La Regaldina/II
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II.
Al cader delle foglie il giovane tisico morì. Egli era il maggiore dei tre fratelli Regaldi — l’onore e la speranza della famiglia — come diceva la cugina. Speranza svanita e onore postumo.
I due fratelli che rimanevano, ragazzacci senza giudizio, formavano la disperazione quotidiana della vecchia Tatta.
Era costei una zia piovuta da un lontano paese all’epoca della morte del padre Regaldi; una zitellona burbera, ma generosa, che aveva spontaneamente abbandonate le abitudini di mezzo secolo, le amiche, la casetta tranquilla e raccolta, per venire nel turbine di quella famiglia sbandata a prendere le redini di un potere, che non era mai esistito, perchè in casa Regaldi si faceva repubblica tutto l’anno.
Il nomignolo di Tatta, inventato da Piero, aveva cancellato la memoria del suo nome; non solo i nipoti, tutto il paese la chiamava così — e così la chiamava Daria, un’orfanella, una cugina, che il padre Regaldi aveva accolto sotto il suo tetto e allevata insieme ai propri figli.
Al contrario di quello che accade per solito ai parenti poveri, Daria esercitava una specie di potere morale su tutta la famiglia. Era amata e temuta; e questo duplice sentimento ella lo ispirava col suo ingegno e col suo cuore — era inoltre un carattere forte. Il tisico, che nutriva per lei una specie di venerazione, l’aveva rammentata con dolore nei suoi ultimi momenti, lasciandola sola fra due ragazzi che non potevano comprenderla e una vecchia zitella piena di pregiudizi, che soffocava le bontà dell’animo sotto una scorza aspra e volgare.
Tuttavia fra Daria e la Tatta correvano buoni rapporti ed anche una certa simpatia latente, fondata sulla schiettezza di entrambe.
Quando avevano qualche osservazione da farsi la dicevano francamente, senza reticenze, curando poco se la frase fosse troppo viva o la parola poco accademica. Forse Daria non sarebbe stata aspra, ma lo era diventata un pochino nei continui rapporti colla zia; e però questa donna, che ad onta de’ suoi difetti, anzi per i suoi difetti, era una vigorosa individualità, contribuiva ad aumentare nel cuore ardente della fanciulla una singolare fermezza di propositi, una indipendenza di giudizi quasi virile.
Cresciuta senza madre, ella aveva incominciato presto ad approfittare dalla scuola della vita; aveva imparato sopra tutto a bastare a sè stessa, da donna che intuisce la verità delle cose. Si proponeva di andare sempre diritto, sempre avanti; non si sentiva nè timida, nè incerta, nè paurosa. Bramava la felicità, ma avrebbe accettata anche la sventura risolutamente; aveva la fibra dei lottatori.
La morte del fratello maggiore lasciò un gran vuoto e una grande tristezza nella famiglia. La vecchia Tatta crollava il capo guardando quegli altri due vagabondi, e Daria taceva e pensava.
Rodolfo, che ora aveva quasi venti anni, passava la giornata nei campi, rozzo, inaccessibile a qualunque sensazione, che non fosse puramente materiale. Era un pezzo di giovinotto tarchiato, volgarmente bello, gran frequentatore di osterie e celebre in tutti i cascinali del circondario.
Pierino, che toccava appena i quindici anni, stava in mezzo per il carattere al sentimentalismo del defunto primogenito e alla brutalità del secondo; molto astuto, gesuita nato, non si spiegava mai interamente — era la bestia nera della Tatta, che faceva su di lui i più orribili pronostici.
Nessun filo visibile legava insieme questi quattro membri di casa Regaldi; essi vivevano in una vita autonoma; riuniti solo e apparentemente, dal quotidiano desinare, a cui la Tatta presiedeva arcigna, lasciando i bocconi migliori ai suoi nipoti, ma lagnandosi che mangiassero a ufo, rodendo il patrimonio.
La famiglia era stata ricca, una volta; vestigia dell’antico splendore si trovavano ancora in certi mobili intagliati a fregi di metallo di squisito lavoro; in cornici pesanti arabescate, che cingevano i ritratti a olio degli antenati o le vecchie specchiere col fondo di mercurio giuntate nel mezzo. Ma via via che i bei mobili artistici deperivano, venivano sostituiti con roba moderna, a buon mercato — e così accanto a uno stipo del seicento, tutto intarsi e arabeschi, si rizzava contro il muro un meschino divanuccio di legno d’abete coperto di filugello bigio; accanto a quel divano la sedia ascetica della Tatta, di legno e di paglia, accoglieva per una singolare concessione fatta a Daria un guancialino ricamato a punto in croce, con due bei conigli bianchi nel mezzo e tutto intorno delle ciliegie rosse scarlatte. Daria aveva scoperto in fondo ad un vecchio armadio questo lavoro di fantasia di qualche bisavola e ne aveva voluto ornare ad ogni costo la sedia della buona donna; tuttavia chi ne usava maggiormente era Quattrina, la giovane gatta, che Rodolfo aveva introdotto in casa per forza — altro bersaglio ai brontolii della Tatta, che non la vedeva di buon occhio in causa delle sue scappate notturne. — «Una svergognata che va a trovare gli amanti!» — ringhiava la zitellona forte de’ suoi sessant’anni di virtù; e siccome aveva tanto buon cuore quanta ruvidezza, era sempre lei la prima a prepararle la zuppa.
Uno strano carattere questa vecchia. Lei si spogliava per vestire i poveri, ma i rabbuffi accompagnavano l’elemosina; ai suoi nipoti, per i quali si sacrificava, non aveva mai dato un bacio.
Nemica giurata del convenzionalismo, del sentimentalismo, escludeva la grazia in omaggio alla forza e le dimostrazioni d’affetto per aborrimento dell’ipocrisia. Era profondamente virtuosa, ma ardita negli atti e nelle parole; sdegnava il pudore come sdegnava la gentilezza. Non aveva mai saputo che cosa fossero languori, palpiti, delirii, sogni; aveva passata la vita lavorando e combattendo. Parlava delle donne che cadono, come si parla generalmente degli antropofaghi — con un senso di stupore, di ribrezzo e nello stesso tempo di incredulità.
Da giovane le era capitato una volta di prendere marito; l’aspirante non le dispiaceva perchè franco ed onesto; ci pensò lungamente e poi finì col dire di no: per quella sciocchezza lì non valeva la pena di perdere la propria libertà.
Dei sette peccati capitali ne aveva uno solo — l’ira — era furiosissima. Su questi due cardini del bene e del male, la beneficenza e la collera, ella sfogava tutto il fuoco di un organismo vulcanico.
Credeva di essere religiosa e non lo era punto — non lo era in causa del suo carattere diametralmente opposto al tipo delle virtù cristiane. Andava in chiesa regolarmente, senza dimenticare i torti e non perdonando punto le offese; recitava l’atto di umiltà mulinando un’orgogliosa risposta per confondere la boria di qualcuno; giurava di credere ciecamente nell’infallibilità della chiesa e poi attaccava brighe col confessore sopra un punto della fede.
Troppo violenta, troppo impressionabile e schietta per essere una buona educatrice, reggeva con mano convulsa il suo scettro di padrona di casa. Rodolfo e Pierino alzavano le spalle alle sue sfuriate. Daria taceva; e questi silenzi si prolungavano per delle ore nel salottino terreno, accanto alla sedia di paglia e al guancialino dei conigli, che l’irosa vecchia scagliava sotto al tavolo.
Al disopra degli occhiali, che cadevano spesso dal suo naso diritto, gli occhi della Tatta nerissimi e lampeggianti, accompagnavano con occhiate terribili la concitata parola. Resa un po’ curva dagli anni, si rizzava nei momenti di collera, e la scarna persona dalla pelle olivastra prendeva ancora delle pose di sfida.
Così Daria si avvezzava alle battaglie, così la sua candida tenerezza di fanciulla andava d’anno in anno vestendosi di una corazza più salda. La Tatta non lo avrebbe detto mai, nemmeno a metterla alla tortura, ma essa amava Daria come una sua figliuola; in lei sola vedeva la speranza della famiglia Regaldi.
In un piovoso dopo pranzo d’aprile — erano già quattro anni da che suo cugino era morto — Daria stava seduta sul divano bigio ascoltando le storie, che la Tutta raccontava, del suo paese; poichè Pomponesco, il suo paese, lo teneva sempre fitto nel cuore, e non succedeva niente intorno a lei, cui non trovasse riscontro in Pomponesco. Questo paese i suoi nipoti non lo avevano mai visto, ma potevano vantarsi di conoscerlo perfettamente — casa per casa, persona per persona.
La Tatta diceva appunto, che Rodolfo con quell’osso nella schiena, finirebbe un bel giorno a trovarsi sulla paglia, come era capitato a Pellegrino Michetta di Pomponesco.
Il discorso della vecchia non era allegro e la giornata era triste addirittura.
Sui vestri delle finestre colava la pioggia in lunghe righe sudicie, penetrando dalle fessure fin dentro alla stanza giù giù per il muro, formando una macchia umida sul pavimento. Le ombre della sera si addensavano negli angoli, smorzavano il luccichio delle vecchie cornici dorate, coprivano i mobili di un velo — tutti indistintamente — lo stipo intarsiato, le tende delle finestre di percallo bianco, il divanuccio bigio, il tavolo rotondo di noce, sul quale una violaciocca dentro a un bicchier d’acqua, metteva una nota gaia di primavera; nota stridente su quel fondo cupo, a cui meglio rispondeva il monotono tic tac di un cucù enorme addossato alla parete, in mezzo alle due finestre.
— Quando non si è ricchi bisogna lavorare. Il Signore dice: aiutati che ti aiuterò. E se non ci aiutiamo da noi stessi è inutile sperare appoggio dagli altri.
Le parole della Tatta risuonavano lugubri ancora, allorchè una figura di donna attraversando la corte sostò davanti a una delle finestre appoggiando contro i vetri una faccia sbigottita.
— La Luigina a quest’ora, e con questo tempo! che vorrà mai?
Daria balzò in piedi e mosse ad aprire l’uscio, mentre la Tatta fissando gli sguardi intelligenti e sospettosi sulla visitatrice, cercava di indovinare il motivo della comparsa inaspettata...
Non è che la signora Luigina fosse straniera in quella casa, che anzi era la migliore, l’unica amica della Tatta, — amicizia dolce e gentile da una parte, dall’altra aspra, irta di punte come uno scoglio. La signora Luigina veniva quasi tutti i giorni a trovare l’amica, di buon mattino, tornando dalla chiesa, e si fermava qualche ora a lavorare e a discorrere.
Chi fosse in origine costei nessuno lo sapeva; era venuta da Pomponesco insieme alla Tatta — viveva sola, ritirata; nutriva per la Tatta un’affezione umile, da cane riconoscente; non parlava mai del suo passato — si sapeva soltanto che era nubile.
Minore della Tatta di una diecina di anni, aveva nella sua figura, nell’espressione incerta, nella voce tremante sempre, qualche cosa di infantile; sembrava che della vita avesse conosciuto una parte sola, quella dell’ideale — e vi si fosse attaccata tenacemente, come persona, a cui mancano i legami terreni. Nei suoi occhi chiari, un po’ smunti, raggiava tranquilla la fede e nessun lampo mai, nessuna scintilla ne turbava l’iride inalterata.
Sulla fronte pura, alta e stretta, senza rughe, i capelli quasi bianchi segnavano una riga piatta, che terminava di dietro in una magra treccia. Il corpo smilzo e spersonito, privo di qualsiasi forma, sembrava nascondersi sotto una veste color cenere a pieghe sulle spalle con due balze in fondo alla sottana. Un’aria stanca, una eccessiva timidezza unita all’espressione di sbigottimento, ch’era in lei costante, le davano un insieme singolare che si prestava al ridicolo. Sembrava una figurina di cartone mossa da un congegno meccanico; una di quelle monachelle di carta pesta, che quando vuol piovere tirano avanti il cappuccio. Non si capiva assolutamente, come mai quella persona avesse potuto avere cinque anni e un visetto paffuto — poi dieci anni e saltare alla corda — poi quindici e ballare — poi venti e fare all’amore. La signora Luigina doveva essere nata così, coi suoi occhi sbiaditi, col suo vestito cenere a pieghe sulle spalle, colle due balze in fondo, che non c’era mai stato bisogno di allungare. La signora Luigina aveva mezzo secolo e quel mezzo secolo lo aveva passato nel limbo, insieme alle anime innocenti.
— Con quest’acqua, signora Luigina! — esclamò Daria, sorridendo degli sforzi d’equilibrio, che la buona signora faceva per non bagnarsi i piedi. La signora Luigina entrò, cadde sulla prima sedia e giungendo contro il petto le mani che poi scivolarono sfinite sui ginocchi, disse:
— Ah! care amiche!
— Ebbene? — tuonò la Tatta.
Daria capì, che la ruvidezza della zia era intempestiva, e presentendo una disgrazia, pregò la signora Luigina a spiegarsi subito.
Ma la signora Luigina tremava tutta; una scossa nervosa le faceva dondolare la testa avanti e indietro; vi portò le mani meccanicamente e ne tolse gli spilli di ferro che sostenevano i capelli perchè c’era troppo elettricità intorno a lei e il suo debole cervello non reggeva più.
A vederla con quelle due treccioline lungo le guancie, simili a codini di sorcio, Daria si ricordò che aveva fatto lo stesso quando era morto suo cugino, e trovandola sprofondata nel medesimo abbattimento, immensamente triste nel suo ridicolo, le chiese con angoscia:
— Chi è morto?
Allora la signora Luigina, cui non restava che una parola a dire, la disse:
— La signora della casa bianca.
— Povera donna! fece Daria.
La Tatta non aggiunse nulla.
— Andai — continuò la signora Luigina con accento lamentevole — a confortare quella povera Matilde, cui non reggeva l’animo di restare presso alla madre.
— E chi veglia la morta?
— Suo figlio Ippolito; Matilde è troppo sensibile. Se l’aveste veduta quante lagrime, quanta disperazione!... ed ora è là sola o quasi, perchè il fratello si ostina a non lasciare la camera della morta — l’avrei condotta con me... ma...
Evidentemente, la risoluzione era troppo energica per lei: i suoi occhi smarriti facevano il giro delle pareti in cerca d’aiuto.
Intanto la Tatta si era slacciata il grembiule e preso uno scialletto, che stava a cavalcioni della sua sedia, si incamminò senza parlare fuori dell’uscio.
— Va a prenderla — disse Daria con una sincera commozione nella voce, mentre un pensiero lontano, quasi dimenticato venne a corrugarle la fronte.
E tacquero entrambe aspettando.
La pioggia continuava a cadere lenta, monotona nell’ombra della corte; la stanzetta era quasi buia e il profilo delle due donne sedute sul divano bigio, ritte ed immobili, pareva quello di due statue.
Il cucù, addossato al muro come un lungo fantasma nero, continuava a fare tic tac, tic tac, tic tac.