La Regaldina/I
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I.
C’è un fiume che scendendo giù dalle Alpi diritto per le pianure lombarde, accarezza con singolare amore i confini della provincia bergamasca, e scorrendo sempre ridente e calmo fra le rive basse tappezzate di verde, giunge ad un punto, dove piega bruscamente correndo verso l’est.
In quest’angolo, che il fiumicello disegna attraverso le opulenti campagne, come braccio d’amante stretto intorno alla sua bella, sorge nel silenzio grave della pianura un grosso borgo, che fu altre volte castello cinto di mura e di fossati, ma che dilaniato dalle guerre coi vicini, distrutto più volte, posto a ruba dalle soldatesche straniere, sventrato dalla fame e dalle pestilenze, non serba più alcuna traccia della sua vita belligera — e caduto nella confortata rassegnazione di un benessere materiale, serba solo come memoria degli antichi fatti un meschino rancore (degenere sentimento degli odi passati) contro i paesi vicini più floridi e più potenti.
Il suo orgoglio moderno, la sua gloria, il suo vanto, gli vengono da un celebre Santuario unito al paese mediante un lungo e ricco viale di bellissimi ipocastani, e che è come la corona gentilizia, di cui si adorna nelle grandi occasioni.
Il Santuario e il paese si guardano; il primo severo, colla sua cupola eletta al cielo, troneggiante al disopra degli alberi; il secondo adagiato al sole, indolente, come un sibarita grasso che fa la siesta — mascherato da una porta di stile barocco dipinta in color carnicino sullo sfondo di una gran casa gialla dall’apparenza insolente e triste; nota stonata nell’armonia dei grandi alberi verdi, dei campi di ravettone splendenti come oro fuso sotto un cielo di cobalto.
L’afa di una calda sera di giugno mista alle nebbie vespertine cadeva sul borgo come un tacito invito al riposo; e a quest’invito il borgo rispondeva colla voce delle sue numerose campane spandenti per l’aria i rintocchi dell’avemaria.
Frotte di fanciulli scappati di casa colla merenda nel grembiulino si rincorrevano sotto la vôlta profumata degli ipocastani, dando la caccia ai cervi volanti, attratti dalla maestà graziosa del Santuario, che appariva in fondo al viale: floridi fanciulli dai visi intelligenti, con una leggiera canzonatura negli occhi, con una piega già adulta nel sorriso; fanciulli, che saranno forse in breve uomini codardi o maligni, ma che hanno ancora sulla fronte i gigli dell’innocenza — e insieme a loro vispe ragazzette, conservatrici fedeli del tipo paesano, dalla carnagione bianco-rosata, dagli occhi molli e indagatori.
Le risate argentine si prolungavano fuori del paese, lungo i viottoli dei campi, su per le siepi di more, in riva agli stagni e alle gore, dove tra l’erba fresca saltellavano gracidando le rane. Sugli usci delle case venivano di tratto in tratto le madri a spiare da lungi collo sguardo il ritorno dei piccoli disertori.
Da ognuno di quegli usci aperti si sprigionava a ondate nauseabonde l’odore dei bozzoli maturi, poi che era il tempo del raccolto, ed ogni famiglia teneva bachi o molti o pochi secondo i mezzi.
Quell’odore persistente, acutissimo, invadeva tutte le contrade, appiccicandosi alle vesti, mescendosi alle altre esalazioni, da padrone che si impone colla forza brutale dell’interesse. Nelle camerette remote, nei giardini, sui poetici veroncelli esso dominava, accolto come un amico, e lieve saliva colla nebbia della sera avvolgendo il borgo tutto nelle sue spire, finchè andava digradando nei campi, sotto di folto viale d’ipocastani e moriva vinto dalle forti esalazioni del fieno primaverile ammucchiato nei prati.
Le campane continuavano a suonare adducendo pochi fedeli al tempio, che le massaie occupate nella gran faccenda dei bozzoli rimandavano a tempo più comodo i loro affari con Dio; solo qualche vecchia abbandonata dal mondo scivolava lungo i muri fino alla chiesa, dando occhiate furtive negli usci aperti, in fondo agli anditi, dove fumava lo strame dei bachi e dove intorno al bosco atterrato le donne si accoccolavano carponi in mezzo alla bava immonda, per cogliere i bozzoli.
Più tardi, uscendo dalle porte spalancate della chiesa parrocchiale, un leggero fumo d’incenso ruppe l’aria per un istante, ma l’afa riprendendo i suoi diritti si strinse sul borgo e lo coprì di un fitto velo.
I fanciulli intanto tornavano per i sentieri coperti di rugiada, con dei fili d’erba in mezzo ai capelli — tornavano cantando, lieti della loro giovinezza e del loro bottino; di tutto ciò che avevano saccheggiato nei campi: fiori, grilli, frutti di gelso, festuche, sassolini — la gioia intensa di vivere brillava nei loro occhi sereni. Le madri rizzandosi sullo strame sospendevano il lavoro per abbracciarli, poi subito tornavano alla loro occupazione sollevando con fatica — raggianti in volto — i panieri pieni di bozzoli, raccattando colle mani le larve imputridite, perchè non insudiciassero le altre — beate di quell’odore di materia in fermento, che saliva loro alla testa con delle note d’ebbrezza, come un’anticipazione giuliva dei lauti guadagni.
In quell’ora, e nella nebbia della sera, il fossato, che cinge il borgo, scintillava tacitamente ai raggi della luna — colle sue acque verdi, limpidissime, striate d’argento. Alimentato da due fiumi esso reca la vita e il movimento a una quantità di mulini e di opifici, passando per campi, orti e giardini, vedendo crescere sulle sue sponde i rami preziosi dei gelsi, aggruppati ai mandorli in fiore.
A nord est del paese la roggia (è questo il nome preferito e generalmente usato) si biforca, e da un lato fiancheggia il bellissimo viale del cimitero, dall’altro si interna fra le case formando piccoli bracci e seni. Uno di questi bracci più largo, più profondo degli altri, disteso a guisa di confine fra due proprietà ben distinte, è chiamato, dal nome della famiglia a cui appartiene, Regaldina.
La casa dei Regaldi si dirizza a picco specchiandosi nella roggia, protendendo sovr’essa la larga balaustra di marmo, che cinge di fianco il cortile.
E’ un vecchia casa nera e cadente, che sarebbe triste nella solitudine di una landa sabbiosa, ma che acquista una certa grazia giovanile dalla ridente posizione in cui si trova, lambita dalle acque, in mezzo agli orticelli ricchi d’alberi e di viti.
Il cortile, piccolo, lastricato come una sala, aperto sul canale e con quella balaustrata di stile barocco tutta lavorata a riccioioni, sui quali il tempo ha disteso uno strato lucente di muschio; questo cortile, ora che le ombre della sera lo invadono, prende un aspetto romantico di patio spagnuolo, con certi fruscii indistinti e certi angoli pieni di mistero.
Dal pian terreno della casa, attraverso un uscio socchiuso, sfugge un sottile raggio, che disegna sulla prima metà del cortile un tappeto di luce e rischiara la parte inferiore di una figura femminile appoggiata alla balaustra. Il resto della persona scompare un poco nel velo della notte, ma per quello che si vede è una fanciulla che non oltrepassa i quattordici anni, alta e flessuosa, dai contorni indecisi, vestita con un lungo abito biancastro, che in quel momento le dà l’aspetto di una statua.
China sulla balaustra lascia penzolare le sue treccie disciolte fin quasi a toccare l’acqua della roggia, mettendo in questo giuoco una innocente e forse inconscia civetteria di donna.
— Bada a non cadere, Daria.
E chi l’ammoniva, dolcemente, con una voce tremula da polmoni ammalati, era un giovine seduto nell’ombra, sul gradino di marmo.
— Non cado, io.
Il giovine si strinse nelle spalle avvicinando i lembi di una ciarpa di lana che teneva intorno al collo.
— Tu piuttosto, perchè stai fuori alla rugiada? Ti crescerà la tosse.
La fanciulla parlava con una cert’aria autorevole superiore alla sua età. Egli, che aveva quasi il doppio di anni, si sentiva umile e piccino davanti a lei.
— Lo sai, che sto sempre bene quando sono con te.
Fu lei questa volta, che si strinse nelle spalle. Si rizzò in piedi e stette muta qualche istante a contemplare una casetta, che biancheggiava dall’altra parte della Regaldina.
— L’hai veduta oggi?...
Il giovine non dimandò chi — aveva compreso; rispose esitando:
— Sì, l’ho veduta; ma perchè me lo domandi? Credi forse...
— Guarda!
Ella tese la mano verso la casa bianca, sulla facciata della quale si era allora spalancata una finestra. Una vocina acuta di giovanetta cantava un’aria d’opera.
— Dimmi il vero — esclamò Daria con uno slancio di semplicità graziosa — tu l’ami?
— No — rispose il giovine risolutamente. — Amo te.
— Questo è inutile, te l’ho detto tante volte. Io sono ancora una ragazza, figurati se voglio pensare a queste cose; e poi siamo cugini... quasi fratelli.
— E poi — disse l’ammalato colpito da un pensiero triste — chi sa se io potrei sposarti!
— Andiamo, adesso, che fai? Quanti discorsi inutili! Se ci sentisse la Tatta!
— Non mi vuoi un po’ di bene?
— Sì, tanto; a te come ai tuoi fratelli; a te forse un po’ più perchè sei buono e... sfortunato. E appunto perchè ti voglio bene mi dispiace a vederti invischiato con quella smorfiosa...
— Ma non sono invischiato.
— Lo sei.
— Ti dico di no.
— Giuralo.
— Lo giuro.
Il giovine le tese la mano — una mano scarna, madida di freddo sudore.
— Che è questo? — esclamò la fanciulla osservando sul dito mignolo di quella mano un anellino di corniola — e vedendo che di giovine taceva, ripetè con doloroso stupore. — E’ egli possibile?... Te lo ha donato lei?...
— Non lo volevo; me lo fece accettare per forza.
Daria si coperse il volto colle mani.
— Vuoi ch’io lo spezzi? Vuoi che lo getti via? Ecco, lo butto nella Regaldina.
Daria gli fermò il braccio.
— No, dallo a me. Sarà questa la prima prova di amore che ti chiedo.
— Piacesse a Dio che non fosse l’ultima!
Le infilò l’anellino sul dito e ristette con compiacenza a mirare l’effetto di quel cerchio sanguigno sulla mano candida della fanciulla; ma ella si ritrasse, pensierosa, e quasi volesse distruggere ogni apparenza volgare in quel pegno di purissimo amore, disse:
— Ho caro che tu m’abbia fatto questo sacrificio, e ti ringrazio; ma non posso accettare l’anello, se tu non mi assicuri che nulla ti lega a quella giovanetta...
— Nulla, credilo; è lei che... ma tali cose non le posso ripetere a te. Mia cara Daria, tu sei un angelo!
— Vedi, ho rimorso; temo di calunniare quella giovinetta, eppure sento in me qualche cosa, che mi mette in guardia contro le sue arti. Ho il presentimento, ch’ella debba riuscire fatale alla nostra famiglia. Fin dal primo giorno, che la casa bianca venne affittata, fin dal primo giorno ch’io vidi Matilde, per una quantità di piccole cose, che ora non potrei spiegare, e per lei, per i suoi occhi cattivi, per il suo sorriso falso, capii che m’avrebbe fatto del male. E quando mi accorsi, che quella fanciulla senza cuore voleva rubarti, rubar te, l’onore e la speranza della nostra povera famiglia, oh! allora desiderai di poterti amare con tutte le forze dell’anima per strapparti a lei. Capisci?...
— E però non m’ami!... — disse il giovine malinconicamente.
— Ti farebbe proprio piacere che io ti amassi? Proprio?
Per tutta risposta il giovine le baciò la mano, lontano dall’anello, sull’estremità delle dita. Ella contemplò a lungo quella faccia dimagrata, quella fronte intelligente, dove brillavano due occhi, che fra poco si sarebbero chiusi per sempre; e vinta da una pietosa carità di donna, mormorò:
— Ebbene, ti amo.
Egli non disse nulla; forse indovinò la menzogna. Chinò la testa, sempre tenendo la mano di lei e respirando forte con un affanno nei polmoni e nel cuore.
Il silenzio solenne dei due cugini, immersi nelle tenebre del cortiletto, fu rotto da schiamazzi e grida birichinesche al di là della roggia, dietro la casa bianca, dove si allungava la strada maestra.
— Sono i tuoi fratelli — disse Daria. — Come rientrano tardi! La Tatta li sgriderà.
— Pare impossibile, che Rodolfo che ha già i suoi sedici anni sia ancora tanto ragazzo; pazienza Pierino.
— Che vuoi? Essi non assomigliano a noi due piccoli vecchi; noi non siamo stati bambini come gli altri, nevvero? Per parte mia ho sempre trovato la vita così seria, che non ebbi mai voglia di ridere.
Prima che i ragazzi annunciati arrivassero alla porta della casa, l’usciolo a pian terreno si aperse con violenza, e una vecchia facendosi sulla soglia, coll’un braccio inarcato sul fianco, gridò:
— Non viene a cena nessuno questa sera? Dov’è Rodolfo? dov’è Pierino?
— Tornano adesso — rispose la fanciulla. — Ho sentito le loro voci.
— E voi due, che fate lì? — tornò a gridare la vecchia con asprezza. — C’è qualcuno, che ha salute di troppo e cerca tutti i mezzi per tornare più presto al Creatore?
— Andiamo; non facciamola andare in collera — bisbigliò Daria all’orecchio del giovine malato.
Egli si levò in piedi con qualche stento, e appoggiandosi al braccio di lei:
— Non dir nulla dei nostri discorsi di questa sera.
— No.
— Nemmeno dell’anello; deve essere un segreto fra noi due.
Erano in piedi. Davanti a loro la Regaldina scorreva limpida riflettendo le stelle: dall’altra parte la casa bianca taceva, immersa nel silenzio e nell’oscurità. Il medesimo pensiero attraversò il cervello di entrambi.
— Te lo prometto — disse il giovine rispondendo a quello, che la fanciulla non aveva detto ancora. E si avviarono, lenti e gravi, verso la casa.