La Stella dell'Araucania/Capitolo VI

Capitolo VI - Una caccia ai condor

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Capitolo V Capitolo VII

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CAPITOLO VI.

Una caccia ai condor.

Porto della Fame, chiamato anche Porto Carestia, situato quasi a metà dello stretto, deve il suo triste nome agli orrori che travagliarono i primi coloni spagnuoli giunti sulle terre magellaniche.

Padrona la Spagna di quasi tutta l’America del Sud e avida di nuove colonie, intuendo la grande importanza che avrebbe dovuto un giorno assumere quel passaggio, che metteva in comunicazione l’Atlantico col Pacifico, nel 1581, ossia sessantun anni dopo la sua scoperta, incaricò Sarmiento di andar a fondare su quelle desolate spiaggie una città che avrebbe dovuto chiamarsi la Ciudad Real de San Felipe.

Uomo audace ed esperto marinaio, ma non molto previdente, Sarmiento subito salpa e dopo una lunga navigazione getta l’âncora in quella baia, sbarcando parecchie centinaia di coloni, fra cui moltissime donne.

Tutto pareva arridere agli spagnuoli.

La Ciudad de S. Felipe sorse come per incanto ed un’altra se ne costruì un po’ più lontano, Nombre de Jesus, per tenere maggiormente in freno i bellicosi patagoni e per avere le chiavi dello stretto. Quand’ecco che un brutto giorno i viveri cominciano a mancare. Le navi erano vuote, vuoti i magazzini e nessuno aveva pensato a coltivare il suolo. Sarmiento, spaventato, s’imbarca per andare cercare [p. 70 modifica]soccorsi a Rio Janeiro, dove sperava trovare un vascello carico di viveri spedito dal governo spagnuolo; invece una orribile tempesta lo sorprende e lo obbliga a cercare rifugio a Pernambuco, dove giunge colla nave sconquassata.

Riattatala, riprende il mare, ma un destino contrario lo perseguita e lo fa naufragare. Qualunque altro si sarebbe scoraggiato dinanzi a tanta ostinata avversità; Sarmiento che pensava a quei disgraziati lasciati sulle desolate sponde dello stretto, alle prese colla fame e fors’anche cogl’indiani, non si scoraggiò.

Arma una nuova nave e riprende arditamente il mare, sperando che la sua perseveranza avrebbe finito collo stancare il destino. Era invece scritto che non dovesse più mai rivedere i suoi coloni, nè le città che aveva fondate.

Una nave inglese lo assalta e dopo un lungo combattimento lo vince e Walter Raleigh lo conduce prigioniero a Londra, dove rifiuta ostinatamente di far conoscere in quale orribile situazione si trovavano i suoi compatriotti, temendo la conquista del canale da parte dei suoi nemici.

Intanto la fame era piombata sulla disgraziata città e anche sull’altra. Vinti dall’inedia e tribolati dai continui assalti degl’indiani, i coloni morivano a dozzine e dozzine, seminando le coste dei loro cadaveri.

I coloni di Nombre de Jesus si erano riversati su S. Felipe ed il governatore li aveva ricacciati, non avendo più viveri.

Pure quei disgraziati per due inverni resistettero tenacemente, pescando e cacciando e scemando continuamente di numero, finchè gli ultimi superstiti, in numero di un centinaio, imbarcatisi su due scialuppe, lasciarono la città maledetta cercando uno scampo fuori del canale.

Alcuni, fortunati, vennero raccolti da Cavendisch, corsaro inglese; altri morirono miseramente su quelle spiaggie [p. 71 modifica]e le città, non più popolate, caddero in rovina finchè scomparvero del tutto e ad eternare quell’orribile disastro rimase il nome di Porto della Fame, che tutt’ora conserva.

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Della riedificata Ciudad Real de S. Felipe, abbandonata anche dal governo cileno dopo la ribellione militare del 1843, non erano rimaste che una dozzina di casette di legno, abitate per la maggior parte da balenieri, aggruppate intorno ad una un po’ più vasta, di proprietà di Piotre.

Papà Pardoe e Mariquita si erano diretti verso questa, colla certezza di trovarvi il baleniere. Era tornato di certo, perchè in mezzo alla baia si vedeva una grossa barca da pesca che il vecchio marinaio aveva subito riconosciuta.

— È la Quiqua di Piotre, — aveva risposto alla giovane che gliela aveva additata. — Mi pareva già d’averla vista la scorsa notte, quando passavo dinanzi a questa costa.

— Lo troveremo nella sua casa? — chiese la giovane, la cui voce tremava.

— Lo sapremo subito. —

Un uomo che lavorava in un orticello, vedendo la giovane ed il vecchio baleniere, era uscito dallo steccato per osservarli.

— Dov’è il signor Piotre? — gli chiese Pardoe. — Abbiamo bisogno di lui.

— Il padrone è alla caccia del condor, — rispose il colono. — Quando non dà addosso alla balena se la prende coi guanachi o coi grossi volatili. —

Mariquita fece un gesto di stizza, pure in fondo al suo cuore non se ne rammaricò. Quella circostanza che le accordava alcune ore di tregua, non le rincresceva.

— Quando tornerà? — chiese Pardoe. [p. 72 modifica]

— Chi può saperlo? Se volete trovarlo non vi sarà difficile.

Guardate lassù su quel monte: è il Tarn. Non vedete un recinto?

— Sì, lo vedo.

— È là che aspetta i condor. In un’ora e forse meno potete raggiungerlo. —

Pardoe guardò Mariquita.

— Andiamo, — disse questa, con voce risoluta. — Prima o dopo, il nostro incontro deve avvenire. —

Salutarono colla mano il colono e volsero le spalle al gruppetto di casupole, avviandosi verso il Tarn, un cono colossale i cui fianchi erano coperti di fitti boschi di faggi antartici. Mariquita e Pardoe avevano guardata attentamente la cresta indicata dal peone.

Era una specie di piattaforma, contornata da rocce brulle e prive di vegetazione, coi fianchi che parevano tagliati quasi a picco e che sorgeva isolata sul fianco meridionale del Tarn. Quantunque fosse lontana quattro o cinque miglia, si scorgeva benissimo nel mezzo una specie di recinto formato da pali ed in alto alcuni grossi punti neri che descrivevano degli ampii giri ora abbassandosi ed ora alzandosi.

— Andremo a guastargli la caccia, — disse Pardoe. — Ecco lassù i condor che volteggiano e che pare abbiano un gran desiderio di calare.

Non vi accoglierà troppo bene Piotre; se è un gran baleniere, è anche un appassionato cacciatore.

Se mandassimo qualcuno ad avvertirlo del vostro arrivo, Mariquita?

— Forse non verrebbe, — rispose la giovane. — Piotre nutre verso di me un profondo rancore, lo so.

— Non ne dubito, — disse il vecchio pescatore. — Non vi ha più perdonato d’aver respinto la sua mano. [p. 73 modifica]

Deve avervi amata assai quell’uomo, per essere diventato così triste e così selvaggio. Mi hanno detto che passa delle intere settimane senza mai parlare con nessuno, nemmeno coi suoi marinai.

— Taci, papà Pardoe, — disse Mariquita, con voce soffocata. — Vedremo come mi accoglierà.

— È diventato un orso e poi.... eh, avrete da faticare a deciderlo. Bah! Non disperiamo. —

Cominciavano a salire i primi pendii del Tarn, cosparsi di pini araucani altissimi, che producono delle frutta simili alle nostre castagne, di punya e di faggi, ed ingombri di cespugli entro i quali si udivano latrare lamentosamente i cani di prateria.

Dinanzi a loro numerosi volatili s’alzavano, fuggendo disordinatamente in tutte le direzioni. Erano bei casariti, specie di tordi che fanno dei nidi in forma di cupolette con entrate labirintiche; erano pernici di campo, tanaghe striate colle belle penne azzurre ed aranciate; colombe zenaide, un po’ più grosse delle nostrane e dei guid-guid, volatili che abbaiano come i cani.

Di quando in quando dai cespugli fittissimi balzava fuori rapidissimo qualche guanaco, animale agilissimo, col collo lungo e flessibile, la testa piccola e le gambe sottilissime, selvaggina molto ricercata dai patagoni i quali apprezzano molto la delicatezza delle sue carni; oppure volava fuori, correndo poi all’impazzata sulle sue lunghe gambe, qualche nadù, lo struzzo delle terre magellaniche che è molto più piccolo di quello africano e non ha penne così ricche e così belle.

Dopo d’aver attraversata una boscaglia assai folta che saliva faticosamente lungo i fianchi del cono, i due cavalli si fermarono dinanzi ad una rupe dove stavano legati al tronco d’un faggio altri tre mustani di statura altissima. [p. 74 modifica]

— Questi devono essere i cavalli di Piotre e dei suoi peoni, — disse Pardoe. — Dobbiamo scendere anche noi.

La cima non è che a duecento metri sopra la nostra testa. —

Mariquita, sapendosi così vicina a Piotre, ebbe un brivido.

Il baleniere l’aiutò a scendere dalla sella, legò i due cavalli vicino agli altri e si mise a salire il pendio precedendo la giovane.

In alto si scorgeva un recinto formato da pali collocati a breve distanza l’uno dall’altro e collegati fra di loro da certe specie di liane e da rami flessibili.

Doveva essere la trappola dei condor.

I giganteschi volatili non erano ancora scesi. Si vedevano volteggiare ad una grande altezza, colle ampie ali tese, ma pareva che non volessero allontanarsi da quella cima sulla quale qualche cosa doveva attirarli irresistibilmente.

Pardoe e Mariquita, superate le ultime rupi che diventavano sempre più difficili a scalarsi, giunsero finalmente sul margine di quel minuscolo altipiano.

Stavano per avviarsi verso il recinto, quando una voce ruvida e quasi minacciosa, che pareva uscisse da un crepaccio aperto in una rupe, gridò:

— Chi viene a disturbare la mia caccia? Volete spaventare i condor?

— Piotre! — esclamò Mariquita, impallidendo e serrandosi attorno al capo la manta.

Un uomo era uscito da quella spaccatura, tenendo in mano un lazo di pelle intrecciata che terminava in un anello di rame.

Poteva avere trent’anni. Era di statura imponente, con un petto da patagone, spalle ampie, membra muscolose che dimostravano una forza più che straordinaria. [p. 75 modifica]

Si comprendeva subito che era di razza bianca, quantunque la sua pelle fosse abbronzata. Per una singolare stranezza, aveva i capelli biondi che portava lunghi, sciolti disordinatamente sulle spalle e gli occhi color dell’acciaio che avevano un certo lampo selvaggio e che tradivano un non so che di ruvidezza, ma anche di tristezza.

Bell’uomo però, con una testa superba, una fronte spaziosa, ma che rughe precoci avevano già solcato, con un naso ben diritto e con labbra sottili, indizio d’una ferrea volontà e d’una grande energia.

Vestiva un bizzarro costume che aveva del guaso cileno e del gaucho argentino. Camicia di lana variopinta con ricami di seta e bottoni d’argento, stretta da un’alta fascia di stoffa rossa, calzoni alla zuava, di stoffa a righe, sbuffanti e merlettati all’estremità, i chiripa degli argentini; stivali lunghi, grossi, con speroni d’argento. Sul capo invece un sobrero dalle larghe tese, adorno d’un cordoncino d’oro, con fiocchetti.

Vedendo Pardoe e sopratutto quella giovane donna che si teneva il viso semi nascosto dalla manta, la fronte di quell’uomo si era aggrottata, poi un rapido pallore si era diffuso sul suo volto.

— Vecchio Pardoe, — disse con voce men dura, — chi è la giovane che conducete? Che cosa volete voi? Non vedete che attendo i condor? Se vi.... —

Si era improvvisamente interrotto, facendo un passo indietro, mentre il suo volto aveva assunto un’espressione quasi feroce.

Mariquita aveva lasciata cadere la manta, dicendogli con voce dolce e che tremava.

— Sono io, Piotre. Perdonate di essere venuta a trovarvi quassù sulla montagna, invece di attendervi nella vostra casa. Non credevate certo di vedermi qui. [p. 76 modifica]

— No, señorita, — disse il baleniere, con accento aspro, nel quale si sentiva vibrare una profonda amarezza. — La Stella dell’Araucania per me era morta.

Che cosa siete venuta a far qui, dall’uomo a cui voi avete spezzato l’esistenza?....

— Mi serbate sempre rancore, è vero, Piotre? —

L’uomo di mare non rispose. I suoi lineamenti continuavano ad alterarsi, mentre la sua fronte si corrugava burrascosamente. Pareva che un terribile uragano imperversasse nell’anima di quell’uomo.

— Avete avuto ragione di odiarmi, — rispose Mariquita, con voce sempre più tremante. — L’uomo non perdona più alla donna che ha respinto la sua mano e che ha impegnato il suo cuore con un altro. Voi non perdonerete mai, nemmeno a me: lo leggo nei vostri occhi. Che colpa ne avevo io, Piotre? Se foste giunto prima.... chissà, non avrei rifiutato di diventare un giorno vostra.... moglie.

— Perchè evocate questi ricordi che il tempo ormai ha travolti? — disse il baleniere, con voce sorda. — Ormai sono morti per me e la ferita che ha sanguinato per tanto tempo, il mare l’ha rimarginata. —

Ma non era così, perchè, mentre pronunciava quelle parole, un tremito agitava le sue labbra e nei suoi occhi si spegneva la cupa fiamma.

— Come volete, — disse Mariquita, con un sospiro. — Non parliamo più del passato. —

Piotre si era messo a passeggiare per la piattaforma colla fronte sempre corrugata e i pugni chiusi, senza guardare la fanciulla. Ad un tratto si fermò dinanzi a lei, dicendole:

— Non mi avete ancora spiegato il motivo della vostra venuta, señorita.

— Ho da parlarvi da solo.

— Non è questo il luogo, — rispose Piotre, ruvidamente. [p. 77 modifica] — E poi, guardate, i condor cominciano ad inquietarsi e voi mi farete perdere in questo momento una buona occasione per procurarmene qualcuno.

Riprenderemo più tardi questo discorso, a casa mia. Ora ho altro da fare. —

Era ritornato ruvido e la commozione che poco prima aveva alterato il suo viso, pareva che fosse improvvisamente scomparsa. Anche il suo sguardo era ridiventato duro e tetro.

Con un brusco cenno le indicò la spaccatura che pareva mettesse dentro qualche caverna, dicendole:

— Là dentro, señorita. I condor stanno per calare. —

Poi, posando una mano sulla spalla del vecchio pescatore, aggiunse con una certa dolcezza:

— Anche tu, papà Pardoe, vedrai che bella caccia! —

Mariquita aveva obbedito senza replicare parola ed i due balenieri l’avevano subito seguita.

Quella spaccatura metteva in una piccola caverna semicircolare, appena capace di contenere una dozzina di persone.

Sdraiati al suolo vi erano due peoni, due servi di Piotre, i quali dovevano aiutarlo nella caccia.

Ad un cenno del padrone spiegarono un bellissimo poncho, invitando Mariquita a sedersi; poi ripresero il loro posto, masticando silenziosamente la loro coca.

Piotre si era sdraiato presso la fenditura per sorvegliare le mosse dei condor, tenendosi quasi nascosto sotto un largo pezzo di pelle.

Pareva che non si preoccupasse che dei volteggi fulminei dei giganteschi uccellacci, eppure non era vero, perchè di quando in quando piegava la testa e lanciava uno sguardo furtivo dentro la piccola caverna, cercando gli occhi di Mariquita. Allora un fremito agitava tutto il suo corpo e la sua [p. 78 modifica] pelle si faceva d’una tinta più scura, come se un’ondata di sangue gli salisse sul viso. No: il mare non doveva aver chiusa la ferita del suo cuore e forse in quel momento sanguinava più che mai. Un anno non doveva essere stato sufficiente a rimarginarla e ne era solamente trascorso uno dalla sera in cui la fanciulla aveva respinto la sua mano.

Mariquita, seduta nell’angolo più scuro della caverna, non lo perdeva d’occhio e spiava ogni suo più piccolo movimento. Sentiva gli sguardi del baleniere; involontariamente trasaliva e la sua faccia si contraeva come sotto un improvviso spasimo.

Intanto i condor, non vedendo più nessuno, cominciavano ad abbassarsi verso il piccolo altipiano, restringendo sempre più i loro giri.

Il recinto esercitava su di loro un fascino irresistibile e come ben si può comprendere, non erano già i pali che li attiravano, bensì il cadavere d’un montone che prima era stato spinto lassù e poi scannato, perchè servisse d’esca a quei voraci volatili.

I condor che hanno una vista acutissima e che fiutano le carogne a delle distanze incredibili, l’avevano già scorto e si preparavano a scendere per saziarsi delle sue carni.

Quei giganteschi volatili amano poco le bassure e anche le montagne poco elevate, dove hanno tutto da temere da parte degli uomini. Ordinariamente si tengono sulle gigantesche catene andine, da dove spiano le prede, non scendendo quasi mai al di sotto della linea delle nevi.

Quando il freddo fa fuggire i guanachi, allora osano calare anche nelle pianure per cacciare altri animali, perchè quantunque si nutrano di preferenza di carogne al pari degli avvoltoi e degli urubu, che sono gli spazzaturai delle città sud-americane, si gettano anche contro gli esseri viventi che non possono opporre lunga resistenza. [p. 79 modifica]

Specialmente i montoni e le pecore forniscono loro le vittime; pure talvolta anche i vitelli ed i giovani cavalli cadono sotto i rostri di quegli audaci predoni.

Si riuniscono in buon numero, circondano i montoni, poi s’avanzano sbattendo vivamente le loro immense ali e gridando a piena gola. Quando i disgraziati animali, tremanti, spaventati, si trovano ammassati gli uni addosso agli altri, formando un gruppo compatto, i condor s’innalzano e poi piombano su quella massa vivente che non può opporre alcuna difesa, facendo delle stragi orribili.

I danni che cagionano agli hacienderos del Perù, del Chilì e della pampa argentina sono gravissimi; ogni anno parecchie migliaia di bestie vengono divorate.

I condor che stavano per scendere sul recinto erano una mezza dozzina e tutti giganteschi. Splendidi volatili, quando si vedono solcare lo spazio colle immense ali tese, pieni di forza e di fierezza, passando sopra le vette nevose delle Ande; quale differenza invece quando si possono vedere da vicino appollaiati sulla punta di qualche rupe! Tutta la loro bellezza scompare, perchè non hanno nulla della nobiltà delle aquile, non essendo che degli avvoltoi e anche dei più brutti, col collo nudo e rugoso che fa ribrezzo a vederlo e che non ha nulla da invidiare a quello degli arghilah indiani, i mangiatori di carogne per eccellenza.

I sei condor continuavano a restringere i loro giri ed abbassarsi sempre però lentamente e con prudenza, essendo molto diffidenti. Non osavano ancora, sospettando qualche tranello, ma la vista di quel montone morto che prometteva un’abbondante scorpacciata, li attirava sempre.

Ad un tratto il più ardito, o il più affamato, scese come un fulmine, appollaiandosi sulla cima d’una roccia che s’alzava a pochi metri dal recinto.

Era un uccellaccio che misurava dal capo alla coda quasi [p. 80 modifica]un metro e mezzo, colle ali di tre e una grossezza tale da superare tutti i volatili conosciuti.

La testa, in proporzione al corpo, era piuttosto piccola, traforata da due occhietti grigi forniti di ciglia del più bizzarro aspetto, armata d’un becco robusto, arcuato all’estremità della mandibola superiore, nerastro alla base e giallo nel resto della sua lunghezza, ed adorna sul cranio d’una specie di cresta floscia attraversata da solchi profondi, che ricadeva attraverso il rostro.

Il collo era senza penne, di tinta rossastra, di apparenza spiacevole, e che sembrava fatto appositamente per frugare tra le carogne, circondato presso le spalle da una collana di peluria finissima, d’una bianchezza abbagliante, che contrastava vivamente colle penne azzurro cupe che coprivano tutto il resto del corpo.

Quel gigante dell’aria rimase immobile alcuni minuti, girando il capo in tutte le direzioni, per accertarsi che non vi erano nemici, poi con una volata passò sopra la cinta piombando sul montone e squarciandolo coi lunghi artigli ricurvi e robustissimi. Gli altri, incoraggiati, calavano a loro volta, imitandone la manovra.

Piotre, non scorgendoli più, si era alzato, dicendo ai suoi peoni:

— Preparate i randelli. Fra poco saranno tanto pieni da non poter più innalzarsi. —

Quindi, senza guardare in viso la giovane araucana, le disse:

— Se volete assistere, Mariquita, ad una caccia emozionante, lasciate quell’angolo e accostatevi a me.

Vedrete meglio, e anche voi, vecchio Pardoe. —

La giovane s’alzò senza rispondere, avvicinandosi alla spaccatura, quantunque colle preoccupazioni che aveva, quella caccia non la interessasse affatto. [p. 81 modifica]..... picchiava tanto forte da fracassare, d'un colpo, ali e testa. ( Cap. VI.) [p. 83 modifica]

I sei condor, aggruppati intorno al montone, s’impinzavano di carne al punto di correre il pericolo di scoppiare.

Era il momento atteso dai cacciatori per dare addosso a quegli ingordi predoni.

Essendo quegli uccellacci d’una voracità prodigiosa, quando trovano cibo in abbondanza si riempiono talmente il corpo, da non essere quasi più capaci di riprendere subito il volo, se prima non fanno una corsa per prendere lo slancio.

I cileni e anche i peruviani hanno perciò adottato quei recinti per dare la caccia ai condor. Mancando a questi lo spazio sufficiente per la corsa, in causa della strettezza dei pali, si trovano nell’impossibilità di spiccare il volo e diventano preda facile dei cacciatori che li finiscono a colpi di bastone, quando non preferiscono conservarli per venderli ai mercanti di fiere.

Piotre, giudicandoli abbastanza pieni per non poter più fuggire, si era slanciato verso la porta del recinto impugnando una specie di mazza piombata, seguito dai suoi due peoni.

I volatili, sorpresi da quell’improvvisa apparizione e d’altronde troppo pesanti per servirsi delle ali, erano rimasti stupidamente accovacciati sul carcame del montone.

Non cominciarono a difendersi se non quando i primi colpi di mazza grandinarono sui loro corpi. Allora si rizzarono battendo furiosamente le ali e tentando di afferrare coi robusti becchi i bastoni e anche di gettarsi addosso ai cacciatori, ma erano vani sforzi.

Piotre, che, come abbiamo detto, era dotato di una forza erculea, picchiava tanto forte da fracassare d’un colpo ali e testa e anche i suoi due peoni battevano sodo.

Bastarono cinque minuti per far stramazzare sulla carogna del montone quei sei giganteschi uccellacci. [p. 84 modifica]

Allora Piotre, strappando al più grosso un mazzo di penne lunghissime d’una splendida tinta turchino cupo, si accostò a Mariquita che aveva assistito al massacro, tenendosi ritta all’entrata del recinto e glielo porse, dicendole con un misto di ruvidezza e di nobiltà:

— A voi, señorita: le più belle spettano alla donna. — Quindi, volgendole bruscamente le spalle, aggiunse:

— Torniamo a casa: qui non ho più nulla da fare. —

Cinque minuti dopo, mentre i peoni trascinavano i condor nella caverna, Piotre, Mariquita e papà Pardoe salivano sui loro cavalli, galoppando verso Porto Carestia.