La Teseide/Libro terzo

Libro terzo

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LA TESEIDE

LIBRO TERZO




ARGOMENTO


Nel terzo dona a Marte alcuna posa
     L’autore, e descrive come Amore
     D’Emilia bella più fresca che rosa
     A’ duo prigion con gli suo dardi il core
Ferendo, egli accendesse in amorosa
     Fiamma, mostrando poi l’aspro dolore
     Del soperchio disio, all’animosa
     Voglia di far sentire il lor valore:
E poi pregando il figliuol d’Issione
     Il gran Teseo, suo amico caro,
     Arcita fa trar fuori di prigione.
E mostra i patti che con lui fermaro,
     E poi preso congè da Palemone
     Da Atene il mostra uscir con duolo amaro.


1


Poichè alquanto il furor di Giunone
     Fu per Tebe distrutta temperato,
     Marte nella sua fredda regïone
     Colle sue furie insieme s’è tornato.
     Perchè omai con più lungo sermone
     Sarà da me di Cupido cantato,
     E delle sue battaglie: il quale i’ prego
     Che sia presente a ciò che di lui spiego,

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2


Ponga ne’ versi miei la sua potenza
     Quale la pose ne’ cor de’ Tebani
     Imprigionati, sicchè differenza
     Non sia da essi agli lor atti insani;
     Li qua’ lontani a degna sofferenza
     Venir gli fece in ultimo alle mani:
     In guisa che a ciascuno fu discaro,
     E all’uno fu di morte caso amaro.

3


In cotal guisa adunque imprigionati
     I due Tebani, in suprema tristizia,
     E quasi più che ad altro a piagner dati,
     Del tutto d’ogni futura letizia
     Dover aver giammai più disperati,
     Maledicean sovente la malizia
     Dell’infortunio loro, e ’l tempo e l’ora
     Che al mondo vennon bestemmiando ancora.

4


Morte chiamando seco spessamente
     Che gli uccidesse se fosse valuto:
     Ed in istato cotanto dolente
     Presso che l’anno avevan già compiuto;
     Quando per Vener nel suo ciel lucente
     D’altri sospir per lor fu provveduto:
     Nè prima fu cotal pensiero eletto,
     Che al proposto seguitò l’effetto.

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5


Febo salendo con li suoi cavalli,
     Del ciel teneva l’umile animale
     Che Europa portò senza intervalli
     Là dove il nome suo dimora avale;
     E con lui insieme grazïosi stalli
     Venus facea de’ passi con che sale:
     Perchè rideva il cielo tutto quanto,
     D’Amon che ’n pesce dimorava intanto

6


Da questa lieta vista delle stelle
     Prendea la terra grazïosi effetti,
     E rivestiva le sue parti belle
     Di nuove erbette e di vaghi fioretti;
     E le sue braccia le piante novelle
     Avean di fronde rivestite, e stretti
     Eran dal tempo gli alberi a fiorire
     Ed a far frutto, e ’l mondo rimbellire.

7


E gli uccelletti ancora i loro amori
     Incominciato avien tutti a cantare,
     Giulivi e gai nelle fronde e fiori;
     E gli animali nol potean celare,
     Anzi ’l mostravan con sembianti fuori;
     E’ giovinetti lieti, che ad amare
     Eran disposti, sentivan nel core
     Fervente più che mai crescere amore.

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8


Quando la bella Emilia giovinetta,
     A ciò tirata da propria natura,
     Non che d’amore alcun fosse costretta,
     Ogni mattina venuta ad un’ora
     In un giardin se n’entrava soletta,
     Ch’allato alla sua camera dimora
     Faceva, e in giubba e scalza gía cantando
     Amorose canzon, sè diportando.

9


E questa vita più giorni tenendo
     La giovinetta semplicetta e bella,
     Colla candida man talor cogliendo
     D’in sulla spina la rosa novella,
     E poi con quella più fior congiugnendo
     Al biondo capo facie ghirlandella:
     Avvenne cosa nuova una mattina
     Per la bellezza di questa fantina.

10


Un bel mattin ch’ella si fu levata,
     E’ biondi crini avvolti alla sua testa,
     Discese nel giardin com’era usata;
     Quivi cantando e facendosi festa,
     Con molti fior sull’erbetta assettata
     Faceva sua ghirlanda lieta e presta,
     Sempre cantando be’ versi d’amore
     Con angelica voce e lieto core.

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11


Al suon di quella voce grazïoso
     Arcita si levò, ch’era in prigione
     Allato allato al giardino amoroso,
     Senza nïente dire a Palemone;
     Ed una finestretta disioso
     Aprì, per meglio udir quella canzone;
     E per vedere ancor chi la cantasse,
     Tra’ ferri il capo fuori alquanto trasse.

12


Egli era ancora alquanto il dì scuretto,
     Che l’orizzonte in parte il sol tenea,
     Ma non sì ch’egli con l’occhio ristretto
     Non iscorgesse ciò che lì facea
     La giovinetta, con sommo diletto,
     La quale ancora non si discernea:
     E rimirando lei fisa nel viso,
     Disse fra sè: questa è di paradiso.

13


E ritornato dentro pianamente,
     Disse: o Palemon, vieni a vedere
     Venere qui discesa veramente:
     Non l’odi tu cantar? Deh se in calere
     Punto ti son, deh vien qua prestamente:
     I’ credo certo che ti fie ’n piacere
     Qua giù veder l’angelica bellezza,
     A noi discesa della somma altezza.

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14


Levossì Palemon, che già l’udiva
     Con più dolcezza che quel non credea,
     E con lui insieme alla finestra giva,
     Cheti amenduni, per veder la Dea:
     La qual come la vide, in boce viva
     Disse: per certo questa è Citerea:
     Io non vidi giammai sì bella cosa
     Tanto piacente nè sì grazïosa.

15


Mentre costoro sospesi, ed attenti
     Gli occhi, e gli orecchi pur verso colei
     Fisi tenendo, facevan contenti,
     Forte maravigliandosi di lei;
     E del perduto tempo in lor dolenti,
     Passato pria senza veder costei,
     Arcita disse a Palemon: discerni
     Tu ciò ch’i’ veggio ne’ begli occhi eterni?

16


Che è egli? rispose Palemone.
     Arcita disse: i’ veggio in lor colui
     Che già per Dafne il padre di Fetone
     Fedì, se pur non erro, ed in man dui
     Strali dorati tiene, e già l’un pone
     Sopra la corda, e non rimira altrui
     Che me: non so se forse e’ gli dispiace
     Ch’i’ miri questa che tanto mi piace.

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17


Certo, rispose Palemone allora,
     Il veggio; ma non so se ha saettato
     L’uno, che non ha più ch’uno in man ora.
     Arcita disse: se el m’ha piagato,
     In guisa tal che di dolor m’accora,
     Se io non son da quella dea atato.
     Allora Palemon tutto stordito
     Gridò: omè! che l’altro m’ha fedito.

18


A quell’omè la giovinetta bella
     Si volse destra in su la poppa manca;
     Nè prima altrove che alla finestrella
     Le corson gli occhi; onde la faccia bianca
     Per vergogna arrossò, non sapend’ella
     Chi si fosson color: poi fatta franca,
     Co’ fiori colti in piè si fu levata,
     E per andarsen via si fu inviata.

19


Nè fu nel girsen via senza pensiero
     Di quell’omè, e benchè giovinetta
     Fosse, più che non chiede amore intero,
     Pur seco intese ciò che quello affetta:
     E parendole pur ciò saper vero
     D’esser piaciuta; seco si diletta,
     E più se ne tien bella, e più s’adorna
     Qualora poi a quel giardin ritorna.

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20


Ritornarono dentro i duo scudieri
     Poscia che vidono Emilia partita;
     E stati alquanto con nuovi pensieri,
     Pria cominciò così a dire Arcita:
     I’ non so che nel cor quel fiero arcieri
     M’ha saettato, che mi to’ la vita,
     E sentomi fallire a poco a poco,
     Acceso, lasso, non so in che foco.

21


E’ non mi si diparte della mente
     L’immagine di quella creatura;
     Nè ho pensier d’altra cosa niente,
     Sì m’è fitta nel cor la sua figura,
     E sì mi sta nell’anima piacente,
     Che mi riputerei somma ventura
     S’i’ le piacessi com’ella mi piace:
     E senza ciò non credo aver mai pace.

22


Palemon disse: il simile m’avviene
     Che tu racconti, e mai più nol provai
     Perocchè sento al cor novelle pene,
     Tal che non credo si sentisson mai:
     E veramente credo che ci tiene
     Quel signore in balía, che già assai
     Volte udii ricordare, cioè Amore,
     Ladro sottil di ciascun gentil core.

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23


E dicoti che già sua prigionia
     M’è grave più che quella di Teseo:
     Già più d’affanno nella mente mia
     Sento, che non credea che questo iddeo
     Donar potesse: e gran nostra follia
     A quella finestretta far ci feo,
     Quando colei cantava, tanto vaga,
     Che già per lei di morte il cor si smaga.

24


Io mi sento di lei preso e legato,
     Nè per me trovo nessuna speranza;
     Anzi mi veggio qui imprigionato,
     Ed ispogliato d’ogni mia possanza.
     Dunque che posso far che le sia grato?
     Nulla: ma ne morrò senza fallanza:
     Ed or volesse Iddio ch’io fossi morto,
     Questo mi fora sommo e gran conforto.

25


O quanto ne sarieno a tal fedita
     Gli argomenti esculapii buoni e sani,
     Il qual dicien che tornerebbe in vita
     Con erbe i lacerati corpi umani!
     Ma che dich’io? Poichè Apollo, sentita
     Cotal saetta, che i succhi mondani
     Tutti conobbe, non seppe vedere
     Medela a sè che potesse valere?

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26


Così ragionan li due nuovi amanti,
     E l’un l’altro conforta nel parlare:
     Nè san se quella è Dea ne’ regni santi
     Che sia qua giù venuta ad abitare,
     O se donna mondana: e li suoi canti
     E le bellezze la fan dubitare:
     Perchè ignoranti di chi gli ha sì presi,
     Molto si dolgon dal dolore offesi.

27


Non escon delle sicule caverne,
     Allora ch’Eolo l’apre, sì furenti,
     Ora le basse ed ora le superne
     Parti cercando, gli rabbiosi venti,
     Che costor delle parti più interne
     Producean fuor sospiri assai cocenti,
     Ma con piccole voci, perchè ancora
     Era la piaga fresca che gli accora.

28


Continovando adunque il gir costei
     Sola tal volta, e tale a compagnia
     Nel bel giardino a diporto di lei,
     Nascosamente gli occhi tuttavia
     Drizzava alla finestra, ove gli omei
     Prima di Palemone udito a via:
     Non che a ciò Amor la costringesse,
     Ma per vedere s’altri la vedesse.

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29


E se ella vedeva riguardarsi,
     Quasi di ciò non si fosse avveduta,
     Cantando cominciava a dilettarsi
     In voce dilettevole ed arguta:
     E su per l’erbe cogli passi scarsi
     Fra gli arbuscelli d’umiltà vestuta
     Donnescamente giva, e s’ingegnava
     Di più piacere a chi la riguardava.

30


Nè la recava a ciò pensier d’amore
     Che ella avesse, ma la vanitate,
     Chè innato è alle femmine nel core
     Di fare altrui veder la lor biltate;
     E quasi ignude d’ogn’altro valore,
     Contente son di quella esser lodate:
     E di piacer per quella sè ingegnando,
     Pigliano altrui, sè libere servando.

31


Li due novelli amanti ogni mattino,
     Nell’apparir primiero dell’aurora,
     Levati rimiravan nel giardino,
     Per vedere se in quel venuta ancora
     Fosse colei il cui viso divino
     Oltre a ogni misura gl’innamora:
     Nè di quel loco si potien levare,
     Mentre lei nel giardin vedieno stare.

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32


Essi credevan, mirandola bene,
     Saziar l’ardente sete del disio,
     E minor far le lor gravose pene:
     Ed essi più del valoroso iddio
     Cupido si strigneano le catene:
     Ed or con lento aspetto ed or con pio
     Si dimostravan, rimirando quella,
     Sol per piacere a lei, quanto a lor ella.

33


E come avvien che ’l dente del serpente
     Più lede altrui con piccola morsura,
     Sè dilatando poi subitamente,
     Offusca il membro della sua mistura
     Poi l’uno all’altro successivamente,
     In fin che ’l corpo tutto quanto scura:
     Così costoro di dì in dì mirando,
     D’amor il fuoco gieno aumentando.

34


E sì per tutto l’avevan raccolto,
     Che ad ogni altro pensier dato avien loco,
     Ed a ciascun già si parea nel volto,
     Per le vigilie lunghe, e per lo poco
     Cibo ched e’ prendean, ma di ciò molto
     Davan la colpa all’allegrezza e al giuoco
     Ch’aver solieno, e ora eran prigioni,
     Così coprendo le vere cagioni.

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35


E da’ sospiri già al lagrimare
     Era a venuti; e se non fosse stato
     Che ’l loro amor non volien palesare,
     Sovente avrien per angoscia gridato.
     E così sa Amore adoperare
     A cui più per servigio è obbligato:
     Colui lo sa che talvolta fu preso
     Da lui, e da cotal dolore offeso.

36


Era a costor della memoria uscita
     L’antica Tebe e ’l loro alto legnaggio,
     E similmente se n’era partita
     L’infelicità loro e ’l lor dannaggio
     Che aveano ricevuto, e la lor vita
     Ch’era cattiva, e ’l lor grande retaggio:
     E dove queste cose esser solieno
     Emilia solamente vi tenieno.

37


Nè era lor troppo sommo disire
     Che Teseo gli traesse di prigione,
     Pensando che a lor converrebbe ire
     In esilio in qualch’altra regione;
     Nè più potrebbon vedere nè udire
     Il fior di tutte le donne amazzone:
     Ver’è ch’uscir di lì per sommo bene
     Desideravano, e starsi in Atene.

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38


Così costor, da amore affaticati,
     Vedendo quella donna, il loro ardore
     Più lieve sostenean; po’ ritornati,
     Partita lei, nel lor primo furore,
     In lor conforto versi misurati
     Sovente componean, l’alto valore
     Di lei cantando; e per cotale effetto
     Ne’ lor mali sentieno alcun diletto.

39


E non sapendo ben chi ella fosse
     Ancora, un dì il lor fante chiamaro,
     Al quale Arcita tai parole mosse:
     Deh dimmi per Amore, amico caro,
     Sa’ tu chi sia colei che dimostrosse
     L’altrieri a noi cantando tanto chiaro
     In quel giardino? O l’ha’ tu mai veduta
     In altra parte, o è dal ciel venuta?

40


E ’l valletto rispose prestamente:
     Quest’è Emilia suora alla reina,
     Più ch’altra che nel mondo sia piacente:
     La quale, perch’è ancor molto fantina,
     Al giardin se ne vien sicuramente
     Senza fallir giammai ogni mattina:
     E canta me’ che mai cantasse Apollo:
     Ed io l’ho già udita e però sollo.

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41


Disson fra lor costoro: e’ dice il vero,
     Ella è ben essa che ci ha tolto il core,
     Ed a lei vôlto ogni nostro pensiero;
     Per cui ciascun di noi è albergatore
     Di pianti e di sospiri, e di sè vero
     Tormento ha fatto e d’ogn’altro dolore:
     Con tanta forza si fa disiare
     Colla bellezza che di lei appare.

42


Così gli due amanti con sospiri
     Vivevan tutto il giorno discontenti:
     E vegnente il mattino i lor martiri
     Aveano sosta, infin gli occhi lucenti
     Vedean d’Emilia, che gli lor disiri
     Ciaschedun’ora facea più ferventi:
     E così visson mentre fu la state
     Con doglia insieme e con soavitate.

43


Ma poichè al mondo tolse la bellezza
     Libra, che avea, donata ad Ariete,
     Gli due amanti perder la dolcezza
     Che quetava la lor focosa sete;
     Ciò è vedere la somma vaghezza
     Che d’amor gli teneva nella rete:
     Donde rimason dolorosi forte,
     Chiamando giorno e notte sempre morte.

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44


Il tempo aveva cambiato sembiante,
     E l’aere piangea tutto guazzoso,
     Sì ch’eran l’erbe spogliate e le piante,
     E ’l popol d’Eolo correa tempestoso
     Or qua or là nel tristo mondo errante;
     Perchè Emilia col viso amoroso,
     Lasciati li giardin, sempre si stava
     In camera, e del tempo non curava.

45


Allor tornaro li martirii e’ pianti,
     Gli aspri tormenti e le noie angosciose
     In doppio a ciaschedun de’ due amanti:
     E’ non vedevan, non udivan cose
     Che lor piacesson: così tutti quanti
     Si consumavano in pene dogliose;
     E disperar ciascuno si voleva,
     Ma pur in fine se ne riteneva.

46


Grandi erano i sospiri ed il tormento
     Di ciascheduno; e l’esser prigionati
     Vie più che mai faceva discontento
     Ciascun di loro, a tal punto recati:
     Ed ogni giorno lor pareva cento
     Che fosson morti, o quindi liberati:
     E per lo solo e unico conforto
     Emilïa chiamavan loro diporto.

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47


In questo tempo un nobil giovinetto,
     Chiamato Peritoo, venne a vedere
     Teseo suo caro amico, e con diletto
     Un dì si poson parlando a sedere:
     E ragionando, a Teseo venne detto
     De’ due Tebani, i qua’ facea tenere
     Imprigionati, Arcita e Palemone,
     Ciaschedun grande e nobile barone.

48


Allora Peritoo prese a pregare
     Che gli dovesse far veder costoro:
     Perchè Teseo per lor fece mandare,
     E gli fece venir senza dimoro:
     Essi eran belli e di nobile affare,
     E ben parea la gentilezza loro
     Nella forma e nell’abito che avieno,
     Posto che alquanto scoloriti sieno.

49


Era Palemon grande e ben membruto,
     Brunetto alquanto e nell’aspetto lieto,
     Con dolce sguardo, e nel parlare arguto,
     E ne’ sembianti umíle e mansueto
     Poichè fu innamorato divenuto:
     D’alto intelletto e d’operar segreto;
     Di pel rossetto ed assai grazïoso,
     Di moto grave e di ardireFonte/commento: OPAL copioso.

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50


Arcita era assai grande, ma sottile,
     Non di soperchio, e di sembianza lieta,
     Bianco e vermiglio com’ rosa d’aprile;
     E’ cape’ biondi e crespi, e mansueta
     Struttura aveva ed abito gentile:
     Gli occhi avea belli e guardatura queta:
     Ma gran coraggio nel parlar mostrava,
     E destro e vispo assai a chi ’l miravaFonte/commento: OPAL.

51


Conobbe Peritoo nel lor venire
     Arcita, e ’ncontro gli si fu levato,
     Ed abbracciollo, e cominciógli a dire:
     O caro amico, come se’ tu stato
     Qui tanto senza farlomi sentire?
     Che l’uscir di prigion t’avrei impetrato:
     Malgrado n’abbi tu, che ti sta bene
     L’aver avute queste e maggior pene.

52


Poi si volse a Teseo suo caro amico,
     Dicendo: se giammai per mio amore
     Nulla facesti, quel ch’ora ti dico
     Ti prego facci, dolce mio signore,
     Che questo Arcita, mio compagno antico,
     Facci che di pregione egli esca fuore,
     I’ ten sarò tutto tempo tenuto,
     Ed egli in ciò che per te fia voluto.

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53


Teseo rispose: dolce amico caro,
     Ciò che tu mi domandi sarà fatto;
     Ma odi come, e non ti sia discaro:
     Il trarrò di pregion con questo patto,
     Che nel mio regno non faccia riparo,
     Nè ci venga giammai per nessun atto:
     Ch’i’ l’ho disfatto e tenuto pregione,
     Perchè a dritto di lui ho sospezione.

54


S’i’ ce l’ prendessi gli farò tagliare
     La testa senza fallo immantenente:
     Però, se vuole tal patto pigliare,
     Vada dove gli piace di presente,
     Per lo tuo amor che lo mi fai lasciare,
     Che altrimenti mai, al suo vivente,
     Uscito non saria di prigionia,
     Ben lo ti giuro per la fede mia.

55


Peritoo disse: e io voglio che ’l faccia;
     E te ringrazio di cotanto dono.
     E tosto i ferri da’ piè gli dislaccia,
     E libero lui lascia in abbandono.
     Arcita s’inginocchia, e sì lo abbraccia,
     Dicendo: Peritoo, dovunque i’ sono
     Son tutto tuo, e ciò ch’io posso fare,
     Sol che ti piaccia a me di comandare.

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56


Poi se n’andò davanti al gran Teseo,
     Ginocchion disse: nobile signore,
     Se per me cosa incontro a te si feo
     Giammai, perdona a me per lo tuo onore,
     Ch’altro per me nel ver non si poteo:
     Il danno che m’hai fatto e ’l disonore
     Io te ’l perdono, e ti ringrazio assai
     Di questa grazia ch’aval fatta m’hai.

57


Ed in che parte me ne debba gire
     Son tutto tuo, quanto ti fia in piacere:
     Non men che vita avrò caro il morire
     Per te, purchè ci sia il tuo volere:
     A così grande e fervente disire
     Mi pinge Amor che m’ha nel suo potere:
     Ed a te ed a’ tuoi sì obbligato,
     Ch’io sarò sempre tuo in ogni lato.

58


Teseo cotal parlar non intendea
     Donde venisse, ma semplicemente
     Di puro cor le parole prendea;
     E però fe’ venir subitamente
     Nobili doni, e disse, gli piacea
     Che, oltre a quel ch’era a lor convenente,
     E’ prendesse que’ doni e gli portasse,
     E del patto e di que’ si ricordasse.

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59


Arcita, a cui niente avie lasciato
     La misera fortuna, bisognoso
     Ebbe i don di Teseo non poco a grato:
     E poscia con un atto assai pietoso,
     Piangendo, da Teseo prese commiato,
     E del palagio discese doglioso,
     Pensando al suo esilio, che ’l doveva
     Privar di veder ciò che gli piaceva.

60


Ma Palemon vedendo queste cose
     Quasi nel cor moriva di dolore
     Per la fortuna sua, che più noiose
     Cose serbava al suo misero core,
     E pel compagno suo, al qual gioiose
     Credea novelle del comune amore:
     E quasi prese nuova gelosia
     Di quel che ancora non avea in balia

61


Esso fu rimenato alla prigione,
     E Peritoo se ne gì con Arcita,
     E disse: caro amico e compagnone,
     La voglia di Teseo tu l’hai udita;
     Benchè ’l tempo sia duro e la stagione,
     E’ si pur vuol pensar della partita:
     Ben me ne pesa, e sappi, s’i’ potessi,
     Non vorrei mai da me ti dividessi.

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62


E sì ti donerò arme e destrieri
     Di gran valore belle e ben fornite
     Per te ed anco per li tuoi scudieri,
     E poi dove vi piace ve ne gite:
     Tu se’ di nobil sangue e buon guerrieri,
     Nato di genti valenti ed ardite,
     E non potrai fallire ad alto stato,
     Dove che arrivi e’ ti sarà donato.

63


Arcita gli rispose lagrimando,
     E ringraziollo del profferto onore:
     E poi gli disse: bell’amico, quando
     La mia partita è a grado al signore,
     I’ la farò, ma sempre lamentando
     Andrò la mia fortuna con dolore;
     Poi ch’ho perduto ciò che al mondo avea,
     E’ converrà che d’altrui servo stea.

64


E certo non conosco a cui servire
     Con maggior fede e con minor fatica
     Io possa ch’a Teseo, che del morire
     Mi tolse, preso alla mia terra antica:
     Ma po’ non vuol, conviemmi intorno gire:
     Non so che farmi, e vie men ch’i’ mi dica:
     Or fussi io qui rimaso per servente
     Di chi si fosse, i’ non diria niente.

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65


Non sai tu Peritoo come l’andare
     Attorno per lo mondo pien d’affanni
     M’è conceduto? E’ ti dee ricordare
     Che trapassati ancor non son due anni
     Che sei gran re per lo nostro operare
     Fur morti a Tebe, e grandissimi danni
     N’ebbon gli Argivi e popoli altri assai,
     Perchè odiati sarem sempre mai.

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E oltre a ciò gl’iddii ci sono avversi,
     Come tu sai; antica nimistate
     Serva Giunon ver noi, e die’ perversi
     Mali a color che passar questa etate;
     E noi ancor perseguendo ha sommersi,
     Come tu vedi, in infelicitate
     Strema: Ercole nè Bacco ci aiuta:
     Perch’io tengo mia vita per perduta.

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Queste parole facea dire amore;
     Ma Peritoo non le conoscea,
     Siccome quel che non sapea l’ardore
     Che per Emilia dentro l’accendea;
     E però pur con purità di core
     Lui confortava, e spesso gli dicea:
     Deh non pensar che ti fallin gl’iddii,
     Che tu non abbi ancor quel che disii.

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Molti altri regni ci ha, dove potrai
     Miglior fortuna attender pienamente:
     Così com’io, e tu udito l’hai,
     Che di qui rimaner saria niente
     Il ragionare, ed a me parve assai
     Ricever, quando già liberamente
     Ti trassi di prigion: sie valoroso,
     Che Dio non mancò mai a virtudioso.

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Poscia che Arcita, doppio ragionando
     Con Peritoo, sentì che ’l rimanere
     Non avea loco, in sè stette pensando;
     E tornandogli a mente che vedere
     Emilia non potrebbe, essendo in bando,
     Quasi vicino fu a dir di volere
     Innanzi la prigion che tale esilio:
     Con amor cospirando in tal consilio.

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Ma la ragion, che subita pervenne
     Alla volontà folle di costui,
     Con tre buoni argomenti appena il tenne;
     Dicendo: se tu di’ questo ad altrui
     E’ non fia detto, amore il ci ritenne;
     Ma, non credendo sè valer per lui,
     Donato s’è a questa gran viltate,
     Prima ch’abbia voluta libertate.

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71


Ed oltre a questo, se’ di prigion fora,
     E molte cose potranno avvenire
     Che in istato ti porranno ancora:
     E se ’n palese non potrai venire
     In questa terra, come vorresti ora,
     Forse altro tempo ci potrai reddire;
     E se non in palese, almen nascoso,
     Tanto che veggi il bel viso amoroso.

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E se e’ fosse tanta tua ventura
     Che in altro regno ella si maritasse,
     Non ti sarebbe soperchia sciagura
     Se tu in prigione allora ti trovasse?
     Il che se avviene, con sollecita cura
     Esser potrai dovunque ella n’andasse:
     E posto che sua grazia non acquisti,
     Almeno la vedranno gli occhi tristi.

73


Questi consigli distolsero Arcita
     Dal suo sconcio e reo intendimento;
     E confortossi l’anima invilita
     In ciò sperando; e preso il guernimento
     Da Peritoo profferto fe’ partita,
     Sè offerendo al suo comandamento
     Dove che fosse, e sè raccomandando,
     Co’ suo’ scudier se ne gì sospirando.

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74


Da Peritoo partito, se ne gío
     Dove era Palemone imprigionato,
     E sì gli disse: caro amico mio,
     Da le conviene ch’io prenda commiato,
     E ch’io mi parta, contra ’l mio disio,
     Siccome fuor bandito e discacciato:
     E non ci credo ritornar giammai;
     Ond’io morrommi in dolorosi guai.

75


Io me ne vo, o caro compagnone,
     Con redine a fortuna abbandonate:
     E vorria innanzi certo esta prigione,
     Che isbandito usar mia libertate.
     Almen vedrei alla nuova stagione
     Colei che ha il mio core in potestate:
     Chè mai, partito, vederla non spero:
     Sicchè morrò di doglia; e questo è vero.

76


Io lascio l’alma qui innamorata,
     E fuor di me vagabondo piangendo
     Men vo, nè so là dove l’adirata
     Fortuna mi porrà così languendo:
     Perch’io ti prego, se alcuna fiata
     Vedi colei per cui io ardo e incendo,
     Che tu le raccomandi pianamente
     Quel che morendo va per lei dolente.

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Mentre in tal guisa favellava Arcita,
     Palemon sempre lagrimava forte,
     Dicendo: tristo, lassa la mia vita
     Perchè non mi confonde tosto morte?
     Acciocchè prima della tua partita
     Fosse finita la mia trista sorte:
     Chè senza te in doglioso tormento
     Rimango, lasso, tristo ed iscontento.

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Ma s’ tu se’ savio siccome tu suoli,
     Dei di fortuna assai bene sperare,
     Ed alquanto mancar delli tuo’ duoli,
     Pensando che puoi molto adoperare,
     Libero come se’ di quel che vuoli;
     Là dove a me conviene ozioso stare:
     Tu vederai andando molte cose
     Che alleggieranno tue pene noiose.

79


Ma io, che sol rimango, a poco a poco
     Verrò mancando come cera ardente;
     E benchè tal fiata mi dia gioco
     Il riguardare il bel viso piacente,
     Tutto mi fia un accendere più foco,
     Come a me più non dimora presente:
     Ond’io non so omai quel ch’io mi faccia,
     E par che ’l core in corpo mi si sfaccia.

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80


Così piangean con amari sospiri
     Li duo compagni forte innamorati,
     E parean divenuti due disiri
     Di pianger forte, sì eran bagnati;
     Perchè, tra lor crescendo i lor martiri,
     Da’ lor valletti furon rilevati,
     E delle lor follie forte ripresi,
     Nel mostrarsi d’amor cotanto accesi.

81


Allora i due compagni si levaro
     Per le parole de’ loro scudieri,
     Ed amenduni stretti s’abbracciaro
     Di buon amore e di cuor volentieri,
     E poi appresso in bocca si baciaro,
     E più che prima nel lagrimar fieri,
     Con rotta voce si dissono addio:
     E così Arcita quindi si partio.

82


Nulla restava a far più ad Arcita
     Se non di girsen via, e già montato
     Era a caval per far sua dipartita,
     Fra sè dicendo: o lasso sventurato,
     Tanto fosse a Dio cara la mia vita,
     Che solo un poco il viso dilicato
     Di Emilia vedessi anzi il partire;
     Poi men dolente me ne potrei gire.

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83


Passò i cieli allor quella preghiera,
     E seguì tosto d’Arcita l’effetto;
     Che quel giglio novel di primavera
     Sopra un balcone appoggiata col petto
     Sen venne a star con una cameriera,
     Mirando il grazïoso giovinetto
     Che in esilio dolente se n’andava,
     E compassione alquanto gli portava.

84


Ma esso dopo il prego alzò il viso,
     Incerto del futuro, e vide allora
     L’angelico piacer di paradiso:
     Per che disse con seco: omai se fuora
     Di qui mi to’, fortuna, egli m’è avviso
     Non poter male avere: e quindi ancora
     La riguardò, dicendo: anima mia,
     Piangendo senza te me ne vo via.

85


E così detto, per fornir la imposta
     Fattagli da Teseo, a cavalcare
     Incominciò; ma dolente si scosta
     Dal suo disio: il qual quanto mirare
     Potè, il mirò, pigliando talor sosta,
     Vista facendo di sè racconciare:
     Ma non avendo più luogo lo stallo,
     Uscì piangendo d’Atene a cavallo.