai
     Che come io l’amo conosca oramai.

88


Io ardo e incendo per lei tutto quanto,
     Nè dì nè notte non posso aver posa,
     Ma mi consumo in sospiri ed in pianto,
     Nè mi può confortare alcuna cosa,
     Se non Emilia, cui io amo tanto,
     Mostrandomi la sua faccia amorosa,
     Dalla qual morto, lei mirando vita
     Riprendo, tanto speranza m’aita.

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89


Così di sopra dall’erbe e da’ fiori
     Penteo la sua fortuna biasimava
     Un bel mattino al venir degli albori;
     Allorchè per ventura indi passava
     Panfilo, ch’era l’un de’ servidori
     Di Palemone, e intanto ascoltava
     Dello scudiere il gran rammarichio
     Di sua fortuna, ed anche del disio.

90


E fra sè stesso si fu ricordato
     Chi fosse Arcita, ed udì che Penteo
     Nel suo rammaricar s’era chiamato,
     Per che tantosto lo riconosceo;
     E molto seco s’è maravigliato,
     Com’egli avea la grazia di Teseo:
     Non disse nulla, ma ver la prigione
     Se ne tornò, per dirlo a Palemone.

91


Ma il giovane Penteo di ciò ignorante,
     Come fu ora in Atene sen venne:
     E con allegro viso e con festante
     Al luogo ov’era il suo signor pervenne,
     Col qual di molte cose ragionante,
     Siccome egli era usato si ritenne:
     Poi partito da lui gì a sapere
     S’Emilia un poco potesse vedere.