La Sicilia nella Divina Commedia

Achille Mazzoleni

1893 Indice:La sicilia nella divina commedia.djvu La Sicilia nella Divina Commedia Intestazione 26 maggio 2023 100% Da definire


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Estratto dalla Rassegna della Letteratura Siciliana, anno I, n. 1-3.


DOTT. ACHILLE MAZZOLENI.


LA SICILIA

NELLA DIVINA COMMEDIA

ACIREALE

TIPOGRAFIA DONZUSO


1893.

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LA SICILIA NELLA DIVINA COMMEDIA


La Sicilia, l’isola intravista nelle commosse fantasie degli antichi poeti, centro attivo di mitiche creazioni e di colonie ellenistiche fiorenti, poscia suolo contrastato di popoli conquistatori, ha prestato in ogni tempo alla letteratura materia feconda, or lusingando le menti colle sue bellezze naturali, or percuotendole coi fenomeni di quel vulcano, che la rende la terra più caratteristica non solo del Mediterraneo, ma di tutti i mari. Le sue tradizioni, che si confondono col mito delle schiatte pelasgiche, le sue vicende storiche, la sua ricchezza e persino le sue rovine presentano tale un complesso ed una fecondità di materiale, che da sè solo varrebbe a testimoniare un’intera civiltà svoltasi entro i confini di sì breve sponda e capace di costituire propria e vera nazionalità. Ora, poteva mai l’importanza sua sfuggire al poeta, che descrisse fondo a tutto l’universo, a lui, che le antiche tradizioni chiamò in sussidio or come fatti morali, or come naturali, ora anche come semplici paragoni a sancire, a completare, a dichiarare fatti più recenti e di universale interesse? — la Sicilia, quale sede di enti mitologici e di avvenimenti storici indimenticabili, era là nei canti dei poeti, nelle pagine eloquenti [p. 4 modifica]della storia, nella tradizione orale dei popoli, e Dante non aveva che da attingere, nè poteva astenersi dal farlo, perchè le vicende dell’isola erano a’ suoi tempi, come nella più remota antichità, legate indissolubilmente con quelle dei continenti Europei, e più strettamente ancora con quelle della sua dolce terra latina.

Onde noi qua e là udiamo il suo nome infiorare le cantiche immortali, la intravediamo sotto il velo delle favole antiche o nei tumultuosi commovimenti del mutar delle dinastie, or fedele alle une, or ribelle alle altre, bella pel suo cielo, pei suoi mari, per la sua vegetazione, terribile pel suo vulcano caligante; è come un tributo reso dal poeta alla Sicilia dei poemi omerici e virgiliani, dall’italiano all’isola del foco e dei Vespri.

Tre volte ricorre il nome dell’isola nella Divina commedia: le prime due (Inf. XII, 108; Purg. III, 116) coll’antica forma di Cicilia, molto in uso nel volgare dei primi secoli della nostra lingua1, la terza con quella di Trinacria (Par. VIII, 67), nel qual luogo sono anche ricordati i suoi due promontorî di levante, il Pachino o capo Passaro al sud di Siracusa ed il Peloro o capo di Faro verso l’Italia2. [p. 5 modifica]

La Sicilia è per Dante la bella Trinacria, bella nel suo aspetto naturale, bella per la sua copiosa vegetazione, alla quale avevano ricorso sin gli antichi Romani, bella ancora perchè tale la dipingevano i poeti e tale la dichiaravano i conquistatori coll’agognarne e contendersene il possesso, meritamente poi chiamata bella in questo luogo, dove si accenna al litorale che corre tra Pachino e Peloro, alla regione cioè dominata dall’Etna, la più ridente che l’isola possegga. Una quarta volta ancora il poeta nomina la Sicilia, ma ricorrendo ad una maniera perifrastica, che subito ce ne palesa l’entità, là dove la chiama l’isola del fuoco (Par. XIX, 131, cfr. VIII, 70).

Le allusioni più o meno fuggevoli che della Sicilia incontriamo nel sacro poema si possono ridurre alle quattro categorie, che andremo ordinatamente seguendo, di ricordi mitici, storici, letterarî e geografici-scientifici, dal quale esame risulterà anche una volta dimostrata la natura universale dell’ingegno dantesco. Non ci illudiamo già di essere i primi a trattare di questi argomenti3, solo crediamo di potervi, ora che gli studî sulle opere dell’Alighieri son tanto progrediti, portare qualche lume ed ordine maggiore di quello che era possibile anche in tempo di poco anteriore.

La Sicilia, ricca già nella fantasia del popolo greco d’una vera legione di esseri mitologici, la cui creazione e le cui vicende ripetono la loro origine dalla natura del suolo stesso, [p. 6 modifica]massimamente dalla regione vulcanica, offerse a Dante copioso materiale, che egli dovette assumere dai poeti latini più conosciuti nel medioevo e da lui più studiati, Virgilio, Ovidio, Lucano e Stazio.

Fra le tramutazioni più celebri dell’antichità era quella di Aretusa, ninfa di Diana, cangiata nel fonte omonimo nella penisoletta Ortigia, sulla quale or sorge Siracusa; anche l’Alighieri la riconosce come tale ed espressamente la ricorda come cantata da Ovidio nel verso (Inf. XXV, 97):

«Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio»4
a proposito delle meravigliose trasformazioni dei ladri.

Diretta relazione coll’Etna e colla regione Etnea hanno invece tutte le altre tradizioni mitologiche che della Sicilia incontransi nel divino poema: e dapprima il ricordo che vi si fa del gigante Tifeo (Par. VIII, 70), che, sepolto sotto l’Etna5 quando aveva preteso di detronizzare Giove e gli altri Dei, è cagione, secondo la favola, dei fenomeni vulcanici di questo monte: ma qui Dante non si contenta del mito, vuol trovare del fenomeno tellurico una ragione naturale, e noi la vedremo quando ci occorrerà di parlare dei ricordi scientifici. Egli lo colloca invece nell’inferno tra i giganti, che stanno intorno al pozzo (XXXI, 124), denotandolo coll’altra forma Tifo6. A questa menzione [p. 7 modifica] si connette l’altra più generica della pugna ingaggiata dai giganti nella valle di Flegra, scolpita così mirabilmente nel suolo della prima cornice del Purgatorio7, dove, fitto dal telo celestiale, vedesi anche il centimane Briareo (cfr. Inf. XXXI, 98), che, secondo i mitografi, sarebbe rimasto egli pure sepolto sotto l’Etna.

L’Etna è ancora per Dante la fucina negra di Vulcano, dove il fabbro assieme ai Ciclopi si affatica a preparare i fulmini a Giove (Inf. XIV, 52-57)8.

Le altre reminiscenze mitologiche della Divina commedia spettanti alla Sicilia, rientrano tutte nel mito del rapimento di Proserpina e in quello del ciclo Troiano.

Nella stessa plaga orientale dell’isola suole infatti la tradizione collocare la scena, nella quale la vergine siciliana perdette

«la madre lei, ed ella primavera» (Purg. XXVIII, 49-51),

quando Plutone la rapì9 e la fece regina dell’eterno pianto [p. 8 modifica](Inf. IX, 44) e la donna che regge all’Inferno (X, 80), da dove Teseo coll’aiuto di Piritoo, tentò di liberarla10. I mitografi collocano tale rapimento ad Enna (oggi Castrogiovanni, ove re Federigo II l’Aragonese solea soggiornare l’estate tra le fresche arie e le floride praterie), onde nella vaga descrizione all’entrata del Paradiso terrestre (Purg. XXVIII, 6-51) si vogliono riconoscere dipinte le bellezze naturali della Sicilia, al che parrebbe accrescere fondamento l’espressione allusiva

«Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo, che perdette
la madre lei, ed ella primavera (ivi, 49 sgg.)11.

Di Proserpina inoltre, se non Dante, la leggenda pone come compagne, al momento in cui essa venne rapita, le tre Sirene, abitatrici quindi di queste stesse spiaggie, sulle quali il Dio dell’Averno la colse intenta a raccogliere fiori12, nè al nostro poeta, a cui erano ben note le peregrinazioni d’Ulisse (Inf. XXVI, 103 sgg.) è qua e là estranea qualche allusione agli allettamenti della Sirena13.

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Per chiudere la serie di questi esseri mitologici ricorderemo ancora che da alcuno si é voluto riconoscere, con similitudine un po’ strana, nella fenice dantesca (Inf. XXIV, 106-111) la città di Catania colle sue vicende14.

La leggenda del ciclo Troiano, nota all’Alighieri specialmente pel poema virgiliano, è pure rappresentata nella D. C., in relazione alla Sicilia, mediante le peregrinazioni di Ulisse e di Enea. A tutti è nota la narrazione che Dante pone in bocca ad Ulisse del suo viaggio da quando si allontanò da Circe (Inf. XXVI, 90-fine) e andò errando pel Mediterraneo sfuggendo ai pericoli delle Sirene e dei Ciclopi: ora, in tutta questa navigazione non si trova mai direttamente nominata la Sicilia, l’approdo alla quale solo più tardi fu messo in rapporto coll’episodio omerico di Polifemo15, però essa facilmente s’intravede e ricorre al pensiero in quella terzina, nella quale Ulisse dice (vv. 103-105):

«L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Marocco, e l’isola de’ sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna»16.
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Di Enea e della sua venuta in Italia, che fu poi cagione «di sua vittoria e del papale ammanto», Dante tocca a più riprese e con maggior interessamento nel suo poema, quindi anche dell’approdo fatto all’isola di Sicilia, dove fu accolto ospitalmente dal troiano Aceste, al quale sul partire affidò e raccomandò i vecchî Troiani non atti a seguirlo nell’impresa d’Italia17. Il poeta dice per incidenza che Anchise vi finì la vita (Par. XIX, 132), morte che Virgilio (En. III, 707 sgg.) racconta come avvenuta a Trapani, ed in altro passo (Purg. XVIII, 136 sgg.) rimprovera quei neghittosi compagni di Enea, che non seppero sino alla fine tollerare le fatiche del viaggio e preferirono di rimanere in Sicilia presso Aceste, anzichè muovere alla nobile conquista d’Italia, (cfr. Virgilio, En. V, 604 seg.). Non è però ricordato nella D. C. lo sbarco di Enea sulla costa orientale, dove, secondo Virgilio (En. III, 590 sgg.), avrebbe trovato Achemenide, il compagno di Ulisse abbandonato nella terra dei Ciclopi18.

Tali pertanto sono le ricordanze favolose aventi relazione colla Sicilia sparse da Dante nel suo poema; esse costituiscono già qualche cosa di più del modesto fardello di erudizione che doveva possedere in quell’epoca uno studioso comune. Quello però che in lui rende singolare codesto possesso è l’uso sapiente della favola, per esercitare il quale egli invita i lettori a mirare

«.....la dottrina, che s’asconde
sotto il velame degli versi strani» (Inf. IX, 62),
affinchè sappiano discernere oltre il senso «letterale (che risulta dalle favole o dalla storia della lettera) il senso allegorico, [p. 11 modifica]che è quello che sotto il manto delle favole si nasconde, ed è una verità ascosa sotto bella menzogna» (Conv. II, 1). Donde il suo studio — nel che veramente mostrò di prevenire, come osserva il Poletto19, i secoli moderni nella sottigliezza dell’indagine — di ravvisare dall’un canto sotto certi personaggi un tipo intellettuale e una moralità universale in qualche atto della lor vita, dall’altro una forza naturale e una verità scientifica sotto il velo del mito, intúito che, parlando dell’Etna, gli fa dire che esso caliga

«non per Tifeo, ma per nascente solfo» (Par. VIII, 70).



Echi ancor più frequenti trova nella D. C. la Sicilia co’ suoi ricordi storici, e questi tanto più numerosi e rilevanti quanto maggiormente, com’è naturale a pensare, si avvicinano all’epoca della composizione del poema. L’argomento fu trattato in modo esteso da Lionardo Vigo nel citato lavoro «Dante e la Sicilia», e noi non faremo qui che seguire in ordine cronologico codesti ricordi, cercando in parte di temperare certe illazioni alquanto audaci, che la critica di questi ultimi tempi non è così proclive ad accettare come per il passato.

Il Vigo, che si è occupato quasi esclusivamente degli argomenti storici, allargandoli a scopo di erudizione oltre i confini che l’espressione dantesca consente, prende nel suo studio a considerare i ricordi che l’Alighieri fa della Sicilia ellenica, normanna, sveva, angioina ed aragonese.

La serie dei ricordi storici, ma che hanno ancora del leggendario, s’apre con una crudeltà di Falaride, tiranno d’Agrigento († 508 a. C.), il quale dicesi che abbia punito l’artefice [p. 12 modifica]ateniese Perillo col supplizio del toro di rame arroventato, da lui stesso inventato e costrutto:

«  .  .  .  il bue cicilian che mugghiò prima
     col pianto di colui (e ciò fu dritto)
     che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce dell’afflitto,
     sì che, con tutto ch’ei fosse di rame,
     pure e’ pareva dal dolor trafitto»20;

come si vede, è la pena del taglione largamente e con vario criterio applicata nel sistema punitivo della D. C., sistema che fu tanto studiato e discusso ai dì nostri21.

Un altro esempio tradizionale di crudeltà Dante ce lo porge in

«  .  .  .  .  .  .  .  Dionisio fero
     che fe’ Cicilia aver dolorosi anni»,

callocandolo nel fiume di sangue bollente del settimo cerchio (Inf. XII, 107).

In costui devesi certo ravvisare Dionisio il vecchio, tiranno di Siracusa († 367 a. C.), la cui efferatezza, fatale non solo alla città di cui era signore, ma a tutta la Sicilia ed attestataci dagli storici antichi22, era divenuta ed ancora rimane proverbiale23.

È dubbio invece se l’Alighieri nella famosa invettiva del c. VI del Purg., v. 125, abbia voluto in Marcello alludere al celebre vincitore di Siracusa (211 a. C.), nobile tipo di cittadino e [p. 13 modifica]valoroso capitano24, scimmiottato dal villan partigiano dei Comuni medio-evali, oppure all’omonimo C. Claudio Marcello, console nel 50 a. C., e fiero oppositore di Giulio Cesare25. Quasi tutti i commentatori antichi e moderni inclinano, per lo spirito che informa l’intero c. VI, a ravvisarvi il secondo, quale tipo degli oppositori all’Impero26.

Ai ricordi storici di Siracusa si riattacca una delle donne divine più note della D. C., cioè Lucia, vergine e martire nativa di quella città († 304 d. C.)27: essa è colei, che è mossa dalla divina clemenza in soccorso di Dante, suo fedele (Inf. II, 92 sgg., 124; Par. XXXII, 137), è colei, che trasporta sulle sue braccia sino alla Porta del Purg. il poeta addormentato (Purg. IX, 55 sgg.), è infine colei, che come martire della Chiesa ha il suo seggio di gloria nella rosa celeste, che corona il trono di Dio (Par. XXXII, 137).

Queste due reminiscenze siciliane, di Lucia e di Marcello, sono sfuggite alla ricerca del Vigo. Le vere reminiscenze storiche attinenti all’isola, cominciano in Dante con la casa normanna d’Hauteville, e precisamente con Roberto Guiscardo, il quale, creato duca di Puglia e di Calabria nel 1058, aiutò tre anni appresso il fratello Ruggiero a conquistare la Sicilia ed a scacciarne i Saraceni; per aver liberato S. Gregorio VII assediato in Roma dall’Imperatore Enrico IV, il poeta lo colloca tra i beati del cielo di Marte, i quali combatterono per la difesa della fede cristiana (Par. XVIII, 48)28. [p. 14 modifica]

Di Ruggiero I (1061-1127), Ruggiero II (1127-1152) e Guglielmo I il cattivo (1152-1166), che tennero l’isola col titolo di conti come feudo del ducato di Puglia, non è parola nella D. C.; del secondo è però figlia quella Costanza, sposa di Enrico VI, che è da Dante ricordata come nonna di Manfredi (Purg. III, 113) e madre di Federico II di Suave (Par. III, 118 sgg.). Il poeta la colloca nel cielo della Luna, seguendo così la tradizione volgare che, già monacatasi contro sua voglia, fosse tratta dal chiostro in età di 52 anni e data in moglie ad Enrico VI29; essa è beatificata nel Paradiso e posta accanto allo spirito intemerato della gentile Piccarda Donati, nel quale omaggio alla virtù ed alla elevatezza di Costanza dobbiamo vedere una nuova prova della superiorità di Dante alle superstizioni e alle malignità del tempo:

«Questa è la luce della gran Costanza».

Nella D. C. spicca ancora un’altra bella figura della casa normanna, quella di Guglielmo II il buono (1166-1189), alla cui morte Costanza ereditò il regno di Sicilia. Lo troviamo glorificato fra i re giusti e pii nel cielo di Giove e risplendente nell’arco declive del ciglio dell’aquila, emblema della sovranità, accanto a David, Traiano, Ezechia, Costantino e Rifeo (Par. XX, 62 sg.):

«Guglielmo fu, cui quella terra plora
che piange Carlo e Federico vivo»30.

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Pel suo buon reggimento, a lui in particolar modo si possono riferire le parole pronunziate a nome di tutti gli spiriti beati di quel sesto cielo31 dal rostro dell’aquila (ivi, XIX, 13 sgg.):

«  .  .  .  .  .  .  .  Per esser giusto e pio
son io qui esaltato a quella gloria,
che non si lascia vincere a disìo,
ed in terra lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia».

Passato così alla sua morte il regno di Puglia e di Sicilia dalla casa Normanna alla Sveva, dopo Enrico VI (1189-1197) ne diveniva erede il figlio Federico col titolo di primo (secondo, quale imperatore 1197-1250). Per Dante (Par. III, 118 sgg.), come Enrico è il secondo vento di Suave, così egli è il terzo e l’ultima possanza generata da Costanza32. A tutti son note le lodi di questo principe poste in bocca a Pier della Vigna (Inf. XIII, 59-75), e con esse si accorda ciò che nelle altre sue opere scrisse di lui come re e come letterato l’Alighieri stesso33. Pur non di meno lo collocò tra gli eretici nel numero degli Epicurei entro le arche infuocate della città di Dite (Inf. X, 119), memore forse della maledizione lanciata sopra lui e la sua [p. 16 modifica]schiatta dalla curia romana, della cui potestà temporale Federico era stato cosí tenace oppositore34.

E proseguendo nei ricordi storici pei quali la casa dagli Hoenstaufen è ancora in relazione nelle pagine della D. C. colla Sicilia, chi non rammenta il commovente incontro del poeta col figlio di Federico, il ben nato Manfredi, che tenne il regno delle due Sicilie dal 1258 al 1266, fino cioè alla sconfitta di Benevento? pur dannato nell’Antipurgatorio a cagione della scomunica, sulla sua figura è sparsa così gentile commiserazione, che egli è completamente riabilitato in faccia alla posterità35.

La disfatta di Manfredi, quella di poco posteriore (1268) di Corradino a Tagliacozzo (Inf. XXVIII, 17) e la sua miseranda fine (Purg. XX, 68) assicurano alla casa Angioina la successione alla corona di Napoli e di Sicilia36; così Carlo I d’Angiò comincia quella mala signoria, che nel 1282 doveva muovere Palermo a gridar: «Mora, mora!» (Par. VIII, 73 sgg.). Nella quale occasione era corsa voce che papa Nicolò III si dichiarasse contro di lui, ricevendo denaro da Gian di Procida per favorire la congiura contro i Francesi (Inf. XIX, 99). [p. 17 modifica]Dante ricorda ancora la gran dote provenzale (Purg. XX, 61) portatagli dalla sua prima moglie Beatrice, e in altro luogo (ivi, VII, 128) il nome di questa ricompare assieme a quello della seconda moglie Margherita di Borgogna; altrove poi Carlo d’Angiò è detto non privo di virtù e chiamato dal maschio naso e nasuto (ivi, 113, 124), e di nuovo è menzionato a proposito del fatto di Provenzano Salvani (ivi, XI, 137)37.

Dopo i Vespri, la stirpe Aragonese sale con Pietro III (1282-85), marito di Costanza, la bella figlia di Manfredi (Purg. III, 114), sul trono di Sicilia; Dante chiama questo principe membruto, ed accordandosi colla storia, che l’appellò il grande38, dice di lui che

«d’ogni valor portò cinta la corda»,

facendone altresì spiccare le doti al confronto de’ suoi figli degeneri Giacomo II (1285-1296)39 e Federigo II (1296-1337), succedutigli nel reame dell’isola (Purg. VII, 112 sgg.).

Più largo campo concede il poeta alla storia contemporanea della Sicilia, conforme agli alti intendimenti politici, ai quali informò l’opera sua maggiore. E così egli ricorda la lotta tra Angioini e Aragonesi pel ricupero della Sicilia dopo i Vespri, toccando al proposito della prigionia e della liberazione di Carlo II d’Angiò, colui, che nella battaglia navale di Napoli (5 giugno 1284), [p. 18 modifica]vinta da Ruggiero di Lauria, «già uscì preso di nave» (Purg. XX, 79), ed alludendo all’altra vittoria (1285) riportata da questo ammiraglio sopra la flotta di Filippo III l’ardito, il quale ne morì di dolore a Perpignano «fuggendo e disfiorando il giglio» (Purg. VII, 105). — Di Carlo II è figlio quel Carlo Martello († 1295), che nella sfera di Venere parla all’amico poeta40 sì affettuosamente, affermando che la bella Trinacria avrebbe avuto in lui il suo legittimo principe, se la mala signoria angioina non l’avessero condotta a liberarsene, e lagnandosi dei soprusi del padre per escludere il suo primogenito Caroberto dal trono di Napoli (Par. VIII, 55 sgg.); Dante poi (Par. IX, p.io) nomina anche la bella Clemenza, non la moglie, ma la figlia di Carlo Martello41. Di Carlo II inoltre è genero quel Carlo di Valois (1270-1325), che mandatovi da Bonifacio VIII, s’impadronì di Firenze col tradimento (Purg. XX, 70-78), mentre stava per muovere alla conquista della Sicilia contro Federico II d’Aragona «l’onor di Cicilia»42.

Federico II l’Aragonese — quel che guarda l’isola del foco (Par. XIX, 131) — è l’ultima e più importante figura storica, che ci appare nella D. C. in relazione coll’isola, della quale era stato proclamato re dal generale parlamento di Catania nel 1296, e che poscia difese contro gli Angioni e contro il fratello Giacomo II sino alla pace di Caltabellotta (1302); in questa egli ne fu riconosciuto legittimo signore col titolo di re di Trinacria che poi subito dimise per riassumere quello di re di Sicilia, riserbato nei patti ai re di Napoli. Fu già discusso a lungo per [p. 19 modifica]ritrovare la vera cagione, mosso dalla quale l’Alighieri nel c. III del Purg. (v. 116) abbia chiamato questo principe onor di Cicilia e nel 1308 (secondo la lettera di frate Ilario) avuto intenzione di dedicargli la cantica del Paradiso, mentre poi in parecchi altri luoghi di questa e d’altre sue opere lo abbia censurato aspramente43. Il Vigo44, dopo una lunga ricerca intorno all’Aragonese, ai fatti storici contemporanei, ed alle relazioni di lui col poeta, si accosta all’opinione del Fraticelli45, secondo il quale egli gli sarebbe divenuto nemico dopo il rifiuto della signoria di Pisa, offertagli dal partito ghibellino in Toscana (1313); scagiona inoltre Federico da ogni accusa mossagli da Dante, il quale in ciò fare sarebbe stato trascinato da ira ghibellina e per essere di natura trasmutabile (!!).

Non è questo il luogo di fermarci ad esaminare la questione; solo diremo che noi propendiamo al parere del Bartoli46, il quale non solo dimostra apocrifa la lettera di frate Ilario e quindi priva di fondamento l’intenzione della dedica della terza cantica, ma sostiene che in Dante, dal Convito al Volgare Eloquio, da questo al Purgatorio, dal Purgatorio al Paradiso è sempre la stessa nota, sempre lo stesso odio e disprezzo per l’Aragonese. Quanto poi a spiegare l’espressione applicatagli dal poeta di «onor di Cicilia», alcuni la vogliono usata in senso ironico47, [p. 20 modifica]altri dicono che sia facile a spiegarsi in bocca di un avo affezionato qual’era Manfredi, mentre l’Alighieri la pensava ben diversamente48.

Ed a proposito degli Aragonesi, il Vigo risuscita un’ipotesi messa fuori dal Troya49, che cioè Dante possa aver «navigato di Francia in Sicilia» per vedere l’amato Federico, e la sostiene allegando le relazioni avute dal poeta coi dinasti di quella casa, la sua conoscenza del volgare plebeo siciliano, la sua dichiarazione di aver peregrinato per quasi tutte le parti ov’era in uso la favella del (Conv. I, 3), e l’evidenza di certe descrizioni riferentisi alla Sicilia, come il gorgo di Cariddi, il golfo di Catania50 e la corrispondenza del Paradiso terrestre coi dintorni di Castrogiovanni, ove fu rapita Proserpina. Ma queste non sono che ipotesi vaghe, le quali, nate per istudio di novità, si reggono a stento per la buona volontà di chi si attribuirebbe ad onore di aver ospitato il divino Alighieri, e che son destinate a cadere perchè poggiano, anzichè su attestazioni sicure di fatto, sopra generalità e indeterminatezze.

I ricordi letterari che riannodano la Sicilia alla D. C. sono ben scarsi, fuggevoli e di minor importanza al confronto di quelli storici.

Della Sicilia ellenica vi si menziona il solo filosofo agrigentino Empedoclès (sec. V a. C.), mente enciclopedica del tempo suo, che si dice aver perduta la vita entro il cratere dell’Etna; Dante lo colloca nel prato di fresca verdura del Limbo in mezzo agli spiriti magni, tra Talete ed Eraclito (Inf. IV, 138)51. [p. 21 modifica]

Dei poeti della scuola sicula, che scrissero rime in volgare, nella D. C. si ricorda come tale il solo Giacomo da Lentini, che vi è chiamato antonomasticamente il Notaro (Purg. XXIV, 55 sgg.); qui è posto nel sesto cerchio di quelli che purgano il peccato della gola, in compagnia di Guittone e di Buonagiunta, fra i poeti che rimasero al di qua del dolce stil nuovo, e che perciò per manco d’ispirazione non riuscirono a conseguire vera eccellenza di arte lirica52. Federico II e il suo segretario Pier della Vigna (Inf. XIII, 58 sgg.), altri poeti di codesta scuola de’ principali siciliani, che coltivarono il volgare illustre, cortigiano (De vulg. el. I, 12), hanno pure un posto importante nel poema dantesco, però non come poeti, ma come personalità storiche53.

Gli accenni geografici e scientifici attinenti alla Sicilia sparsi nella D. C. ci mettono un’ultima volta in grado di giudicare delle molteplici, varie e precise cognizioni possedute dall’Alighieri; del resto tutti sanno quanto ai nostri giorni siasi studiato quest’altro aspetto della sua vasta dottrina, l’aspetto cioè scientifico, e quanto dalle recenti ricerche sia maggiormente in lui rifulso il geologo, l’astronomo, il fisico, il matematico, il geografo. [p. 22 modifica]

Limitandoci al nostro argomento54, vedasi con quanta esattezza egli determina la forma e la posizione del Mediterrano (Par. IX, 82 sgg.): tra i discordanti liti che chiudono questa maggior valle emerge dalle acque la Cicilia, la bella Trinacria, l’isola del foco, della quale abbiamo già trovati designati nella D. C. i due capi di Pachino e di Peloro. Quest’ultimo è nominato anche nel verso, in cui Dante vuol denotare la catena dell’Apennino (Purg. XIV, 32):

«l’alpestro monte, ond’è tronco Peloro»,
ove si ha un bel noto accenno alla tradizione55, non ismentita dalla geologia56, che un tempo la Sicilia fosse congiunta all’Italia, e che le Madonie (Nebrodes) fossero una continuazione dell’Apennino calabrese, dal quale si sarebbe staccato in forza di fenomeni tellurici il capo di Peloro o del Faro nell’estremità della Sicilia di fronte alla Calabria.

Un altro fenomeno assai noto dello stretto di Messina l’incontriamo nei versi (Inf. VII, 22):

«  Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa»;
qui il poeta spiega in modo naturale quel vortice pericoloso scritto dagli antichi poeti57, che si trova tra Scilla e Cariddi, e prodotto dalla cosidetta reuma, cioè dalle correnti sottomarine dell’Ionio e del Tirreno incontrantisi in quel punto58.
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L’ultima allusione dantesca — che è anche la più importante nella categoria geografico-scientifica riferentesi alla Sicilia — si riannoda al suo vulcano, il quale le meritò l’appellativo di isola del foco (Par. XIX, 131). Si è parlato a suo luogo di quanto nell’ordine dei ricordi mitologici ha nella D. C. attinenza col Mongibello; ora esso ci vien presentato nella sua realtà, spoglio affatto del meraviglioso e del leggendario di cui le fantasie lo avevano rivestito, in quei versi nei quali la Sicilia è indicata e precisata più che in altro luogo del divino poema, quasi degna preparazione al ricordo della memore sommossa dei Vespri (Par. VIII, 67-70):

«e la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra il golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo, ma per nascente solfo».

Orbene, toltine il Landino e il Vellutello, i quali senza alcun fondamento credettero che qui Dante alludesse al mare Adriatico ed al golfo di «Venezia che riceve maggior briga et impaccio dal vento orientale», tutti i commentatori antichi e moderni videro in questo passo designato senza alcun dubbio il golfo di Catania, che infatti si apre nella costa orientale della Sicilia, limitata al nord dal Peloro ed al sud dal Pachino, golfo dominato dallo scirocco o Euro ed al di sopra del quale la Trinacria caliga, cioè é offuscata dalla caligine e dal fumo sulfureo dell’Etna: questa è la spiegazione più ovvia e naturale del passo dantesco.

Non è quindi senza meraviglia che recentemente abbiamo [p. 24 modifica]letta una nuova ipotesi a spiegare codesto golfo, messa fuori dal Del Noce59, secondo la quale Dante non alluderebbe al golfo di Catania, bensì a quello Jonio o di Servio, quel mare cioè che da Creta si estende sino all’Italia, l’Jonius Sinus ricordato da Virgilio (Georg. II, 105-108), passo che l’Alighieri dovette aver presente. Noi non possiamo accettare questa spiegazione per parecchie ragioni: e prima di tutto nel passo dantesco è ben definita la scena nella quale la Trinacria caliga, il che avviene tra Pachino e Peloro, sulla sponda cioè orientale dell’isola; ma siccome l’indicazione era ancor troppo generica, il poeta, a meglio stabilire il luogo che viene ingombrato dalla caligine del vulcano, vi aggiunse l’altra particolarità sopra il golfo che riceve da Euro maggior briga. Ora questo golfo sul quale si spande il fumo sulfureo, e che con l’articolo determinativo segue immediatamente a mo’ di determinazione alla frase più importante e generica che caliga tra Pachino e Peloro60, deve di necessità appartenere ed aprirsi nel litorale limitato da codesti due capi. Infatti la riviera orientale della Sicilia, come si può anche constatare gettando uno sguardo fuggevole sulla carta geografica, dal Capo Molini al Capo S. Croce presenta un più sensibile e vasto rientramento a forma di semicerchio e tale da essersi meritato il nome di golfo; in fondo ad esso siede Catania, che poi gli diede l’appellativo (sinus catanensis o cataneus). Maggior conferma riceve inoltre dal fatto che appunto questo golfo è di frequente e più che da ogni altro vento flagellato dall’Euro61, il vento di sud-est, chiamato anche dai poeti Vulturnus.

Ciò assodato, che cioè il golfo agitato dall’Euro deve appartenere e grammaticalmente e logicamente alla Trinacria, anzi a [p. 25 modifica]quella parte di essa che caliga tra Pachino e Peloro, non possiamo a meno di ammirare, non solo la precisione, ma anche la grandiosità della scena dantesca, nella quale l’isola è denotata dal suo superbo vulcano, che sparge la sua caligine sopra il golfo sottostante, quel golfo sul quale di sovente Euro imperversa. Il voler togliere a questa spiaggia il golfo oscurato dai fumi dell’Etna, per estenderlo da Creta all’Italia, è un contraddire all’idea stessa del poeta, è un’amplificazione inopportuna che scema ogni bellezza e naturalezza alla dipintura.

In una sola cosa siamo però concordi noi tutti tormentatori spesse volte indiscreti del divino Alighieri, nel riconoscere cioè l’intùito mirabile del suo intelletto per le verità scientifiche, che a quei tempi erano ancora involte e inceppate nelle tradizioni del metodo e nelle superstizioni della scuola e della società. Fa meraviglia infatti il vedere in un poema, nel quale gli echi del mito antico e il simbolismo e il misticismo del mondo medievale han tanta parte, sfatate le credenze più comuni, anche se fonti per l’artista di motivi poetici, e ad esse sostituita la nuda realtà, il fatto stesso, il fenomeno sgombro di quanto la fantasia vi aveva ricamato dattorno. Il che è veramente nella recisa affermazione del motivo pel quale la Trinacria caliga: non è più il Tifeo della favola, che sepolto sotto l’Etna è causa del vulcanismo, ma questo per Dante dipende dalla natura sulfurea di quel terreno (Par. VIII, 67-70),

«non per Tifeo, ma per nascente solfo».

Ora chiediamo noi, dal tempo in cui fu emessa questa ipotesi sino ai nostri giorni, nei quali le scienze sono giunte a tanta altezza di procedimenti, qual passo innanzi ha fatto la vulcanologia?62

Un’ultima osservazione: il Can. Castorina63 presenta l’ipotesi che Dante abbia concepite le bolgie del suo Inferno dai terribili [p. 26 modifica]fenomeni dell’Etna. Siamo daccordo cogli altri dantisti nel riconoscere una cotale analogia, direi quasi casuale, fra certe località dell’Inferno del poeta fiorentino e quelle del vulcano siculo, ma che se ne possa inferire un metodo generale di derivazione non ci pare assolutamente ammissibile, perchè sia il concepimento originale della valle inferna, sia la sua struttura generale e particolare non ci porgono alcun elemento di somiglianza. L’ipotesi, a nostro parere, è basata sul fatto che anche uomini letterati fin sullo scorcio del secolo passato hanno creduto che l’Etna fosse la bocca dell’inferno e lo scrivevano con tutta la serietà di questo mondo64.

Così siamo giunti al termine delle reminiscenze che nella D. C. hanno relazione colla Sicilia: a questo punto riconosciamo noi stessi di aver demolito — se pure ci è riuscito — un discreto numero di opinioni lusinghiere tendenti a riavvicinare sempre più il poeta all’isola; ma se esse di fronte alla fredda ricerca non reggono, non per questo scema in noi l’ammirazione pel genio multiforme dell’Alighieri, «al quale — come scrisse il Giuliani65 — furono famigliari le Scienze, la Storia, le Favole e le opinioni diverse, gli accorgimenti dell’Arte, le tradizioni stesse del Volgo, e così d’altre cose, onde il sovrano Maestro s’aiutò ad esercitare nobilitando il civile ministero della Poesia». Chè anzi questo culto che l’isola del foco e dei Vespri tributa al gran padre Alighieri, e che al presente, sulle orme del maggiore di tutti, il Perez, è solo tenuto vivo da [p. 27 modifica]qualche studioso isolato e alquanto tepidamente dall’Accademia di Catania, la quale a Dante s’intitola, è una nuova affermazione di quei comuni ideali, che devono di conserto guidare per la via del morale e dell’intellettuale perfezionamento la Sicilia e il continente italiano.

Acireale, Settembre 1893.

Prof. Achille Mazzoleni

  1. Cfr. Bono Giamboni (Volgarizz. delle istorie di P. Orosio, IV. 6); Cronache Malespiniane, cap. CVII, CCXL e altr.; Boccaccio (Decam. II, 6; VIII, 10) e Sacchetti (Nov. 2, 73); era la forma volgare accanto all’altra Sicilia, usata dagli scrittori greci e latini, come vedesi nel titolo del così detto «romanzo» attribuito a Bosone di Gubbio, Fortunatus Siculus, ossia Avventuroso Ciciliano (Firenze, 1832); importante è al proposito quel che si legge in G. Villani, I, 8: «Fu prima l’isola chiamata Sicania e per la varietà degli abitanti é oggi da loro chiamata Sicilia e dai Taliani Cicilia». Dante usa pure la forma latina Sicilia e ne divisa la posizione geografica: «nec Insulæ Tyrreni maris, videlicet Sicilia et Sardinia, non nisi dextræ Italiæ sunt, vel ad dextram Italiæ sociandæ» (Vulg. el., I, 10, cfr. ivi, 8); altrove la dice costituente parte dei confini meridionali dell’Europa (Conv. IV, 28; Vulg. el. I, 12; Ecl., II, 27).
  2. Cfr. Dante, Purg. XIV, 32 ed Ecl. II, 46, 59 e 73 dove al v. 71 è nominato anche il terzo capo, il Lilibeo o Boeo verso l’Africa, che assieme agli altri due hanno dato origine alla voce greca Trinacria; cfr. Virgilio, En. III, 384, 582; Ovidio, Met. V, 476. Lionardo Vigo nel suo scritto, di cui si dirà più innanzi «Dante e la Sicilia» adduce, per avere usato l’Alighieri in questo passo la voce Trinacria a preferenza di altre, una ragione storica un po’ troppo sottile, che cioè, alludendo qui Carlo Martello alla stirpe Aragonese, succeduta dopo i Vespri alla propria nel reggimento della Sicilia, e più precisamente a Federico II (1296-1337), il poeta abbia avuta la mente all’appellativo di re di Trinacria, imposto da Bonifazio VIII a Federico, che doveva sua vita durante garder l’isle, cfr. Par. XIX, 131, (vedi Riv. Sicula, vol. III, fasc. III, marzo 1870, pag. 329 sg.).
  3. Ne avea trattato, incompletamente per ciò che riguarda le tradizioni mitiche, ed in modo diffuso per ciò che riguarda la storia, ne’ suoi Ricordi «Dante e la Sicilia» Lionardo Vigo, studio inserito in Rivista sicula di scienze, lettere ed arti di Palermo, vol. II, 1869, pp. 493-515 e vol. III, 1870, pp. 51-72, 314-334, e molto superficialmente, come avremo più volte a notare, il Can. Pasquale Castorina, Catania e Dante Alighieri (Catania, Pastore, 1883; vedine recens. in Fanfulla della Dom., a. VI, 1884, n. 8).
  4. Metam. V. 572-671; Ex Ponto, II, 10, 27, sg.; cfr. Virg., En. III, 694 sgg. La favola è ricordata anche in Fazio degli Uberti, Dittam., III, XIII, 54 sgg., e di certo ha porto al Boccaccio il motivo principale pel Ninfale fiesolano. Alcuni versi più sopra Dante (Inf. XXV, 94 sg.) aveva pure fatto menzione di Lucano e di un fatto narrato nella Farsalia (IX. 734 sgg.).
  5. Il Venturi avverte che Encelado fu il gigante sepolto sotto l’Etna e non Tifeo, il quale invece, secondo la tradizione, rimase oppresso dall’isola Iuarime (Ischia); ma avvertasi che Tifeo fu posto in relazione coll’Etna appunto dai poeti, a cui attingeva l’Alighieri; vedi infatti Ovidio, Met. V, 354; Eroid. XV, 11; Virgilio, En., III, 570 sgg. (cfr. Claudiano, Bell. got., 68 sgg.). Anche il Testi, come tutti ricorderanno, nella sua Ode al Montecuccoli, segue questa versione di Tifeo, il quale
    «  .    .    .    .    .   sott’Etna còlto,
    Prima che morto, ivi riman sepolto».

    Da Ovidio (Met. III, 303) e da Claudiano (ivi) Tifeo è erroneamente chiamato centimane e identificato con Briareo.

  6. Avvertasi che accanto alla forma Thyphoeus (Ovidio, Met. III, 303) v’era pur l’altra di Tiphon (Lucano, Fars. IV, 595 e Claudiano, De rapt. Pros. II, 22). Quanto alla relazione di Tifeo e dei giganti coi fenomeni vulcanici vedasi il Tommaseo citato dal Poletto (Dizion. Dantesco, Siena, tip. S. Bernardino, 1885-87, alla voce Tifèo) ed A. Holm, Geschichte Siciliens in Alterthum, I Band, pag. 50.
  7. XII, 28-33; cfr. Inf. XIV, 58 e XXXI, 119-121 con Ovidio, Met. X, 150 sg. e Stazio, Teb. II, 597 sg.
  8. In questo passo l’Etna è chiamato con voce medioevale d’origine araba Mongibello (gebel, monte); per la favola vedi Virgilio, Georg. IV, 170 sgg., Ovidio, Met. I, 259 e Fast. IV, 473, e cfr. Dante, Conv. II, 5 ed Ecl. II, 75 sgg., dove se per Peloro, come osservò il Dionisi, s’intende Ravenna, e per l’Etna Bologna, per Polifemo s’intende Roberto re di Napoli, che in Bologna, come vicario del papa, esercitava autorità. Pei Ciclopi vedi anche Dante, Ecl. II, 27, 47, dove al v. 78 è menzionata la ninfa Galatea, la cui favola degli amori col pastore Aci si riconnette pure coll’Etna e con Polifemo, e quindi con la spiaggia orientale della Sicilia, della quale son ricordati gli Ætnica saxa, che si vogliono riconoscere negli Scogli dei Ciclopi presso Aci Castello (Stazio, Sylv. V, 49r: «audacia saxa Pyramidum»), cfr. Achille Mazzoleni, La leggenda di Aci e Galatea (conferenza tenuta all’Accad. degli Zelanti di Acireale; vedine il sunto negli Atti e rendiconti dell’Accad., Acireale, Micale, 1893, pp. 228-233).
  9. Vedi Ovidio, Met. V. 391 sgg., 552 sgg. e Claudiano De raptu Pros. II, 72 sgg.; cfr. sull’argomento Parini, Il Mattino, v. 73 sgg. ed il bel sonetto del Cassiani «Diè un alto strido, gittò i fiori, e vòlta». Dante nella madre di Proserpina allude a Cerere, la dea delle biade (cfr, Conv. II, 5), la quale punì di fame insaziabile l’empia Erisitone (Purg., XXIII, 26; cfr. Ovidio, Met. VIII, 741 sgg.). Intorno alle medaglie rappresentanti Cerere e sul mito di Proserpina nella massimane Etnea vedi Pietro Carrera, Memor. histor. di Catania (ivi, 1639), vol. I, lib. III, cap. XIX. Per la leggenda di Proserpina rapita e condotta nell’Etna vedi Cardano, De rerum varietalis, lib. I, cap. I.
  10. Inf. IX, 54; cfr. Virgilio, En. VI, 392 sgg., e Stazio, Teb. VIII, 55 sgg.
  11. Vedi L. Vigo, Dante e la Sicilia, in Riv. Sicula cit., vol. II, p. 497 sg., vol. III, p. 318 e Michele Calì, La Sicilia nei canti di L. Vigo, Acireale, Donzuso, 1881, vol. I, pp. 181-188; per Enna vedi Claudiano (loc. cit.) e Lucano, Fars. VI, 740.
  12. Recentemente invece S. Butler, The Topography of the Odyssey (in The Athenæum, febbr. 1892 e On the Trapanese origin of the Odyssey, Cambridge, 1893, pag. 12), tentando una nuova topografia dei luoghi descritti da Omero nell’Odissea, vuol riconoscere il paese di Circe e delle Sirene nelle isole Lipari (Od. XII, 39-54; 158-200); Dante, che non lesse Omero, potè bene ammettere (Purg. XIX, 19 sgg.) che Circe fosse una Sirena, come dice il Lana.
  13. Purg. XIX, 19 sgg., 58; XXXI, 34 (cfr. Epist. V, 4). «Serene furono tre», dice Brunetto Latini (Tesoro, IV, 7); quanto al paese delle Sirene ed alla loro effigie sopra medaglie di Catana vedasi il cit. Carrera, ivi, vol. I, pp. 194 sg., 243, 326 e 330 sgg. e cfr. G. Pitrè, Usi e costumi, etc, vol. IV, pp. 194-199 (in Bibl. delle tradiz. pop. Siciliane, vol. XVII); dell’argomento si tocca anche in Archiv. per lo studio delle tradiz. pop., vol. IV, pp. 325-60, in Castner, Les Sirènes, Paris, 1859, in El Elvense, a. 1885, n. 461, ed in Basset, Legends and Superstitions of the sea and of Sailors, Chicago, 1885.
  14. Nel libro «Catania e D. A.» di P. Castorina, pag. 3 e nota 2: Catania la vera fenice. La descrizione dantesca, per tacere di Pomponio, Tacito, Plinio, Solino e Claudiano, pare imitata da Ovidio (Met. XV, 392 sgg.); cfr. Brunetto Latini, Tesoro, VI, 26; rimatori italiani in D’Anc. I, 115, 510, 516 e Val. I, 137, 290, 297; II, 24, 210, 510.
  15. Ovidio, Met. XIII, 721 sgg. e XIV, 177 sgg.; Virgilio, En. III, 613 sgg. e Stazio, Teb. VI, 717 sgg. La terra dei Ciclopi fino ai nostri giorni venne riconosciuta ai piedi dell’Etna, dove vicino ad Aci Castello certi scogli si chiamano ancora dal nome dei Ciclopi stessi, come si è già detto; ora però il cit. Butler (On the Trapanese origin of the Odyssey, p. 3 sgg.) nella sua nuova topografia dei viaggi di Ulisse vorrebbe che codesta terra corrispondesse a Monte Erice (S. Giuliano).
  16. Questa importante navigazione di Ulisse quale si legge nella D. C. fu oggetto di molti studii, tra i quali segnaliamo, G. Baratta, Illustraz. dell’episodio di Ulisse e Diomede (in Giorn. del centenario, 1864. n. 14, pp. 111-113); A. Cavalieri, Illustraz. dell’episodio di Ulisse e Diomede (ivi, 1864-65, n. 20, 29, 42, 45; pp. 160, 229, 336 e 362); G. Della Valle, Della navigaz. di Ulisse e della montagna da lui veduta (in Il senso geogr.-astron. dei luoghi della D. C. esaminato nelle note dei commentatori fino ai nostri giorni, Faenza, 1869, pp. 16-20, e Supplemento, ivi, 1870, pp. 28-34); G. Grion, Perchè Dante abbia fatto un sì lungo racconto di un viaggio fantastico (in Propugnatore, a. III, parte 1, p. 67 sgg.); R. Fornaciari, Ulisse nella D. C. (lettura all’Acc. della Crusca, 27 nov. 1881, stampata in Studii su Dante ed. e ined.., Milano, 1883, studio 4.) e A. Saffi, Ulisse e Diomede (conferenza tenuta in Genova, giugno 1882, stampata in Giornale d. Società di letture e conversaz. scientifiche di Genova, fasc. VII-VIII, luglio-ag. 1882).
  17. Vedi Dante, Conv. IV, 26, ove anche si tocca dei giuochi celebrativi e dell’anniversario tenutuvi della morte del padre suo; cfr. Virgilio, En. III, fine; V, 75 e 604 sgg.
  18. Cfr. Ovidio, Met. V, 155 sgg.; XIV, 161 sgg. e 417; Dante ne fa però menzione nell’Ecl. II, 82, usando la forma Acmenides in luogo del virgiliano Achaemenides (vedi Onom. del De-Vit a questa voce).
  19. Dizion. dantesco, alla voce Favola. — Intorno alla mitologia di Dante vedansi, Pier Alessandro Paravia, Del sistema mitologico di Dante, Venezia 1840 (estr. dagli Atti dell’Ateneo Veneto, vol. III, pp. 149-163); N. L. Del soprannaturale dantesco (in Commento mitologico alla D. C. scritto per il Giorn. del centenario, 1864, n. 13) e Adolfo Bartoli, Storia della letter. ital., Firenze, Sansoni, 1887, vol. VI, parte I, cap. IV.
  20. Inf. XXVII, 7 sgg.; cfr. Ovidio, Trist. III, 11, 41-54 e Ars amat., I, 955; cfr. E. Di Blasi, Storia del Regno di Sicilia, Palermo, 1859, vol. I, p. 85 sg.
  21. Fra le tante ricerche in argomento e del Tommaseo, e dell’Ortolan, e del Zoppi, e del Carrara, e del Franciosi, e del Tassis, e dello Scartazzini, e del Lessona, e del Graf, e del Bartoli, e dello Scherillo, e del Ferrieri, ricordo lo studio del mio compianto Prof. Pietro Merlo, Sulla euritmia delle colpe nell’Inf. dantesco (in vol. II de’ suoi Saggi glottol. e letterar., Milano, Hoepli, 1890).
  22. Vedasi Valerio Massimo, I. 1; IV. 7; IX. 17 e Cicerone, Tuscul. V, 21, 22; fra i moderni il De Blasi, Op, cit. I, 188 sgg. e le Lettere sulla Sicilia di D. Sestini (Firenze, Cambiagi, 1784).
  23. Il Blanc invece crede che qui probabilmente si accenni a Dionisio il giovine, e ancor più stranamente Brunone Bianchi all’uno e all’altro dei due Dionisii.
  24. Vedi Gaspare Floritta, Discorso sulla morte di Archimede (in Atti dell’Accad. Dante Alighieri di Catania, a. XI-XII, vol. VIII, pp. 165-186, Catania, Zammataro, 1893).
  25. Svetonio, Cæs., cap. XXIX.
  26. Tra gli antichi vedi il Postill. del Cod. Caet., tra i moderni il Blanc, il Poletto ed il Casini.
  27. Vedi G. De Giovanni, Acta sincera Sanctæ Luciæ, Panormi, 1758; cfr. D. G. Lancia di Brolo, Storia della Chiesa in Sicilia, Palermo, Lao, 1880, vol. I, pp. 159-166. — Le opinioni sopra il significato allegorico di Lucia nella D. C. sono molte e disparate, basti il ricordare quelle del Lubin, del Bennassuti, del Pasquini, del Barbiani, del Grion, del Galanti, del Fornaciari, dell’Eroli e del Vannucchi.
  28. Dante lo ricorda pure come liberatore dell’Italia meridionale dai Saraceni, che dovettero sgombrare da Benevento e Salerno (Inf. XXVIII, 13 sg.). I fatti di Roberto furono cantati in un poema latino da Guglielmo di Puglia, suo contemporaneo (Gesta Roberti Wiscardi, in Mur., Rer. ital. script., vol. V).
  29. Cfr. Par. IV, 98; essa però, nata nel 1154, contrasse quelle nozze nel 1186, in età quindi di 32 anni; nel 1189, alla morte di Guglielmo II il buono, ereditó e trasferì nel marito i diritti sopra il regno di Sicilia. — La versione più comune della leggenda diffusa intorno a Costanza dagli storici guelfi a discredito della casa sveva, trovasi in G. Villani, V, 16. Sull’argomento vedi la nota storica di P. A. Curti, Costanza Imperatrice (in Istorie italiane del sec. XIII narrate colla scorta della D. C., Milano, 1854), e la nota 2. a pag. 319, vol. II. del cit. Dizion. dantesco di G. Poletto.
  30. Carlo II d’Angiò e Federico II d’Aragona, alludendo al buon governo di Guglielmo, la cui morte lasciò dolenti i popoli di Puglia e di Sicilia, come attesta il pianto conservato da Riccardo da S. Germano (Pertz, Monum. germ., Script. XIX, 324); un bell’elogio di questo principe saggio ha lasciato l’Ottimo (cfr. Poletto, Diz. dantesco, alla voce Guglielmo re di Sicilia), e gli storici in ciò si accordano; vedi F. Testa, De vita et rebus gestis Guilelmi II Siciliæ regis, Monreale, 1769, La Lumia, Storia della Sicilia sotto Guglielmo II il buono, Firenze, 1867 e G. B. de Lagréze, Les Normands dans les deux mondes, Paris, 1890, chap. XI.
  31. Il Vigo (Op. cit., in Riv. sicula, vol. II, p. 500) con poca precisione le pone in bocca addirittura a Guglielmo.
  32. Mi accosto al Blanc, che trova acconciamente paragonati i principi di casa Sveva ad un vento impetuoso a motivo della loro potenza impetuosa e passeggiera (cfr. la chiosa di Pietro di Dante a questo luogo); ultima possanza poi perchè si elevò sopra tutti i suoi successori, e Ridolfo, e Adolfo, e Alberto, (cfr. Conv. IV, 3).
  33. Lo chiamò chierico grande, buon logico e dotto (Conv. IV, 10); lo lodò come principe umano e di nobili spiriti, protettore dei buoni studî e della nascente lingua volgare (Vulg. el. I, 12); cfr. Ricordano Malespini, cap. CVII e Novellino, XXI.
  34. Vedi infatti la chiosa di Benvenuto da Imola a questo passo. — Intorno alla sua lotta colla curia romana iniziata colla Legazia di Sicilia e intorno a lui come monarca e filosofo discorse il Vigo (Op. cit., in Riv. sicula, vol. II, pp. 502-507; cfr. M. Calì, La Sicilia nei canti di L. Vigo vol. II, pp. 99-107, Acireale, Donzuso, 1885). — Oltre l’errore commesso da Federico coll’incarcerazione di Pier della Vigna, Dante rammenta (Inf. XXIII, 66) il supplizio delle cappe plumbee, a cui condannava i rei di lesa maestà (vedi Poletto, Diz. dantesco, vol. II, p. 320 e note.)
  35. Dante ricorda ancora l’abbandono in cui lo lasciarono i baroni pugliesi (Inf. XXVIII, 16), lo loda per le doti di cui era ornato (Vulg. el. I, 12), e dice della sorte toccata alle sue spoglie (Purg. III, 127 sgg.); vedi G. Di Cesare, Storia di Manfredi re di Sicilia e di Puglia, Napoli, 1837; C. Galanti, in Lettere 1 e 14 della serie 2. (Ripatransone, 1882-84); T. Tenneroni, in Sommi pontefici della Campania Romana, Roma, 1888, p. 216, in L. Marti, Manfredi nella D. C., Lecco, 1889 e in Alighieri, 1889, I, 231-239 (cfr. C. Negroni, ivi, 1889, fasc. IV). — Il Vigo (Op. cit., in Riv. sicula, II, 511 sgg.) spende più pagine a mostrare l’influsso civilizzatore della casa Sveva.
  36. Vedi Carlo Merkel, L’opinione dei contemporanei sull’impresa italiana di Carlo I d’Angiò, Roma, 1889 (estr. dalle Memorie dell’Accad. dei Lincei, S. IV, vol. IV, 6. 1.)
  37. Pel mal governo degli Angioini sopra il mezzogiorno d’Italia, vedi Purgat. XX, 80; Par. VIII, 76 sgg. e XIX, 127 sgg.; cfr. M. Amari, La guerra del vespro sicil., Milano, 1886, vol. I, pp. 107 sgg.; Riccio Minieri, Della dominazione angioina nel reame di Sicilia, Napoli, 1876; lo stesso, Il Regno di Carlo I d’Angiò, Firenze, 1875-81 e L. Cadier, Essai sur l’administrations du royamme de Sicile sous Charles I et II d’Anjou, Paris, 1891.
  38. G. Villani, VII, 103; cfr. l’opera cit. dell’Amari, vol. II, pp. 156-9.
  39. A proposito di questo principe e del suo zio Giacomo re di Maiorca, Dante dice che essi hanno vituperate le loro due corone (delle isole Baleari e d’Aragona) e tanto egregia nazione (Par. XIX, 137 sg.). Il Vigo (Op. cit., in Riv. sicula, vol. III, p. 62), sempre nell’intento di applicare alla sua Sicilia le allusioni dantesche, vede in quell’egregia nazione la nazione Siciliana; ma qui è piuttosto accennata la gloriosa famiglia, a cui appartenevano codesti due tristi re, conforme al significato di stirpe frequente negli antichi (cfr. Inf. I, 105; D. Compagni, III, 22 e M. Villani, III, 60).
  40. G. Todeschini, Di Carlo Martello, re titolare di Ungheria e della corrispondenza fra questo principe e D. A. (in Scritti su Dante, Vicenza, 1881, vol. I, pp. 171-210); M. Schipa, Carlo Martello (in Archiv. stor. napol., a. 1889, vol. XIV, pp. 17-33, 204-64, e I. Del Lungo, Dino Compagni, II, 408-504.
  41. Vedi la nota a questo passo nella D. C. comm. dal Casini, e cfr. C. Cipolla, Sigieri nella D. C. (in Giorn. stor. d. letter. ital., vol. VIII, pp. 61-66).
  42. Dante (Vulg. el., II, 6) adombra Carlo di Valois sotto il nome di Totila, là dove accenna alla sua vana impresa della Sicilia; intorno alla quale vedi N. Palmeri, Somma della Storia di Sicilia, Palermo, Meli, 1856, cap. 25.
  43. Vedi Purg. VII, 117; Par. XIX, 130-135; XX, 63; Vulg. el. 12 e Conv. IV, 6.
  44. Dante e la Sicilia (in Riv. sicula, vol. III, pp. 70-72, 314-334); in questa ricerca l’aveva preceduto Mario Musumeci (Ragionamento intorno alle sfavorevoli espressioni di Dante per Federico II re di Sicilia, Catania, Galatola, 1864), contraddicendo a Silvestro Centofanti (Se D. A. dedicasse a Federico III re di Sicilia la Cantica del Paradiso, in Antologia, a. 1832, voll. 45 e 46, n. 134 e 136). Il Can. P. Castorina (Catania e D. A., pp. 18 sg. e n. 45) a proposito di un articolo della Rassegna nazion., 1, apr. 1883, ripiglia in maniera debole e vana le idee del Vigo e del Musumeci.
  45. Vita di Dante, cap. VII; né da lui si discosta gran fatto il Bianchi. Veggansi le opinioni in proposito del Di Giovanni e dell’Amari, in Ferrazzi (Manuale dant., V, 382-3).
  46. Storia della lett. ital., pag. 194 sgg. e nota 4 a pag. 195.
  47. G. Grion (in Giorn. stor. della lett. ital., vol. III, fasc. 7, p. 64) mette innanzi l’ipotesi che l’ironia di questa espressione sia riposta nel doppio significato dell’antico vocabolo aunor (onore e onta).
  48. G. Poletto, Dizion. dantesco, alla voce Aragona; cfr. Casini, Comm. al Purg. III, 116.
  49. Del Veltro allegorico di Dante, Firenze, 1826, p. 144.
  50. Il Vigo non dubita che l’Alighieri abbia viaggiato per mare dal Faro a Catania, e che ivi sia sbarcato dirigendosi a Castrogiovanni (in Riv. sicula, vol. III, p. 318); il Can. Castorina invece (Catania e D. A., p. 17 e nota 40) crede che D. potè vedere, se non visitare, Catania, dal golfo omonimo, non ostante le false affermazioni in contrario ricevute dal Giuliani e dal Fornaciari. Nelle lettere direttegli dai due egregi dantisti e da lui pubblicate (ivi) é contenuta la miglior confutazione che si possa mai fare di cotesto viaggio all’isola del foco.
  51. Per lo scambio in parecchi codici del De Mon. (I, 16) della voce greca epiekiam con Empedocle, vedi Poletto, Dizion. dant., al vocabolo Epicheia.
  52. Dante porta qui tale giudizio avendo il pensiero a tutta l’arte del Notaro, che fu di pretta imitazione trovadorica (Val. I, 249-319; cfr. L. Biadene, Morfologia del Sonetto nei secc. XIII-XIV, Roma, Loescher, 1888, p. 213); però nel De vulg. el., I, 12 ricorda una sua canzone elogiandone la lingua.
  53. Dante (De vulg. el. I, 12) loda il volgare illustre dei poeti Siciliani perché migliore degli altri volgari d’Italia, ma non lo crede degno di essere tentato quale lingua della nazione; non è bello però quello usato dalla plebe, ad esempio del quale ricorda il Contrasto di Ciullo. Tra i poeti illustri (Ecl., II, 31), oltre Federico, il suo figlio Manfredi e Pier della Vigna, menziona Guido delle Colonne (De vulg. el., II, 5), di cui riporta il primo verso della canzone «Amor, che longiamente m’hai menato» (D’Anc. CCCV) e l’altra «Ancor che l’aigua per lo foco lasse» (Val. I, 185). Vedi intorno a questi poeti ed al volgare siciliano, ma con concetti ora quasi del tutto smessi, in Vigo (Op. cit., in Riv. sicula, vol. II, p. 515; III. 51-55, 317-19); del volgare siciliano rispetto ad alcuni luoghi della D. C. scrissero parecchi (cfr. Ferrazzi, Man. dant. V, 285 sg.).
  54. Di esso si occuparono J. A. Ampère, Il viaggio in Italia di Teodoro Hell sulle orme di Dante, vers., Venezia, 1841; A. Covino, Descrizione geografica dell’Italia ad illustrazione della D. C., con una carta speciale. Asti, 1865; C. Cantù, L’Europa nel secolo di Dante (in Dante e il suo secolo, Firenze, 1865, vol. I, pp. 1-20); C. Loria, L’Italia nella D. C., Firenze, 1872, e Teresa Gambinossi, I luoghi d’Italia rammentati nella D. C., con pref. di R. Fornaciari, Firenze, 1893, fig.
  55. Cfr. Ecl. II, 46 e 73; Virgilio, En. III, 414-419 e Lucano, Fars. II, 437 sg.
  56. Cfr. Antonio Stoppani, Corso di Geologia, Milano, 1874. vol. III, pp. 308-309; il fatto geologico si vorrebbe riconoscere anche nella etimologia, a dir vero cervellotica, di Reggio di Calabria, secondo la quale deriverebbe dal verbo ῥήγνυμι, rompere.
  57. Omero, Od. XII, 104 sgg.; Virgilio, En. III, 420 e Ovidio, Met. VII, 63.
  58. «Il fenomeno — nota a proposito il Vigo, in Riv. sicula, II, 495, nota 4 — dei Fili reflui e vortici apparenti del Bosforo zancleo, è stato descritto e spiegato da Scinà, ed è causato dalle correnti sottomarine, e non già dai venti come si legge ne’ chiosatori moderni, poichè i vortici si veggono anche nella perfetta calma e i fili reflui corrono spesso contro vento». L. Filomusi-Guelfi (in Bibl. delle scuole ital., 1 maggio, 1890, pp. 134 sg.) vuol spiegare la voce caribo come derivante da χάρυβδις vortice, donde il lat. Charybdis e l’ital. Cariddi applicato allo scoglio dirimpetto a Scilla. — Il Vigo, da queste due notissime particolarità dello stretto di Messina, si è già detto che ne trae argomento per sostenere che Dante abbia visitata la Sicilia (Riv. sicula, III, 318).
  59. Nel primo dei Due studii danteschi, Firenze, Loescher, 1892.
  60. Che la frase sopra il golfo che riceve da Euro maggior briga sia un’aggiunta a mo’ d’interciso meglio determinante rilevasi dal v. 70, nel quale è continuato, anzi spiegato, il senso del caligare, lasciato come in sospeso nel v. 67.
  61. Vedi Vigo (in Riv. sicula, II, 496) e A. Stoppani, Il sentimento della Natura nella D. C., Milano, 1881, p. 31; cfr. A. Tassoni, Dieci libri di pensieri diversi, Venetia, 1627, p. 146 sgg.
  62. Vedi Longo Agatino, Delle accensioni vulcaniche e della ipotesi del calore centrale della terra, Catania, Galàtola, 1862 ed A. Issel, Saggio di una teoria dei vulcani (in N. Antol., genn. 1875, vol. XXVIII, pag. 58).
  63. Catania e D. A., p. 8 e note 40 e 43.
  64. P. Gaetano, Sicul. in animadv., e Isag., cap. 2; Cimarelli, Risol. filol., cap. II; Massa, Sicilia in prospettiva, P. I, cap. XVI; Cesario, Dist. XII, cap. 13; N. Speciale, Hist., I, VIII, cap. 2 (ap. Muratori, Script., t. X, col. 1079) e Mongitore, Sicil. ricerc., vol. II, pag. 291 (cfr. A. Graf, Appunti per la Storia del Ciclo Brettone, in Giorn. stor. d. lett. ital., vol. V, pp. 94 sg. riferiti anche in Miti leggende e superstizioni nel M. E., Torino, Loescher, 1893, vol. II, 316 sg. e note). — Del resto è ancor oggi popolare presso i villici più credenzoni dei dintorni dall’Etna, specialmente nelle donne, la convinzione che l’eruzione avvenga per opera di demonî obbedienti al volere divino.
  65. Comm. al cap. XXVIII del tratt. IV del Conv.